Il Rule-based international order (RBO): fondamento del dominio unipolare e negazione del diritto internazionale
di MARXISMO OGGI (Michela Arricale, Fabio Marcelli*)
Il concetto di Rule-Based International Order (RBO) è emerso come centrale nel panorama delle relazioni internazionali. Negli ultimi anni viene sempre pi spesso evocato da parte dei leader occidentali, ed in particolare dagli Stati Uniti. Questo articolo si propone di esplorare la natura e le implicazioni di questo concetto, anche in relazione all’opposto concetto di International Legal Order (ILO).
Il 12 Giugno 2022 il Presidente Biden ha pubblicato un editoriale sul New York Times in cui dichiara come “le azioni della Russia in Ucraina potrebbero segnare la fine del Rule-based international order”. Lo stesso Biden, al margine del Summit NATO di Madrid del 2022 che ha ratificato l’adozione del nuovo Strategic Concept, ha sottolineato come “tutte le democrazie del mondo” avrebbero strenuamente difeso il RBO. Sempre nel 2002, il 12 ottobre, sempre Biden pubblica il Piano Nazionale Strategico USA (US National Security Strategy) il cui testo fa continui riferimenti al RBO come “fondamento della pace e prosperità globale”. Il non fare alcun riferimento al diritto internazionale – ma sempre e solo al RBO – sembra essere una vera e propria scelta deliberata.
Lo stesso Strategic Concept 2022 della NATO richiama il Rule-based international order sin dalle premesse. Ed ancora il G7, ad esempio, il 3 agosto ha rilasciato una dichiarazione riaffermando “il nostro impegno condiviso al mantenimento del Rule-based International order”.
Inseguendo gli statunitensi, anche gli altri leader occidentali si sono affrettati ad acquisirne il linguaggio, ed i riferimenti al RBO sono immancabili quando si tratta di criticare gli Stati non occidentali, in particolare Cina e Russia, per le loro “cattive condotte”, mancando di citare alcun riferimento tradizionale alla legalità internazionale.
Ma che cosa è questa creatura, il Rule-based international order (RBO)? È un sinonimo di legalità internazionale, come il discorso pubblico vorrebbe lasciarci intendere? Oppure è qualcosa di altro e di diverso, ed incompatibile con un ordine internazionale fondato sul diritto?
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Quando parliamo di ordine internazionale, facciamo riferimento a quel complesso di norme che regolano il rapporto tra Stati attraverso il funzionamento delle istituzioni internazionali. Esiste una grande varietà possibile di ordini internazionali, ma quello che poi emerge di volta in volta nella realtà storica dipende dal modo in cui è distribuito il potere globale.
In primo luogo, va specificato in premessa che un ordine può definirsi internazionale solo se ricomprende le relazioni tra tutte le grandi Potenze, altrimenti è da considerarsi un ordine ristretto (in inglese: bounded). Mentre gli ordini internazionali servono alla composizione degli interessi tra Potenze, gli ordini ristretti –limitati nella partecipazione e/o negli scopi- ne nutrono la competizione. La tassonomia tradizionale classifica gli ordinamenti internazionali distinguendoli in ordini unipolari, bipolari e multipolari, ed ancora in ordini realisti, pragmatici o ideologici. Le grandi Potenze, e le loro relazioni di forza, creano e guidano tali ordinamenti.
Il modello multipolare e quello bipolare, tendenzialmente, sono caratterizzati da un approccio realista alle relazioni internazionali, a differenza del modello unipolare – che può oscillare dall’approccio ideologico (quando l’unico polo di potere pretende di imporre ad altri la sua ideologia) – a quello pragmatico (caratterizzato, al contrario, dall’indifferenza alle faccende domestiche degli Stati terzi).
Il motivo di tale differenza è immediatamente intellegibile: se ci sono due o più grandi Potenze, la competizione tra loro subordina ogni questione ideologica ad interessi strategici: se è vero che l’obiettivo di ognuno rimane quello di conquistare più potere a discapito degli altri, qualora questo non fosse possibile, ci si concentra sul non cedere campo a favore dei terzi, anche attraverso il mantenimento dello status quo. In tale contesto, emergeranno ordini ristretti organizzati intorno agli interessi di una o più grandi Potenze, che alimenteranno la competizione tra gruppi, la quale però verrà a propria volta disciplinata dalle istituzioni internazionali universalistiche, il cui scopo ontologico è proprio quello di facilitare la cooperazione e/o la composizione degli interessi degli Stati, e soprattutto delle grandi Potenze.
In un modello unipolare, al contrario, l’ordine internazionale non potrà mai essere realista. L’unipolarità prevede l’esistenza di un’unica grande Potenza, e questo –per definizione- implica l’assenza di competizione strategica, che è il presupposto fondamentale per cui possa svilupparsi un approccio realista alle relazioni tra Stati. Il modello unipolare può essere ideologico, se la Potenza dominante ritiene che la propria ideologia di riferimento debba essere imposta anche agli altri Stati, oppure pragmatico –quando la Potenza dominante rimane indifferente al tipo di modello domestico adottata dagli altri Stati.
Nessun ordine internazionale dura per sempre: un ordine multipolare realista si trasformerò in un modello unipolare ideologico se il numero potenze in grado di competere ad armi pari tra loro diminuirà. Un modello unipolare, al contrario, collasserà quando nuove potenze emergeranno.
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Storicamente, la distribuzione del potere risultato dalla fine della Seconda guerra mondiale ha portato all’emersione di un modello bipolare. Nonostante entrambi i maggiori centri di potere, USA e URSS, fossero guidati da un’ideologia ben determinata -che si rispecchiava pienamente negli ordini circoscritti creati da ognuno per sostenere il perseguimento dei propri interessi competitivi- l’approccio del modello organizzativo delle relazioni tra Stati, anche facenti parte dello stesso schieramento, era caratterizzato dall’essere fortemente realista. La costituzione dell’ONU proseguì in maniera concertata tra tutti gli Stati che – al tempo- facevano parte della comunità internazionale, mentre le questioni (strettamente competitive) relative alle relazioni economiche e di sicurezza vennero risolte in maniera parcellizzata con l’architettura di Bretton Woods e la NATO, disegnati nell’interesse degli Stati ad economia di mercato, ed il Patto di Varsavia che, insieme al COMECON, era il polo di attrazione destinato agli Stati che facevano riferimento all’Unione Sovietica.
Con l’avanzare del processo di decolonizzazione, però, il mondo bipolare si dimostrò inadeguato a dare risposta alle necessità dei Paesi di nuova indipendenza ed in via di sviluppo (PVS) che nel frattempo emergevano sulla scena, i quali cominciarono a cercare una propria autonomia dai due blocchi. A partire dalla Conferenza di Bandung del 1955 cercano una alternativa al modello bipolare, che offriva loro una finta alternativa, di cui nessuna delle due compatibili con le proprie aspirazioni di indipendenza e sovranità. Mentre le grandi Potenze egemoni erano concentrate sulla loro competizione strategica al di fuori delle istituzioni universalistiche, i PVS scelsero l’ONU come luogo di elezione della loro battaglia politica, ridandogli nuova centralità proprio mentre sembrava immobilizzato dalla competizione tra i blocchi. Il voto capitario dell’Assemblea garantiva loro la maggioranza, e così riuscirono ad indirizzarne l’elaborazione e i valori riuscendo a porre i propri temi al centro dell’agenda dell’organizzazione, esprimendo grande efficacia nel perseguimento della propria strategia di autoaffermazione: è grazie al loro lavoro che viene elaborato il concetto di diritto allo sviluppo (che sostituì la dottrina degli aiuti allo sviluppo) oggi parte piena del consensus internazionale, nonché quelli di diritto all’autodeterminazione e rispetto della sovranità territoriale, in accordo all’ordine legale internazionale come disegnato dalla Carta delle Nazioni Unite.
Sin dall’abbandono dei Bretton Woods e fino alla fine della Guerra Fredda, i PVS provarono a imporre un nuovo ordine economico internazionale (NOEI), riuscendo a definirne formalmente scopi e principi, ma i loro sforzi furono frustrati dalla forza con cui si affermò il dominio del modello liberale occidentale a guida statunitense dopo il collasso dell’URSS, che ha dominato il campo fino a poco tempo fa.
Mentre il NOEI immaginato dai PVS rivendicava una vera centralità per le Nazioni Unite, tentando di stabilire un ordine economico disciplinato da veri e propri strumenti giuridici, al fine di subordinare le forze del mercato al diritto allo sviluppo dei popoli, il Washington consensus era improntato alla visione liberista basata sul negoziato, non sulla legge.
Gli Stati Uniti trasformarono, così, l’approccio realista che aveva caratterizzato fino a quel momento le relazioni internazionali in una vera e propria missione ideologica, trasformandolo in quello che conosciamo come Washington Consensus o International Liberal Order: un modello unipolare e ideologico a guida USA.
Con il Washington Consensus tutti gli ordini circoscritti fino a quel momento creati dal Blocco occidentale rimasero formalmente in piedi, anche se videro mutato il proprio ruolo in maniera sostanziale – anzi addirittura opposto a quello originariamente immaginato, come nel caso della Banca Mondiale e del FMI che divennero veri e propri alfieri dell’imposizione dei principi di laissez-faire economico come unico principio di governo domestico degli Stati – mentre le organizzazioni internazionali che facevano riferimento all’URSS, sia economiche che di sicurezza, furono smantellate.
Nel tempo, e nonostante il tentativo USA di consolidare la propria egemonia, altre Potenze si sono imposte nelle relazioni tra Stati. Tanti di quei PVS che allora rivendicavano il proprio diritto all’autodeterminazione, compresa la Cina, sono diventati grandi Potenze economiche e militari, ed oggi hanno la forza per imporre una svolta all’assetto delle relazioni internazionali. La Russia, che fu smembrata dalle politiche liberiste degli anni 90, ha trovato la strada per affermarsi di nuovo. E poi c’è l’India. Poiché le Potenze che si affacciano sono tante, l’ordine internazionale che ne verrà non potrà essere che multipolare, e quindi di approccio realista. La guerra sta accelerando questo processo.
Non è un caso che tali nuove Potenze, al contrario degli USA ed alleati che fanno riferimento al RBO, nel loro discorso pubblico si richiamino sempre all’ordine legale internazionale e alla centralità dell’ONU. Nel comunicato finale dell’ultima riunione dei BRICS del 23 Agosto 203, ad esempio leggiamo: “Reiteriamo il nostro impegno ad un multilateralismo inclusivo, che includa i principi e gli scopi della Carta delle Nazioni Unite come un suo fondamento indispensabile, e il ruolo centrale delle Nazioni Unite in un sistema internazionale in cui Stati sovrani cooperino per mantenere pace e sicurezza e conseguire uno sviluppo sostenibile”.
La globalizzazione imposta dal modello liberale, se da un lato ha fatto la ricchezza dei pochi che ancora ne sostengono la validità, ha contribuito all’aumento delle diseguaglianze globali e domestiche, anche all’interno degli Stati occidentali. Ha prodotto un sistema economico instabile che ripropone ciclicamente crisi sempre più violente, con conseguenze che si abbattono in maniera maggiore sui soggetti – siano essi Stati e/o individui – più poveri. Ma è stato anche l’acquis che ha permesso a nuovi poli di potere ad emergere ed affermarsi, e cioè esattamente l’elemento indispensabile alla fine dell’ordine unipolare.
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Analizzato da questo punto di vista appare chiaro come le due locuzioni – Rule based international order e international legal order – non sono affatto sinonimi, bensì concetti opposti ed incompatibili tra di loro ed anzi afferenti prospettive politiche addirittura antagoniste.
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Caratteristica fondamentale di tutti gli ordinamenti internazionali, quale che sia la loro classificazione, è il fatto che le norme che ne governano il funzionamento sono determinate dalle grandi Potenze in modo tale che si accordino al perseguimento dei loro interessi. Il problema sorge quando tali regole non si accordano più con gli interessi delle Potenze dominanti, e allora tali regole verranno ignorate o reinterpretate o addirittura riscritte. Gli Stati più potenti disegneranno le regole in modo tale da costringere gli Stati più deboli a seguire determinati comportamenti, ma non esiste alcun modo efficace che consenta agli Stati più deboli, che pure fanno parte dell’ordinamento, di costringere gli Stati più forti ad obbedire a quelle stesse regole che impongono agli altri, se non sono favorevoli ai loro interessi.
Tale caratteristica è estremizzata negli ordinamenti unipolari, poiché la presenza di un’unica grande Potenza implica l’assenza di possibilità di altre forze, che gli garantisce di fatto una sorta di immunità alle norme, e certamente l’impunità sostanziale per ogni violazione commessa. Tale elemento è l’ostacolo principale alla concretizzazione di un ordine internazionale di tipo legale, poiché il concetto di legalità implica quello di universalità: tutti sono ugualmente sottoposti alle regole, e quello di formalismo: queste regole devono essere assunte secondo un iter determinato e devono contenere prescrizioni chiare in ordine al proprio contenuto. Entrambi tali elementi risultano assenti nel RBO.
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Le “regole” del Rule-based order non hanno alcun carattere determinato, si riducono ad una mera dichiarazione di principi senza offrire mai alcun riferimento a nessuno degli ordinari strumenti della legalità internazionale. Quando, ad esempio, gli USA si fanno araldi della difesa dei diritti umani, o dell’autodeterminazione, o di altri principi fondanti del diritto internazionale, evitano accuratamente di riferire tali principi ai contenuti positivi iscritti nei trattati internazionali che ne formano l’attuale sistema. Si ritengono soddisfatti dall’enunciazione del principio, senza alcun riguardo alla sua vincolatività o le possibilità di applicazione.
Alcuni studiosi liberali sostengono che la locuzione RBO, al contrario di quanto qui sostenuto, non solo sia assolutamente compatibile con il diritto internazionale ma stia solo ad indicare l’inclusione nel sistema di legalità internazionale anche di tutti quegli strumenti di soft-law e regolatori. Un modo per superare la concezione meramente formalistica del diritto. Ad esempio ricomprendendo anche risoluzioni non vincolanti delle Nazioni Unite o altre istituzioni intergovernative, ed ancora le decisioni delle Conferenze e/o di altri soggetti che stabiliscono standard economici e commerciali.
Questa interpretazione però riduce il peso delle norme formali del diritto internazionale, e suscita preoccupazioni perché risulta assolutamente indefinito il rapporto tra le varie fonti: norme non vincolanti vengono considerate altrettanto importanti – quando non di più, pensiamo al Fondo monetario internazionale o alla Banca nondiale- di quelle espressamente dichiarate come tali dal diritto internazionale.
La fallacia di tale argomentazione, inoltre, è evidenziata dalla realtà empirica, che vede gli USA violare ogni giorno le regole della legalità internazionale in nome del RBO, che invece manca di definizioni precise proprio perché il suo contenuto sostanziale deve potersi adattare agli interessi statunitensi, dimostrando così sul campo la propria incompatibilità con la legalità internazionale.
Il RBO e il suo approccio selettivo alle norme, mina alle fondamenta la certezza e la coerenza del diritto internazionale.
Ad esempio, ordinario strumento della politica estera USA sono l’imposizione di sanzioni unilaterali a Stati terzi – strumenti illegali e criminali secondo il sistema del diritto internazionale – sulla base del fatto che tali Paesi target avrebbero violato queste indefinite “regole”. Tale presunta violazione, ad esempio nel caso del blocco imposto a Cuba, consiste proprio nell’aver resistito all’imposizione di modelli di sviluppo che fossero subalterni nell’interesse di Washington, niente – in sostanza – che possa essere considerato una violazione del diritto internazionale.
Inoltre, altra caratteristica della prospettiva RBO come portata avanti degli USA è l’assoluta arbitrarietà nell’utilizzo degli strumenti ordinari del diritto internazionale -pure istituiti a seguito di confronti democratici avvenuti in sede UN o altri fora. Gli Stati Uniti non hanno ratificato moltissimi – seppur fondamentali per l’ordine legale internazionale – trattati internazionali; ad esempio non hanno ratificato la Convenzione sul diritto del Mare del 1994, eppure ciò nonostante –pur non essendo, cioè, parte del trattato- pretendono di utilizzarne le prescrizioni, ma solo quando sono a proprio favore, come quando pretendono di portare avanti le proprie esercitazioni navali lungo le coste degli Stati Parte.
Gli USA non hanno ratificato il Trattato di Roma che istituisce la Corte Penale Internazionale (CPI), eppure pretendono di utilizzarne gli organismi, indirizzandone l’attività verso quelli che considera propri nemici. Sono sempre pronti, però, ad ostacolarne aggressivamente l’operato quando pretende di indagare i crimini contro l’umanità commessi dagli Stati Uniti o dai propri stretti alleati, come nel caso di Israele. Quando nel 2019 la CPI ha aperto un’indagine per i crimini di guerra commessi in Afghanistan, gli USA hanno reagito imponendo sanzioni agli ufficiali della Corte e impedendo alla procuratrice di recarsi sul suolo statunitense per testimoniare all’ufficio UN di New York negandole la concessione del visto e colpendo con sanzioni anche tutti i membri della sua famiglia.
Ancora più emblematico è il comportamento assunto in difesa di Israele: nonostante quest’ultimo compia da settanta anni crimini internazionali a danno del popolo palestinese, crimini e illegalità riconosciuti come tali dal diritto internazionale e per i quali la maggioranza dei Paesi del mondo chiede giustizia, gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscerne le azioni come tali. Nel sistema RBO propugnato dagli USA, infatti, Israele non viola nessuna “regola”, poiché la sua sicurezza prevale sui diritti di tutti gli altri. Allo stesso modo, quando Bush junior aggredì l’Iraq dichiarò esplicitamente – durante il discorso sullo stato dell’Unione del 2003- che anche se l’invasione avesse violato il diritto internazionale, gli USA avrebbero continuato a fare tutto il necessario per assicurare la propria sicurezza nazionale.
Nessuna eguaglianza di fronte al RBO, in sostanza, al contrario di quanto propugnato dal diritto internazionale.
Molti altri sono i trattati non ratificati dagli USA, e la maggior parte riguardano il sistema di controllo degli armamenti ( il Trattato per l’eliminazione delle mine antiuomo del 1999, la Convenzione contro le munizioni a grappolo del 2010, il Trattato sul commercio di armi del 2013) ed il sistema internazionale di protezione dei diritti umani ( il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1967, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 1981, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1990 o il Protocollo alla Convenzione contro la tortura del 2002).
Tutti questi elementi, pertanto, devono considerarsi estranei al sistema di regole internazionali che promuovono gli Stati Uniti.
Ma anche la ratifica da parte degli USA di un trattato non può considerarsi certo garanzia di adesione alle prescrizioni ivi contenute. Ad esempio, pur avendo accettato la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia, ne blocca i lavori a proprio danno attraverso il sistema di veto del Consiglio di sicurezza sin dal 1986, da quando –cioè- è stata giudicata colpevole di aver violato la sovranità del Nicaragua e condannata al risarcimento.
Insomma, il RBO non è altro che l’architettura necessaria al mantenimento del dominio unipolare statunitense, l’unica possibilità che venga prolungato a proprio favore un sistema di cui sono gli unici registi ammessi.
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Negli ordini multipolari, al contrario, la presenza di più centri di potere in competizione e la necessità strategica di rendere prevedibile il comportamento di tutti gli attori, rende il diritto internazionale una scelta tattica migliore dal punto di vista della stabilità del sistema. L’attuale instabilità è dovuta alla resistenza al cambiamento in corso da parte di quegli attori del sistema internazionale che non si rassegnano alla perdita della propria centralità assoluta. Il voler continuare ad imporre la propria visione del mondo, oggi attraverso il richiamo al RBO, in un contesto in cui ormai sono emerse Potenze in grado di opporsi efficacemente a tali arbitrarie imposizioni, è la prima minaccia alla pace e alla stabilità nella comunità internazionale.
Ma contro il RBO a guida statunitense non c’è bisogno di inventarsi alcun “nuovo” ordine, serve semplicemente far funzionare correttamente il sistema come immaginato nel dopoguerra, fondato intorno alla Carta delle Nazioni Unite e alla elaborazione prodotta in tale sede dai PVS, compresa la Cina, che mette al vertice della piramide dei principi quello del rispetto della sovranità e – ancora più importante- della dignità di ogni uomo, ogni popolo e ogni Paese.
* Copresidenti del CRED – Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia. La versione in spagnolo di questa relazione è stata presentata all’VIII Conferencia internacional de estudios estratégicos, “Transformando el orden internacional: desafios de la transición y propuestas desde el sur”, L’Avana, 26-28 settembre 2023.
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