Si sta facendo sempre più strada, tra gli osservatori politici e militari occidentali, la convinzione che la guerra ucraina sia ad un punto di inflessione strategico [1], insomma ad un punto di svolta, oltre il quale le cose cambiano. “In questo punto di svolta, i leader più abili e creativi riconoscono e accettano questa sfida, facendo progredire le loro organizzazioni per affrontarla. I leader rigidi, esitanti o avversi al rischio non accettano la sfida, portando all’irrilevanza e, in ultima analisi, al fallimento della loro organizzazione” [2].
La questione veramente importante è che, ovviamente, superato il punto di svolta le cose possono andare appunto sia bene che male, tutto dipende dalle scelte assunte dalla leadership. Ed in questo momento, le leadership occidentali non sono univocamente coese e concordi sulla rotta da seguire. Per quanto l’esigenza di sganciarsi in qualche modo dalla precipitosa corsa verso il disastro sia sempre più forte, l’idea che si possa in qualche modo ribaltare lo stato delle cose è dura a morire; e quindi, la propensione a mantenere l’investimento sull’Ucraina resta al momento predominante.
Sfortunatamente per la NATO, questa convinzione non è supportata da alcun disegno strategico effettivo, in quanto non nasce da una valutazione razionale dello stato delle cose, quanto piuttosto da una posizione emotiva – particolarmente forte negli USA – fondata sulla pretesa della propria eccezionalità. A ben vedere, questa è una caratteristica che si può ben definire storica, nel modo in cui gli Stati Uniti affrontano le guerre. A partire dalla guerra di Corea, infatti, si può notare come ogni conflitto in cui sono stati coinvolti nasceva con obiettivi politici in genere abbastanza definiti, ma al tempo stesso con una certa vaghezza strategica rispetto al come, militarmente parlando, dovessero essere perseguiti. Poiché si dava per scontato che la potenza statunitense avrebbe comunque prevalso su qualunque avversario, una strategia di lungo respiro appariva inutile. Tale approccio ovviamente funzionava quasi sempre, posto che tutte le guerre intraprese erano effettivamente (e spesso clamorosamente) asimmetriche.
Ma è interessante notare come, nel caso delle guerre clamorosamente perse (ad es. Vietnam ed Afghanistan), significativamente tra le più asimmetriche, la caratteristica comune è stata il progressivo passaggio da un forte investimento politico-militare ad uno stanco trascinarsi dell’impegno, sinché non è maturata infine la decisione di mollare tutto (in entrambe i casi, dopo vent’anni di guerra…).
Il conflitto ucraino, rispetto a queste esperienze pregresse, si presenta però assai difforme, ed in particolare per tre aspetti.
Il primo, ovviamente, è che si tratta (sinora…) di una guerra parzialmente per procura; gli USA ed i paesi NATO ci mettono i soldi, le armi ed i sistemi di intelligence elettronica, mentre gli ucraini forniscono la carne da cannone.Il secondo è che, al netto della superiorità militare russa, in questo caso si tratta di una guerra simmetrica, in cui non si manifesta una schiacciante preponderanza di uno dei contendenti.
Il terzo, fondamentale, riguarda l’asimmetria strategica del conflitto.
Si è più volte detto, anche qui, che questa è appunto una guerra simmetrica. Ma in effetti sarebbe più corretto dire che lo è sotto il profilo del potenziale bellico, mentre sotto il profilo strategico si può rilevare una profonda asimmetria.
A tale riguardo, è stata più volte sottolineata la radicale difficoltà della NATO a comprendere il suo nemico; cosa questa che non riguarda solo gli obiettivi e gli interessi russi, ma anche il modo in cui la Russia combatte, si potrebbe dire la sua natura, e quindi il suo disegno strategico.
Fondamentalmente, infatti, l’Ucraina e la NATO combattono – per ragioni ovviamente diverse – secondo una strategia territoriale. Il controllo del territorio è la misura del successo e dell’insuccesso. Naturalmente per Kiev la riconquista dei territori perduti è, strategicamente parlando, il faro che guida ogni scelta. Per la NATO, invece, si tratta di una impostazione culturale, storica, e che ha radici profonde e lontane, nei secoli del colonialismo occidentale; per l’occidente, la conquista (o la riconquista) è la misura della vittoria.
Per la Russia, invece, la prospettiva strategica è diversa, ed anche questa ha radici storiche profonde. “Il pensiero militare russo è diverso. La sua enfasi è sulla distruzione delle forze nemiche, mediante qualunque strategia adatta alle condizioni prevalenti” [3].
Questa asimmetria, come si può ben comprendere, non attiene soltanto al modo in cui i due eserciti si confrontano, ma anche – se non soprattutto – al modo in cui misurano il proprio successo o insuccesso. Ad esempio, quando gli osservatori occidentali parlano di uno stallo, hanno in mente la sostanziale stabilità delle aree occupate rispettivamente da russi e ucraini, e quindi – ritenendo che questo sia un dato oggettivo, e quindi che sia valutato da entrambe la parti allo stesso modo – pensano che un congelamento (più o meno temporaneo) del conflitto sia possibile, in quanto reciprocamente utile. Ma, ovviamente, così non è per i russi.
Anche a prescindere dal fatto che non avrebbero interesse a dare tempo e fiato alla NATO, per riorganizzare l’esercito ucraino e rimettersi al passo con la produzione bellica, dal proprio punto di vista non c’è alcuno stallo, anzi tutto procede alla grande.
Per Mosca, l’occupazione territoriale è del tutto secondaria. Quella già acquisita è più che sufficiente all’esigenza strategica di proteggere la Crimea da un attacco terrestre [4], mentre l’idea di espandere oltre misura la conquista, magari oltre il Dnepr, non è assolutamente di alcun interesse. Quando gli USA hanno immaginato (e messo in atto) la loro strategia politica in Ucraina, l’obiettivo era quello di infliggere “un’umiliante sconfitta all’esercito russo o, almeno, di infliggere costi così pesanti” [5] da rendergli impossibile qualsiasi ulteriore azione militare significativa. Hanno però dato per scontato che ne sarebbero stati capaci, senza perciò preoccuparsi troppo del come avrebbero conseguito questo risultato. Ma, quello che sta avvenendo, è esattamente l’opposto. È la Russia che sta infliggendo un’umiliante sconfitta alla NATO, e soprattutto sta distruggendo radicalmente l’esercito ucraino. Quando l’Operazione Speciale Militare avrà termine, questo non sarà in grado, per almeno un decennio a venire, di destare alcuna preoccupazione. In ciò, l’ostinazione ucraina e statunitense è il miglior alleato del disegno strategico russo, poiché più a lungo si protrae la guerra, più profonda e duratura sarà la distruzione della capacità di combattimento ucraina (e, sul breve termine, della NATO stessa).
Questo sfalsamento strategico è l’elemento decisivo del conflitto. Ed è quello che consentirà alla Russia di ottenere ciò che più le stava a cuore, e magari alla NATO di innalzare una cortina fumogena sulla propria sconfitta. Un classico dello storytelling occidentale, infatti, è la torsione della realtà ai propri scopi, ed anche se ormai risulta (parzialmente) efficace soltanto nel ristretto ambito dell’occidente stesso, l’importante è che funzioni quel tanto per salvare la faccia. Nello specifico, la mistificazione del reale consiste nell’invenzione di un obiettivo (la conquista dell’Ucraina), reso oltretutto credibile proprio perché le opinioni pubbliche occidentali condividono con le leadership l’idea che la vittoria si misura in chilometri quadrati. A quel punto, basterà sostenere che “è la Russia che ha perso la competizione perché l’eroica Ucraina e un risoluto Occidente le hanno impedito di conquistare, occupare e reincorporare tutto il paese” [6], ed il gioco è fatto.
In fondo, è già da un po’ che Washington e Kiev combattono in realtà una guerra debordiana, una guerra spettacolo. Sulla quale, al momento opportuno, calerà il sipario.
Ovviamente, questo implica l’assoluto disinteresse per la sorte delle comparse, le cui perdite ammonterebbero a 70.000, solo nel corso della controffensiva [7].
Al di là della rappresentazione immaginifica, infatti, c’è la dura, imprescindibile realtà materiale. Sangue e acciaio. Se, pertanto, questa asimmetria strategica potrebbe persino risultare utile ad entrambe, offrendo ad una parte la vittoria ed all’altra la finzione della non-sconfitta, la realtà ha comunque un suo peso fattuale e, appunto, imprescindibile, e questo peso può modificare il corso degli avvenimenti. Allo stato attuale delle cose, come detto in precedenza, tra le leadership occidentali permane in fondo l’idea che si possa in qualche modo modificare la realtà del campo di battaglia. Ma, poiché devono al contempo fare i conti con i limiti materiali (esaurimento degli arsenali NATO, incapacità dell’industria bellica di reggere il ritmo di consumo della guerra, etc), inevitabilmente si ritrovano su un piano inclinato, che li spinge ad una escalation di fatto (sistemi d’arma sempre più potenti), le cui conseguenze sono imprevedibili [8].
In ogni caso, quale che sia lo sviluppo della guerra, capire come ragiona bellicamente la Russia è un problema non da poco, per l’occidente e la NATO. La grande strategia russa, infatti, è sempre quella di assorbire l’urto nemico, consumarne il potenziale, e quindi ricacciarlo indietro. Il principio cardine è distruggere l’esercito avversario. Il resto è flessibile, adattabile tatticamente alla situazione contingente.
Da un punto di vista teorico, ad esempio, già adesso (o comunque in un tempo relativamente breve, quanto basterebbe per schierare altri 5/600.000 uomini) Mosca avrebbe l’opportunità di attaccare la NATO, prendendola in contropiede. Gli eserciti europei sono estremamente impreparati, depauperati di mezzi e munizioni, con effettivi ridotti, ed eventuali rinforzi dagli Stati Uniti avrebbero bisogno di almeno un paio di settimane. A parte il fatto che portare in Europa truppe e mezzi pesanti richiederebbe grossi trasferimenti, prevalentemente per mare (quindi esposti al rischio di attacchi con missili balistici e dai sommergibili nucleari russi).
Molte stime (occidentali) valutano in pochi giorni la durata delle munizioni di artiglieria disponibili per le forze NATO in Europa, senza considerare le perdite umane. “Per fare un confronto, gli Stati Uniti hanno subito circa 50.000 perdite in due decenni di combattimenti in Iraq e Afghanistan. In operazioni di combattimento su larga scala, gli Stati Uniti potrebbero subire lo stesso numero di vittime in due settimane” [9]. Anche se questa stima appare un po’ esagerata, è evidente che – in questa ipotesi, speriamo destinata a rimanere tale – è altamente probabile che una ondata di attacco russo travolgerebbe le difese NATO, spingendosi abbastanza in profondità verso ovest, e che già questa prima fase costerebbe pesanti perdite agli eserciti occidentali [10]. A quel punto, le forze NATO si troverebbero nella condizione di dover recuperare i territori perduti, cioè esattamente quello che prevede la dottrina strategica russa. E le forze di Mosca potrebbero anche rinculare parzialmente all’interno dei propri confini, se fosse necessario. Sarebbe una storia già vista, con le armate napoleoniche prima e quelle del terzo reich poi.
Semplificando al massimo, potremmo dire che la dottrina strategica occidentale prevede l’attacco come condizione per la vittoria, mentre quella russa prevede la vittoria attraverso la difesa. Come accennato precedentemente, non è una questione meramente militare o dottrinale, ma – assai più profondamente – una questione culturale. E, per dirla ancora una volta con le parole di Crombe e Nagl, “la cultura si mangia la strategia a colazione” [11].
L’intero pensiero strategico occidentale, di cui la NATO è pienamente erede, è un pensiero offensivo. Ruota sempre sull’idea del first strike, indipendentemente dal fatto che si aspetti o meno che questo sia decisivo. Colpisci per primo. Diversamente, il pensiero strategico russo ricorda assai più la basi concettuali delle arti marziali orientali, ovvero sfruttare la forze dell’avversario contro di lui. Colpisci per ultimo.
Speriamo soltanto che, alla fine, prevalga la ragione, e che non si arrivi mai a scoprire come finirebbe questo match.
1 – Questa espressione è stata introdotta, in ambito aziendale, da Andrew S. Grove, presidente e CEO di Intel Corporation. Cfr. “Inflections point”
2 – “A call to action: lessons from Ukraine for future force”, Katie Crombe & John A. Nagl, Parameters
3 – “US Can’t Deal with Defeat”, Michael Brenner, consortiumnews.com
4 – Questo è empiricamente dimostrato anche dalla costruzione della cosiddetta linea Surovikin, ovvero la serie di trinceramenti e fortificazioni, articolata su tre fasce successive e disposta appunto a protezione del corridoio terrestre che unisce la Crimea agli oblast annessi alla Federazione Russa. Averla costruita, ed esservisi attestati in difesa, è una ulteriore riprova che la strategia russa non prevede di spingersi significativamente più oltre l’attuale linea di contatto; diversamente, le forze russe avrebbero avuto tutte le possibilità di passare all’attacco, anticipando la controffensiva ucraina.
5 – “US Can’t Deal with Defeat”, ibidem
6 – ibidem
7 – Dati forniti dal Ministero della Difesa russo.
8 – Cfr. “Un piano incliNATO”, Enrico Tomaselli, Target Metis
9 – “A call to action: lessons from Ukraine for future force”, ibidem
10 – Interessante, al riguardo, anche una delle poche – anche se datata – informazioni disponibili sulle simulazioni NATO del conflitto, pubblicata dalla rivista polacca Polityka. In essa si riferisce l’esito disastroso di una di queste, nel corso della quale “la simulazione ha mostrato che le truppe nemiche circondavano Varsavia già al quarto giorno dell’esercitazione”. Anche se la rivista ne attribuisce la responsabilità all’ufficiale in comando (generale Andrzejczak, capo di stato maggiore generale), la debacle è stata assoluta. Cfr. “KOMPROMITACJA! Polski generał przegrał wojnę w cztery dni! Wojska wroga okrążyły Warszawę”, Polityka
11 – “A call to action: lessons from Ukraine for future force”, ibidem
FONTE:https://giubberosse.news/2023/10/02/il-primo-e-lultimo/
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