Corsi e ricorsi
di GABRIELE GERMANI (Pagina FB)
L’idea dell’uomo solitario, in lotta con tutti i suoi simili, formalizzata dall’inglese Hobbes nelle due frasi: “Bellum omnium contra omnes” e “Homo homini lupus”, diventa dominante proprio nell’Inghilterra moderna e da lì in tutto il mondo. La nascita della borghesia e l’affermazione dell’astro londinese sulla finanza globale, hanno fatto la fortuna di queste idee, in finale le radici antropologiche del liberalismo.
Ciascuno di noi è solo e in lotta con tutti gli altri per prendere quante più risorse possibili, l’ordine viene mantenuto solo tramite un Leviatano che si impone su questa natura egoista e meschina che ci pervade.
I precedenti romani, per quanto anche essi collegati ad una certa idea verticistica del potere, presentavano più un valore disincantato verso la natura umana, affine allo spirito antico.
Questo mito sopravvive fino all’epoca moderna e rimane ancora oggi dominante, ma non tiene conto di tutto quello che abbiamo visto fuori dal contesto europeo dove i valori del capitalismo la fanno da secoli da padroni.
Gli antropologi francesi notarono per primi l’economia del dono, quelli di scuola anglosassone constatarono il forte egualitarismo (e la tendenza a distruggere la ricchezza in eccesso) nelle comunità nordamericane. I vari studiosi europei constatarono che tanto più le popolazioni erano arretrate per gli standard occidentali (e quindi padroni di meno oggetti), tanto erano generose, animate da una spirito di condivisione ed accoglienza.
Tutti noi conosciamo il sacro valore dell’ospitalità che coinvolgeva molte delle società pre-moderne. A fronte di un’isola di cannibali, gli uomini di Magellano poterono completare il giro del mondo incontrando tante altre popolazioni ospitali, gentili o almeno non ostili.
Mauss teorizzò l’economia del dono che si costituiva di tre momenti: dare, ricevere, ricambiare. Il dono stabiliva un rapporto, una relazione di pace e poteva servire a collocare un individuo nel gruppo. Il punto fondamentale è il “ricambiare” non ha tempi prestabiliti, non siamo nel mondo del debito e del commercio, non avviene uno scambio fondato sul dovere, ma sulla libertà e sulla relazione.
Il dono deve permettere equilibrio nelle comunità, evitare che qualcuno accumuli più di altri, rinsaldare i vincoli di gruppo, l’identità, la partecipazione.
La società agricola conteneva già (mai metafora fu più appropriata) il germe dell’accumulazione, per piantare il raccolto dell’anno seguente serviva il seme, una parte del raccolto andava tesaurizzata e usata in seguito. Lo sviluppo tecnologico permette un’accumulazione di beni tale da prevedere necessariamente una stratificazione sociale e una divisione dei compiti. L’esperto di libri non può essere esperto di metalli, l’esperto di mucche non può anche essere esperto di falegnameria. Lentamente nacquero le professioni e qualcuno si separò dalla produzione materiale del cibo, le riserve permettevano anche la creazione di un ceto di mercanti e di professionisti, dei burocrati e dei religiosi. In qualche modo, questi organi si stabilizzarono. Oggi abbiamo molte difficoltà a capire quali elementi parteciparono a questa congiura contro la libertà: fu l’abbondanza del raccolto? Fu una coincidenza (un po’ troppo poco per imporsi a tutto il mondo)? Fu una volontà di accumulare oggetti? Un vantaggio sui gruppi vicini che poi portò a emulazione?
Quello che sappiamo è che il fenomeno avvenne in modo graduale, ancora in epoca storica, i nomadi delle steppe continuavano a conservare la ricchezza in forme agili: armi (quindi anche una ricchezza utile) o monili (leggeri e facili da scambiare). I ritrovamenti tardi mostrano che quando gli Sciti cominciarono a saccheggiare civiltà urbane, in Mesopotamia o Medio Oriente, lentamente ne importarono i modelli di potere (rappresentazione del leone) e delle comode sedute vagamente ricordanti un trono regale (difficili quindi da trasportare per dei nomadi). Qui assistiamo a un processo già successivo: le civiltà urbane e agricole si erano imposte nelle aree temperate di Medio Oriente, Valle dell’Indo, Nilo e Fiume Giallo; Mediterraneo e Giappone si avviavano lentamente sulla stessa via; le steppe e le carovane del deserto rimanevano come resistenze marginali in un mondo che nascondeva una grande capacità omologante, in cui già ambasciatori potevano viaggiare dal Medio Oriente alla Cina -seppur tra mille peripezie-. I nomadi erano già condannati a subire il fascino delle città, a diventare la controparte dialettica del mondo stanziale, l’incubo degli urbanizzati che costruirono limes, muraglie, città, fortificazioni, castelli e feudi per proteggersi dall’ignoto, dal fantasma della libertà.
Paradosso della storia vuole che nessun muro tenne fuori i nomadi delle varie epoche (e non lo faranno nemmeno nella nostra) e che una volta entrati i nomadi furono i principali guardiani dell’ordine, ne diventarono soldati, burocrati e talvolta imperatori… Corsi e ricorsi.
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