Negli ultimi giorni, Kiev è stata investita da un vortice di delegazioni straniere di alto livello. All’inizio della scorsa settimana, si è tenuto un incontro tra le autorità ucraine ed esponenti delle maggiori industrie belliche dei Paesi NATO, soprattutto europei, con una presenza particolarmente importante di inglesi, francesi e cechi, con ministri della Difesa al seguito. Sull’agenda, il ruolo futuro del complesso militare-industriale europeo nella guerra per procura. L’orientamento che sembra essere emerso è quello di nuove linee di produzione nella stessa Ucraina, facenti capo a compagnie europee, finanziate dai Governi e dall’Unione Europea. Industrie come Reihnmetall, BAE Systems e Bayraktyar hanno espresso l’intenzione di (o stanno già lavorando per) aprire stabilimenti in Ucraina.
La strategia ucraina è chiara: in una guerra d’attrito – che Kiev non è riuscita a trasformare in una guerra di movimento, spendendo la migliore forza corazzata che i Paesi NATO hanno potuto assemblare per l’occasione – tutto ciò che conta è la capacità (unita alla volontà) di sostenere il conflitto per un lungo periodo di tempo, maggiore rispetto a quello dell’avversario. È necessario un cambio di strategia, come sostiene a chiare lettere la nuova copertina dell’Economist. Localizzare la produzione di armamenti tramite joint-venture rimedia a entrambi i problemi: fornisce un flusso continuo di materiale bellico (sono ormai di fatto esaurite le scorte che gli alleati non-USA possono e vogliono fornire) che non dipende dalla volontà politica degli alleati, rendendo inoltre meno onerosa la logistica dalla fabbrica al fronte. Kiev, questo ormai è evidente, non potrà godere per tutta la durata del conflitto del livello di supporto dall’estero ottenuto finora. L’esaurimento delle scorte trasferibili senza eccessivi oneri e la “fatica politica” (in aumento per motivi diversi in America e in Europa) rendono imperativo per l’Ucraina virare su una strategia più autarchica: le consegne una tantum da parte di Paesi non coinvolti nel conflitto (come quella del Pakistan, negoziata in cambio di un prestito del FMI) possono essere considerate solo come un palliativo, in grado di tamponare i bisogni delle forze armate ucraine nel corso di un’offensiva ma non in grado di cambiare il corso della guerra.
Solo nell’ultimo mese: la Polonia ha dichiarato di non essere intenzionata a fornire nuovi aiuti militari all’Ucraina oltre a quelli precedentemente promessi; il capo dell’aeronautica francese ha dichiarato che il suo Paese non è più in grado di fornire sistemi d’arma, subito imitato da un anonimo collega britannico sul Telegraph; gli USA hanno varato un budget senza aiuti all’Ucraina e i ministri degli esteri dell’UE – incontratisi proprio a Kiev – non hanno trovato un accordo sul nuovo pacchetto di aiuti previsto dalla Commissione, sull’onda della vittoria elettorale in Slovacchia dell’ex premier Robert Fico, che minaccia di rendere ancora più difficoltose le future delibere.
Gli aiuti per l’Ucraina non si fermeranno dall’oggi al domani, senza dubbio saranno varati nuovi pacchetti su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma il Paese si prepara a contare sempre meno sui propri alleati (oltre a minacciarli di disordini nelle comunità ucraine all’estero, e ad umiliare in conferenza stampa il suo principale sostenitore europeo, la Germania. Trasferire in casa la produzione di armamenti è una decisione razionale e giustificata ma comporta anche grossi rischi per l’Ucraina. Dipendere da stabilimenti raggiungibili dai proiettili delle forze armate russe implica un vantaggio per Mosca, che è in grado di colpire il territorio ucraino più in profondità e con più volume di fuoco di quanto Kiev sia in grado di fare col territorio russo. Il progressivo decadimento del sistema antiaereo ucraino – difficilmente riparabile con sistemi NATO o con la consegna di qualche decina di F-16 – ha reso possibile, dalla primavera scorsa, un massiccio impiego delle forze aerospaziali russe in funzione di bombardamento tattico e strategico, reso più micidiale da un’enorme scorta sovietica di bombe FAB-500 (e simili varianti) modernizzata con “kit intelligenti” prodotti a basso costo.
Un volume di fuoco necessario per colpire fabbriche di armamenti rinforzate, estese e in parte anche sotterranee – un “felice” lascito dell’Unione Sovietica di cui l’Ucraina è sicuramente grata – come dimostrano i ripetuti attacchi nei mesi scorsi contro la fabbrica di carri armati di Kharkiv, che comunque non sono riusciti a bloccarne completamente le operazioni. Un volume di fuoco di cui l’Ucraina invece non dispone: nonostante si sia dimostrata in grado di colpire ripetutamente obiettivi sensibili russi (il più eclatante dei quali l’aeroporto di Engels, base dei bombardieri strategici Tupolev a centinaia di chilometri dal confine ucraino) una reale, costante, minaccia al complesso militare-industriale russo, ai complessi industriali rinforzati di Kurgan, Nizny Tagil, Omsk e Komsomolsk sull’Amur (situati ben oltre il Volga, anche questo un retaggio staliniano) va oltre le capacità di Kiev. Mettere fuori gioco un complesso militare-industriale russo richiede un volume di fuoco esponenzialmente superiore a quello necessario per distruggere un bombardiere sulla pista di atterraggio o colpire il quartier generale della Flotta del Mar Nero, per quanto eclatanti siano state queste azioni. Neanche i missili SCALP, ATACMS e Taurus (anch’essi una fornitura la cui quantità sarà per forza di cose limitata) saranno in grado di cambiare questa realtà strategica, a causa del loro raggio limitato.
A questo si aggiunge un problema politico: lo spostamento della produzione in Ucraina non potrà prescindere dalle compagnie belliche straniere. Queste compagnie private (che ancora non sono state specifiche nei tempi e nei modi del loro insediamento in Ucraina) difficilmente si stabiliranno in una zona di guerra, neanche nell’Ucraina occidentale dove la minaccia russa è ridotta ai “soli” missili a medio raggio e ai droni Shahed/Geran, di cui la Russia non dispone più nelle quantità dell’anno scorso, senza importanti garanzie politiche e finanziarie da parte dei propri Governi, rendendo quindi politicamente condizionabile dall’estero la produzione ucraina di armamenti. Un condizionamento politico che minaccia di farsi ancora più forte se, com’è ragionevole immaginare, queste joint ventures richiederanno la presenza in loco di molti tecnici europei. Il passaggio ad una guerra d’attrito per Kiev è obbligato ma non è senza difficoltà. L’Ucraina dovrà isolarsi il più possibile dai venti politici esterni, ma nel fare ciò dovrà gradualmente fare a meno della sicurezza insita nell’avere il centro di provenienza dei propri armamenti sotto l’ombrello nucleare della NATO.
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