[Per la sua inchiesta sul giornalismo culturale contemporaneo Maria Teresa Carbone oggi ha intervistato Guia Soncini. Queste sono le conversazioni precedenti: Gianluigi Simonetti, Ilaria Feole, Francesca Borrelli, Andrea Cortellessa, Paolo Di Stefano, Giorgio Zanchini, Valentina Berengo].
1) Nella sua rubrica “L’avvelenata” su Linkiesta qualche giorno fa lei ha scritto che “i libri non contano niente”, che “non li legge nessuno”. Ma se è così, perché scriverne, perché scriverli? [Credo sappia che la nota biografica nel suo ultimo libro (Questi sono i 50. La fine dell’età adulta, Marsilio 2023) suona così: “GUIA SONCINI ha scritto un romanzo, un paio di film, ma soprattutto migliaia di articoli e alcuni libri di critica culturale (Elementi di capitalismo amoroso, I mariti delle altre, Come salvarsi il girovita, La repubblica dei cuochi, L’era della suscettibilità, L’economia del sé) col vasto programma di capire come siamo diventati quel che siamo, e la scellerata ambizione di sistematizzare il presente”].
La prima cosa che devo fare, dunque, è giustificarmi della mitomania della nota biografica. E, per farlo, mi tocca raddoppiare in mitomania. Negli anni Ottanta Alberto Arbasino doveva essere particolarmente irrequieto, perché da un libro all’altro cambiava nota biografica. Un paio di libri (miei) fa, ho notato quella che c’è sulla quarta di copertina di Matinée (Garzanti 1983). Faceva così: «A proposito dell’Italia contemporanea (cioè fin-di-secolo, di “questo” secolo), tenta di svolgere in diverse forme un’opera di testimonianza, documentazione, commento, ad uso dei coetanei e magari dei nipoti». Con lo stesso piglio con cui le professoresse democratiche quarant’anni fa ritagliavano la pagina di rotocalco col vestito da sposa di Diana Spencer e la portavano dalla sartina per farselo fare uguale, io me ne sono scritta una ricalcata.
La risposta onesta a «perché scrivere libri» temo sia: perché è facile. Una canzone richiede doti sovrannaturali, un film un investimento economico notevole; un libro possono scriverlo più o meno tutti, e in Italia lo pubblicano veramente a chiunque. E poi c’è sempre quel tarlo di «che ne sai che non è la volta del grande successo»: è una discussione che faccio spesso con altri autori non da grandi numeri, che ti dicono che né Tizio né Caio sapevano che il loro bestseller sarebbe diventato tale; ma secondo me Tizio e Caio mentono per non farci morire d’invidia.
2) Ipotizziamo che fosse una provocazione: del resto, non si capirebbe sennò come mai lei scriva spesso di libri (incluse citazioni più che appropriate di autori come Bourdieu o Heidegger, che non sono diventati famosi su Instagram). E allora, quando scrive libri e di libri, quali lettori immagina? Quando li incontra alle presentazioni o ai festival, le capita di avere sorprese? E a proposito di festival e presentazioni, cosa ne pensa, dal suo osservatorio di critica culturale? Come mai si moltiplicano, se le persone non leggono? A cosa servono? A chi?
Per «provocazione» chiamo l’avvocato. Bourdieu su Instagram sarebbe stato perfetto, qualcuno dovrebbe aprire una pagina in cui posta quel che posterebbe Bourdieu, o esiste già? Possibile che nessuno ci abbia pensato? Ci sarà di sicuro un tesista del Dams che fa i meme à la Bourdieu, figuriamoci. I lettori non li immagino, come non immagino gli elfi dei boschi: i lettori non esistono. Nessuno legge più niente, non solo i libri. Un’amica mi raccontava che ha passato agosto, al mare, a definire i suoi figli «lanzichenecchi». Non uno dei suoi interlocutori dava mostra di cogliere la citazione. Noi avevamo passato settimane a baloccarci con Alain Elkann in lino stazzonato e i lanzichenecchi in treno, a convincerci che quello fosse il massimo momento di gloria che le pagine culturali avessero conosciuto in questo secolo, l’articolo che tutti avevano letto, la polemica che tutti avevano intercettato, e poi ti sposti dal tuo bozzolo e nessuno sa di cosa tu stia parlando. Ed era in Maremma, l’amica: se Elkann che si ossigenava a Benevento non era arrivato in Maremma, figuriamoci sulle spiagge del paese reale.
Riguardo ai festival. Il pubblico ci va come va a tutti gli eventi – credo di aver già detto che «eventi» è la parola contro cui ci saremmo dovuti concentrare, invece di farci distrarre da «resilienza» – per la ragione per cui va ovunque: per creare contenuti. Questo è il secolo in cui tutto è “contenuto”: se in un posto posso farmi una foto, un video, un qualcosa, allora vale lo sforzo. L’altro giorno ho visto una tizia che diceva «sono una creatrice di contenuti», come una volta avrebbe detto d’essere una commercialista o una commessa. Solo che la commercialista e la commessa fanno delle cose, di lavoro; la creatrice di contenuti, di lavoro, accende la telecamera del telefono prima di fare delle cose. L’anno scorso ero a un festival estivo, oltretutto a presentare un libro in cui parlavo proprio di questo tipo di esibizionismo, quindi l’episodio è così didascalico che se lo metti in una sceneggiatura il pubblico sbuffa. Arrivano due signore col libro da farsi firmare, lo dedico, poi una dice «No dai, lo sai che lei non ama i selfie», l’altra mugugna, e io, sentendomi vieppiù magnanima, dico: ma certo, facciamoci questa foto. Ci facciamo la foto, se ne vanno, io firmo qualche altro libro, quando finisco è rimasto un libro sul tavolo, lo apro, e c’era la dedica per quelle due, che l’avevano lasciato lì. Ecco, era questa la risposta che avrei dovuto darle a «perché scrivere libri»: perché ti chiedano le foto come se fossi una concorrente di reality. Le due signore avevano speso il prezzo di copertina, mi pare diciotto euro, per farsi la foto. Considerato quanti se ne tiene l’editore, forse mi conviene metter su un servizio di foto a pagamento, disintermediare l’incasso da autoscatti eliminando la scusa del libro, che oltretutto in casa prende polvere. Poi c’è la parte autori: perché gli autori vanno ai festival? Perché hanno un ego così piccino da avere bisogno del nome in cartellone per sentirsi vivi? Io, le poche volte che ci vado, lo faccio per soldi, come tutto. I festival non servono a niente, se non sei, che ne so, Stefania Auci, Gramellini, gente che firma duecento o trecento copie a margine dell’incontro. Per noialtri mortali, i festival si dividono tra quelli in cui firmi cinque copie, e quelli ai quali l’editore s’è proprio dimenticato di mandare il libro. Immagino saprà che, del tema preferito dagli scrittori, ovvero le lamentele riguardo all’editore, il sottogenere più amato è «confrontiamo le nostre storie di presentazioni infernali alle quali l’editore non mi ha fatto trovare le copie». E qui ci sarebbe da aprire l’ennesima incidentale, riguardo all’industria culturale italiana che non è un’industria, in cui guai a parlare di numeri: tenerci a vendere appare come una specie di delitto contro il buon gusto. Ma non voglio divagare prima d’aver terminato la risposta sui festival. I festival non servono agli editori, ai quali evidentemente non importa più di tanto di vendere i libri, almeno i miei e quelli di chi con me scambia aneddotica sulle mancate copie. I festival non servono agli autori, che si sbattono ad attraversare il paese e buttano due giorni per farsi intervistare da qualcuno che nella maggior parte dei casi non ha letto il libro che vendi quella sera né alcunché di tuo e ti cita frasi che ha trovato su citazionisbarazzinepuntoit – e neanche puoi insultarlo, perché, non essendo l’industria culturale un’industria, al presentatore pareva inelegante chiedere un cachet, e quindi è lì per un bicchiere di plastica pieno a metà di prosecco sgassato. I festival servono solo ai festival, che per organizzarsi ricevono finanziamenti pubblici, soldi dagli sponsor, e fondi che non vedo proprio perché non debbano in parte versare a me che vengo a sentirmi chieder conto delle mie citazioni più sbarazzine e a dormire in un tre stelle con asciugamani d’acrilico. Arbasino non l’avrebbe mai fatto, per inciso.
3) Immagino che questa risposta non le attirerà le simpatie degli organizzatori di festival, dopo che i tre quarti degli editori italiani hanno protestato quando lei ha scritto che nessuno legge più libri. Ma per chi ha scelto come titolo della sua rubrica “L’avvelenata”, non dovrebbe essere un problema. Oppure qualche volta il ruolo le sta stretto? (Eventualmente può dire quando e come?). E visto che io ho impiegato la parola “problema”, un tempo abusatissima, ha notato che ora non la dice più quasi nessuno e tutti parlano di “sfida”?
Tutti dicono «sfidante» invece di «impegnativo», più che altro, e io me lo vedo quel mattino in cui qualche disgraziato in qualche redazione doveva copiare male un articolo americano, e arrivato a «challenging» ha detto non voglio sembrare un pubblicitario milanese che parla mezzo in inglese, come si dirà in italiano, ha iniziato a scrivere la parola su Google, e il suggerimento automatico a metà parola era «sfida», challenge, e lui ha detto ma certo, sfida, sfidante, perché appartiene a un secolo che non sa né l’inglese né l’italiano e i cui abitanti, se gli dici che non c’è bisogno di dire «slur», esiste «insulto», ti rispondono «la lingua cambia», che è il «mogli e buoi» di gente la cui evoluzione rispetto alle nonne in provincia è che legge le pensatrici di Instagram invece che il calendario di Frate Indovino.
“L’avvelenata” è l’unica mia rubrica della quale non abbia pensato io il titolo. No, non è vero, c’è stata anche “La deficiente”, il cui titolo era di Franca Ciampi. “L’avvelenata” me l’ha proposto Christian Rocca, che tra l’altro credo non abbia mai sentito una canzone di Guccini, e io ho detto subito di sì perché non è previsto dal mio codice etico che dica di no a una citazione di Guccini. È una canzone – un’invettiva – del 1976 che sembra scritta domani: non credo esista sintesi più perfettissima di noialtri stronzi schiavi dei telefoni con la telecamera di «nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento». Però mi par di capire che, nel secolo in cui oltre all’italiano non si va fortissimo neanche in cultura generale, la citazione vada smarrita: l’altro giorno ho letto un tizio che commentava quel solito articolo sui libri non letti dicendo che un’avvelenata dovrebbe essere indebolita dal veleno, ma io non gli sembravo tale. Quindi, per non scansare la sua domanda, no, non mi va stretto il nome della rubrica, nella quale scrivo le stesse cose che scriverei se si chiamasse “L’amabile”: mi va stretto un secolo in cui bisogna mettere le didascalie a tutto perché nessuno ha voglia di sbattersi a capire neanche i più semplici riferimenti. Le farei vedere i commenti «smettila di tirartela con queste cose che conosci solo tu» che mi arrivano quando cito prodotti di nicchia come Il sorpasso.
4) In quello stesso articolo lei si è chiesta se “esiste oggi, nel realismo cuoricinista, la possibilità … di essere un intellettuale ritenuto rilevante senza essere scomponibile in comodi bocconcini predigeriti, senza fornire slogan da maglietta, senza esprimersi in forma riducibile a una card di Instagram”. È una domanda retorica a cui si può rispondere solo di no? In questo caso, si tratta di una situazione solamente italiana? Se no, può citare qualche nome?
L’articolo più famoso della storia del giornalismo americano è un’intervista senza intervistato. È il 1965. Gay Talese – uno di quelli che hanno inventato il new journalism, assieme ad altri minori come Joan Didion e Tom Wolfe – è passato dal “New York Times” a “Esquire”, dove gli lasceranno scrivere articoli molto più lunghi ma il direttore di quello che è pur sempre un mensile patinato vuole che ogni tanto intervisti una celebrità da mettere in copertina. E quindi lo manda a Los Angeles a intervistare Frank Sinatra. Il quale però è malmostoso, in tv gli hanno appena chiesto dei suoi rapporti con la mafia, rimanda, traccheggia. Talese passa settimane a osservare Sinatra da lontano, a un semaforo, in un locale in cui forse è di malumore perché Mia Farrow l’ha bidonato, in uno studio televisivo. Settimane a parlare con compagne di scuola della figlia, facchini d’albergo, guardie del corpo, controfigure. Cinque mesi dopo, esce il più formidabile ritratto di personaggio famoso – ma forse “reportage” sarebbe una definizione più adatta – scritto fino ad allora e da allora in poi: Frank Sinatra ha il raffreddore. Ora lei penserà che le abbia raccontato questa storia per dire che oggi nessun giornale ti dà tre mesi di budget per star dietro a una celebrità renitente, e sarebbe in effetti una buona ragione per usarlo come esempio di come tutto sia andato in vacca. Oppure che la citi per dire che oggi nessun giornale pubblicherebbe un pezzo su Tizio Famoso senza virgolettati di Tizio Famoso «quella volta che mia madre non mi ha preso in braccio» rilanciabili dai siti tutti. E anche questa è in effetti una chiave valida. Ma il mio punto è che un paio di mesi fa il “New York Times” ha mandato una tizia in Inghilterra sulle tracce di Tom Cruise. Nessuno sa dove viva Tom Cruise, nessuno sa quasi niente della vita di Tom Cruise. Ma si dice abbia casa in Inghilterra, e quindi hanno mandato una loro giornalista brillante a fare il Frank Sinatra Has A Cold che questo secolo può permettersi. Un lungo racconto della ricerca vana di Tom Cruise. Per quel che vale la percezione social, è stato un pezzo di successo: me lo vedevo spuntare da qualunque account americano. Era un articolo di ipnotica mediocrità. Che – mi sento mia nonna a dirlo ma pazienza – temo sia l’unico tipo di prodotto culturale che può avere successo oggi: una cosa di cui il lettore possa dire «anch’io l’avrei scritto così». Una cosa che non complessi l’odontotecnico o l’elettrauto che sono convinti – poiché hanno un telefono con dentro i social e le app di messaggistica e quindi scrivono ogni giorno: mai, prima d’ora, gente il cui mestiere non è scrivere ha scritto così tanto – di essere non pubblico ma coprotagonisti, non fruitori ma colleghi. Quando parliamo dell’uso-Cesira, dell’abbassamento del livello di cui parlava Gadda, tendiamo a non ricordarci che lui ne parlava ottant’anni fa. Quando non esisteva neppure l’istruzione obbligatoria. Quando ho scritto quell’articolo sui libri che non legge più nessuno, uno scrittore mi ha mandato un messaggio che conteneva una grande verità: «I dati dicono che non abbiamo mai letto tanto, e guarda come siamo messi». Leggiamo cose ipersemplificate (ipercesirate?) e non le capiamo comunque, e quindi chi scrive cesirizza sempre più, per il terrore di perdere la nostra labilissima attenzione. Quando Baricco spiegava in tv com’era costruita una frase di venti righe di Proust, la me ventenne l’ascoltava incantata; oggi, le figlie ventenni del ceto medio riflessivo alla prima descrizione lanciano il libro dalla finestra (e pure noi, ché l’attenzione frammentata da notifiche continue mica è esclusiva dei ventenni). Nel racconto della tapina del “New York Times” non c’era nulla di quel che c’era in Talese, non c’era scrittura, non c’era ciò che se lei ora mi chiede di spiegarle cosa sia io non le so rispondere, ma se lo vedo lo riconosco. Non c’era stile, perché lo stile è una fatica da scrivere e da leggere, e – mi ripeto – nessuno ha voglia di far fatica.
5) Nella sua rubrica lei si definisce spesso “novecentesca”. Come si distingue un (autore, giornalista culturale, intellettuale) “novecentesco” da chi ha avuto la fortuna o la disgrazia di nascere dopo? È l’adesione ai social a fare la differenza o c’è altro?
È il saper cambiare il nastro alla macchina da scrivere; il trovare imbecilli quelli che ti mandano un messaggio con scritto «scrivi» quando li chiami e non rispondono, perché intere generazioni hanno il terrore d’avere una conversazione telefonica e pensano che vorrai passare i prossimi quaranta minuti a spiegare per iscritto una cosa che si risolverebbe in una telefonata di due minuti; il riuscire a capire il tono di una cosa scritta senza bisogno di disegnini sorridenti; il non dire «Eh ma non ero nato» se qualcuno ti nomina il muro di Berlino, le carrozze a cavalli, il cabaret, Bellini e Cocciolone, la tournée di Banana Republic, i corsetti, la rivoluzione francese, Vermicino, il fax, la Dc. Però forse ho torto. Sono convinta da anni che chi ha venti o trent’anni adesso soffra di presentismo, della convinzione d’aver inventato il mondo, come a noi – a me che ne ho cinquanta, a chi è persino più vegliardo di me – non era mai successo. Ma quando parlano quelle tre o quattro persone che mi sembra capiscano l’umanità meglio di me cerco di stare a sentire, e di recente Zadie Smith ha detto al “Guardian” una cosa che mi ha spiazzato. Ha preso la principale caratteristica che io attribuisco ai giovani di questo secolo – la convinzione che tutto succeda a loro per primi, che il mondo cominci con loro, che non esistesse la storia prima di loro: una specie di Fukuyama al contrario – e l’ha addebitata a noi. A me, a lei, a quelli che sono nati tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. «Abbiamo lavorato e nessuno aveva mai lavorato prima. Abbiamo fatto figli e nessuno aveva mai fatto figli prima. E adesso abbiamo la menopausa e oh se ve ne accorgerete». Ho letto questo paragrafo in cui Zadie Smith indica, come segno del nostro essere una generazione convinta che tutto quel che le accade stia accadendo per la prima volta, il fatto che escono sempre più libri sulla menopausa, e giuro sul dio della dissonanza cognitiva che ho pensato: ma quali libri sulla menopausa, io non ne ho visto neanche uno. Poi mi sono resa conto di averne praticamente scritto uno, e quindi niente, è sempre quella storia che quel che pensi degli altri non dice niente degli altri ma dice tutto di te.
6) Personalmente credo sia possibile pensare e dire cose davvero nuove, ma che questo succeda molto più di rado di quanto pensiamo – una o due volte in un secolo, quando va bene. Oggi però si tende a procedere per generazioni, anzi per decenni o poco più – la Generazione X, i Millennial, la Generazione Z (questi poverini che si ritrovano alla fine dell’alfabeto, e quindi chiamarli lanzichenecchi è più gentile, gli si dà se non altro un futuro), ognuna con caratteristiche precise che la distanziano dalle precedenti e dalle successive. Non si corre il rischio di semplificare troppo e (appunto) di dimenticare il passato anche vicinissimo?
Più che il passato, questa menata delle generazioni mi pare farci dimenticare che la lingua è fatta per capirsi, se non è condivisa non serve a niente. È l’ennesimo portato dell’americanizzazione dell’occidente, come un po’ tutto da «maschio bianco cis» a «abilismo». «Millennial» è come «sfidante», con l’aggravante che, poiché come già detto gli automatismi sono la cifra stilistica dei nostri sciatti tempi, i giornali continuano a parlare dei millennial come fossero i bambini che erano la prima volta che li hanno nominati in un articolo, e quelli nel frattempo han passato i quaranta. Non molti anni fa mi hanno chiesto un articolo su non mi ricordo quale abitudine dei millennial, e dalla richiesta era chiaro che li pensavano adolescenti. Ho fatto presente che ormai erano genitori, e il caporedattore ha mugugnato e poi ha comunque titolato l’articolo con la parola «millennial», che un po’ ormai è un logo, un po’ temo che gli italiani, essendo il concetto di generazione un’importazione oscura, si siano fatti l’idea che «millennial» non voglia dire «nato tra l’80 e la fine del secolo», ma «giovinastro». Le cronache sull’arrivo dei Beatles indicati come «giovani capelloni» erano molto più precise. Non riesco a capire perché, oltre che per americanizzazione albertosordica, non indichiamo i gruppi per età: i ventenni, i quarantenni. Anche perché un millennial dell’80 ormai è padre di famiglia, uno del ’95 ha ancora tutto o quasi tutto da sbagliare: cos’hanno in comune tra loro?
7) Torniamo al giornalismo culturale: Andrea Cortellessa in una precedente intervista di questo ciclo ha detto che è un’idea superata, e chi resiste secondo canoni appunto novecenteschi si trova nella posizione (da lui amata) dell’ultimo giapponese. Lei si definirebbe una giornalista culturale? Un’ultima giapponese? O pensa ci siano ancora spazi, in questo campo, per non morire di vergogna o di fame?
Io a definirmi ho sempre problemi, di solito saccheggio Edmondo Berselli che diceva «io sono uno che scrive». Secondo me – e secondo il mio commercialista – di fame si può non morire, ma ho capito da un dettaglio che è una scelta che facciamo in pochi. Il dettaglio è che ormai, se accade che qualcuno con cui non lavoro abitualmente voglia commissionarmi qualcosa, la premessa è sempre «so che sei molto cara». Poiché non sono molto cara – come tutti, guadagno un terzo di vent’anni fa; ma, certo, è plausibile che il mio terzo sia più cospicuo così come lo fu il mio intero – capisco dal maniavantismo che la mia avidità è leggendaria. Del che sono piuttosto fiera, intanto perché mi piacciono i soldi, e poi perché questa piccola leggenda screma molto le richieste. Conosco gente più nota di me, più appetibile di me, più talentuosa di me che passa il tempo a smistare richieste assurde che in nome della cultura – quell’industria che nessuno qui tratta come un’industria – sono di volontariato o giù di lì. Resto sempre attonita quando vedo qualcuno scrivere per riviste culturali che pagano poco o, più spesso, niente. Quando chiedo perché, mi danno risposte tipo: eh, ma era la rivista dove scriveva Moravia, come si fa a dir di no? A volte sospetto che vadano persino ai festival gratis, e vorrei salvarli da loro stessi. Ma forse non è quello che voleva sapere, mi chiedeva della cultura e io mi sono messa a parlar di soldi: poi per forza fioriscono le leggende.
8) Ha anticipato la mia domanda: un argomento ricorrente nei suoi articoli (anche su Lucy, tra l’altro) è il denaro, e come lo vediamo maneggiato nelle serie tv, nei social e nella “vita vera”, dai ricchi, dai poveri, dai non-molto-ricchi, dai quasi-poveri, insomma dalle classi sociali di cui sembra ci si sia scordata l’esistenza. Come mai, secondo lei, di soldi e di classi si parla così poco? E soprattutto nel lavoro culturale, la cui miseria è coperta dal silenzio di chi avrebbe buone ragioni per protestare?
Scrivevo per il dorso culturale di un grande quotidiano. Avevo una rubrica, e ogni tanto facevo un pezzo lungo. Cambiò il responsabile delle pagine, e mi chiese molti più pezzi lunghi, interviste, anche cose lavorate: io sono veloce e una rubrica difficilmente m’impegna più di venti minuti, ma un’intervista porta via tempo. Passano uno o due mesi, e mi arriva il primo borderò della nuova gestione. La novità era che tutto, pezzi e rubriche, era pagato la stessa minuscola cifra: una cifra che costituiva una riduzione del sessanta per cento per la rubrica e dell’ottanta per cento per i pezzi. Scrissi una veemente mail al responsabile, che mi rispose sbrigativamente che poi ne avremmo parlato ma era molto impegnato. Quella settimana ovviamente non mandai la rubrica. Fin qui non è una storia particolarmente significativa – chiunque lavori coi giornali italiani sa che le riduzioni dei compensi sono cominciate vent’anni fa, ormai dovremmo essere ai numeri negativi: la differenza è che di solito ti avvisano – ma lo diventa quando il responsabile mi scrive furibondo dicendomi che non ha mai visto un comportamento così poco professionale. Ho cercato per un paio di scambi di mail di spiegargli che la professionalità era una strada a doppia percorrenza: io consegnavo puntuale, lui mi pagava quanto concordato. Poi ho capito che era una lingua che non capiva. Un po’ ci teneva tantissimo al ruolo di quello che mi lascia lui, non essendosi accorto che lo avevo già lasciato io. Un po’ era sinceramente convinto che scrivere per le-pagine-culturali-del-grande-quotidiano fosse un onore per il quale avrei forse dovuto pagare io. Il che magari aveva un senso nel Novecento, ma nel secolo in cui nessuno coglie «lanzichenecchi» siamo sicuri che sia ancora un privilegio permettere alla zia al paese di dire «mia nipote scrive su un quotidiano nazionale»?
9) Per chiudere le rivolgo una domanda già fatta in altre interviste: ritiene sia possibile usare i social come spazio di giornalismo (o intervento o informazione, scelga lei la parola) culturale, e non solo di “realismo cuoricinista”?
A questo punto dovrei dire di no, che il libro può solo diventare “contenuto” di video su TikTok in cui gente che piange lo sfoglia, e altra gente – spero non più che tredicenne – corre per quello a comprarlo. E che non si può fare critica culturale in un secolo in cui chiunque intervisti un regista, un musicista, uno scrittore, vuole innanzitutto una foto con l’intervistato da condividere sui propri social come un oste di Trastevere; e chi recensisce qualunque cosa si spertica in lodi per farsi condividere sulle pagine social del recensito che avrà più follower di lui e può donargli un quarto d’ora di cuoricinabilità. Ma voglio invece parlare di Giulia Valentina, che le pagine culturali dovrebbero assumere come consulente invece di fare rubriche ridicole sulle booktoker. Scommetto che non sa chi è.
Giulia Valentina è una poco più che trentenne che fa quel lavoro che dicevamo prima: accende la telecamera del telefono prima di spalmarsi la crema solare, e la crema solare la paga; prima di bere la Coca Cola, e la Coca Cola la paga; prima di entrare nell’albergo di lusso – insomma, ha capito il senso. Si chiamavano influencer, prima che c’inventassimo quel PhD social che è content creator. Influencer in questo caso è particolarmente sensato perché, per ragioni misteriose come lo sono sempre le ragioni che attengono al carisma o anche solo alla simpatia, il milione di follower di Giulia Valentina di lei si fida. Chi è abbastanza vecchio da ricordarsi di cos’erano una volta certe firme su certi giornali si ricorderà di quell’ottobre del 1996 in cui, sulla prima pagina di Repubblica, Alessandro Baricco scrisse – cito a memoria – «Cacciate queste ventimila lire e andate a comprare Isabella Santacroce». E noi andammo a comprarlo, perché funzionava così: ci fidavamo. Baricco sapeva tutto – o almeno così pareva alla me ventenne – e Giulia Valentina ha voragini di lacune – o almeno così pare alla me cinquantenne – e proprio per questo parla al suo tempo: il tempo di Tom Cruise, non di Frank Sinatra. Fatto sta che Giulia Valentina spiega Gli sdraiati, anni dopo l’uscita, e Feltrinelli deve precipitarsi a ristamparlo perché la mattina dopo Amazon gliene ordina cinquemila copie. E Gli sdraiati è il classico libro che io tendo a pensare chiunque abbia letto; o, se non l’ha letto, non abbia letto per scelta: mica ci sarà qualcuno che non è stato raggiunto dall’informazione che esiste Gli sdraiati, il libro più raccontato in Italia da non so quanti anni in qua. E invece. E invece c’è un pubblico che ne apprende l’esistenza da Giulia Valentina, e si fida, e lo compra. E lei evidentemente conosce il suo pubblico, sa cosa suggerirgli, non lo delude (pagherei per sapere come decida quali libri consigliare: somiglia così tanto ai suoi follower da essere sufficiente il criterio «quel che piace a me», o ogni tanto inciampa in un «questo non lo capirebbero»? Potrebbe mai permettersi un gesto punk come fu per Baricco suggerire la Santacroce ai lettori di “Repubblica”?). Qualche mese fa ha parlato di Felici i felici, che io considero il più bel romanzo di questo secolo. La guardavo mentre lo spiegava, aveva anche gli appunti, me ne stavo lì sussiegosa a osservare il modo elementare in cui lo stava riducendo in concetti semplici e instagrammabili. E, con la stessa aria da mucca che guarda il treno, sono stata poi per settimane a fissare la pagina Amazon su cui era esaurito dopo che erano corsi ad acquistarlo. Come si chiama, la cosa che fa Giulia Valentina tra la pubblicità d’uno champagne e quella d’un bikini? Divulgazione? Piazzismo culturale? Forse semplificazione. Forse l’ultima possibilità di far avere a un’autrice sofisticata come Yasmina Reza la rilevanza che merita è farla ridurre in bocconcini instagrammabili da chi lo fa con un certo stile. E poi, consideriamo il mezzo: Giulia Valentina è Manganelli, in un contesto e in un secolo in cui l’alternativa è la foto della copertina lilla di fianco al cappuccino
10) Aggiungo allora una domanda in coda. Lei prima ha evocato Baricco che parlava di Proust alla TV, in un ruolo non molto diverso da quello di Giulia Valentina che parla di Yasmina Reza. Lasciamo stare il passaggio da Proust a Reza, che con tutti i suoi meriti non ha ancora scritto la Recherche. Quello che le chiedo e che in fondo sta alla base di questo ciclo di interviste, è: di semplificazione in semplificazione stiamo andando – o tornando – verso una società in cui la stragrande maggioranza sarà incolta o se preferisce neocolta, e i “veri colti” saranno pochissimi, perlopiù al servizio del potere oppure chini nelle loro camerette a studiare e (forse) a preparare la rivoluzione?
Mi pare che tutti i danni importanti nella storia del mondo li abbian fatti i colti, non gli istruiti che si percepiscono colti (che sono divenuti maggioranza nel secolo di Google). Ogni giorno mi passa davanti qualche frase di qualche intellettuale che il pubblico mi spaccia per picco di saggezza e insegnamento di vita, e con una frequenza che chi le cita non mi pare notare queste illuminazioni esistenziali vengono da gente – Hemingway o Pavese o Foster Wallace – che mi pare abbia concretamente dimostrato di non essere capacissima di stare al mondo. Però forse il vero punto sta in quello sprezzante paragone con cui liquida Reza, e giuro che non lo noto solo perché ho l’impeto della piccola fan che per scrivere Felici i felici darebbe un organo sano, avendocelo. È il tema attorno al quale gira il libro di Francesco Piccolo su Fellini e Visconti, e di cui mi pare parlasse l’articolo che Nicola Lagioia ha dedicato a Michela Murgia: siamo sicuri che, incontrando Proust oggi, non ci parrebbe un perfetto coglione solo perché ha il difetto d’esserci contemporaneo? Se io nascessi oggi, sono proprio sicura che tra quarant’anni non mi troverei a considerare gli anni Venti di questo secolo un’età dell’oro in cui la gente sì era colta, sì sapeva fare conversazione, sì aveva ancora tutte le priorità al loro posto?
[Immagine: Particolare della copertina di Questi sono i 50 di Guia Soncini (Marsilio, 2023)].
FONTE:https://www.leparoleelecose.it/?p=47540
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