Guerra in Israele/ “La soluzione è in Cisgiordania: Anp al bivio tra politica e Hamas”
di IL SUSSIDIARIO (Renzo Guolo, Paolo Rossetti)
Ben Gvir arma i coloni in Cisgiordania: vogliono la terra per ricostituire l’Israele biblico. Ora è necessario rafforzare l’ANP
Gli occhi del mondo sono puntati su Gaza e sull’ipotesi di un esodo dei palestinesi dalla Striscia in seguito all’operazione di terra israeliana. Ma il vero nodo da sciogliere per risolvere l’annoso conflitto tra israeliani e palestinesi resta la Cisgiordania. Un territorio nel quale nel corso degli anni sono proseguite le occupazioni di terra da parte dei coloni, il cui Movimento vede in questa acquisizione un modo per accelerare la loro redenzione di fronte a Dio.
Dall’attacco di Hamas in poi, secondo quanto riferito da una organizzazione israeliana per i diritti umani, si contano almeno cento episodi di attacchi dei coloni ai palestinesi in Cisgiordania. Il ministro Ben Gvir, che fa parte di quell’estrema destra che sostiene il governo Netanyahu, ha addirittura distribuito fucili ai coloni per difendersi.
Se continua l’erosione del territorio da parte loro, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e di fondamentalismi, alla fine non ci sarà più la possibilità di realizzare due Stati. Per non lasciare la situazione in mano alle destre religiose, Hamas da una parte e il Movimento dei coloni dall’altra, occorre che in Palestina ci sia un interlocutore serio che costituisca un’alternativa credibile a quelli attuali: bisogna rafforzare l’Anp, che oggi non ha i mezzi per proporsi.
Gli 007 israeliani avrebbero un piano per il trasferimento degli abitanti di Gaza fuori dalla Striscia, nel Sinai? È una semplice ipotesi relativa a uno scenario possibile o l’operazione di terra è finalizzata proprio all’esodo dei palestinesi?
In situazioni di guerra di piani ne sono sempre stati fatti. La credibilità è relativa, soprattutto rispetto alla possibilità di realizzazione. Non è che la pressione militare di Israele possa spingere i profughi oltre confine senza l’accordo del Paese dove potrebbero essere teoricamente spostati. L’Egitto ha detto chiaramente che non li vuole, se non altro perché politicamente vorrebbe dire concordare con questa scelta unilaterale israeliana. In Medio Oriente poi tutti sanno che ospitare campi profughi palestinesi vuole dire sollevare problemi anche nei Paesi che li ospitano. Nessuno vuole replicare quello che è successo a partire dal 1948 in Giordania, Siria e Libano. Una replica della Nakba non è politicamente praticabile. Il solo fatto che venga pensata, però, dà l’idea di come ragioni il governo israeliano, legato a ipotesi che non prevedono nessun nemico ai confini e a far in modo che la questione palestinese, come questione nazionale, non esista più. La destra israeliana è fortemente sbilanciata sulle ipotesi dei partiti nazionali religiosi e del movimento dei coloni.
Quindi la Nakba, l’esodo, è un’ipotesi che difficilmente verrà presa in considerazione?
Presentare politicamente la dispersione di un intero popolo ha delle implicazioni non da poco. Basta pensare alle relazioni con l’Egitto, che è il cardine della politica mediorientale americana sull’altro versante. Già gli Usa non sono molto contenti di come si muove Netanyahu, per Biden sarebbe impossibile avallare una scelta del genere.
Il ministro israeliano Ben Gvir ha consegnato 10mila fucili ai coloni della Cisgiordania e secondo un’organizzazione di volontari per i diritti umani, Yesh Din, dal 7 al 22 ottobre ci sono state 100 occasioni in 62 luoghi in cui i coloni hanno attaccato i palestinesi. Quanto è grave la situazione in Cisgiordania?
È il nodo centrale della questione: l’espansione palestinese avviene soprattutto su quel versante. Quando Sharon ha lasciato Gaza è come se fosse passata in secondo piano. In Cisgiordania è in corso un conflitto politico sul possesso della terra. I 500-600mila coloni che in questi anni si sono insediati in quell’area non sono tutti estremisti religiosi, ma persone che sono andate a vivere lì anche perché c’erano delle incentivazioni fiscali. Il problema è l’anima politica, messianica, del movimento dei coloni. La punta estrema di questo movimento ritiene che possedere la terra sia un elemento che conduce all’accelerazione della redenzione.
Quella terra viene vista come assegnata da Dio al popolo?
Esatto. Questa dimensione è irriducibile a qualsiasi razionalità politica. Specularmente, d’altra parte, c’è l’idea di Hamas per cui “Dio ci ha dato questa terra in questa fonderemo uno Stato”, senza che ci sia lo Stato di Israele. Queste logiche che distorcono le religioni sono problematiche dal punto di vista politico perché istanze di questo tipo sono difficilmente negoziabili. Ragionano in termini di lungo, lunghissimo periodo, e ogni giorno una goccia si aggiunge a questo mare. La decisione di Ben Gvir di armare i coloni, che già sono autorizzati a portare armi per autodifesa, diventa un ulteriore elemento di tensione durissima. Quei territori erano destinati dagli accordi tra Arafat e Rabin, nella road map che poi è fallita, allo Stato palestinese. Ora in termini politici il successo di Hamas, che si sta insediando anche in Cisgiordania, avviene anche perché l’ANP mostra una sorta di impotenza, schiacciata com’è tra il suo avversario interno, politicamente più deciso, e la pressione israeliana: c’è il rischio che la Cisgiordania viri verso una posizione di consenso ad Hamas. Il trionfo degli estremismi è deleterio perché diventa deflagrante per la situazione e per la pace mondiale.
C’è, quindi, un problema di leadership all’interno dei palestinesi? La loro classe dirigente, al di là degli errori di Israele, ha fatto molto per complicare le cose?
Assolutamente sì. Per quanto riguarda l’ANP o la si aiuta a legittimare la sua funzione oppure davvero, come si dice in Cisgiordania, Abu Mazen non è altro che il sindaco di Ramallah: non controlla niente, è totalmente dipendente dall’esterno e in più non si batte. Se non c’è un interlocutore con cui puoi negoziare perché è troppo debole allora cade tutto. Per la destra israeliana estrema la soluzione Hamas era perfetta perché consentiva di non negoziare affatto. Gli interlocutori si squalificavano reciprocamente e tutto restava così, fermo sul campo.
Ma l’ANP si è squalificata da sola o è stata messa in condizione di non avere il potere sufficiente per incidere sulla situazione?
L’ANP non è stata messa in condizione di avere un potere in grado di produrre risultati. La chiave per cercare di risolvere il problema ce l’ha quella che ormai è una residua potenza mondiale, gli Usa. Sono loro ad avere le carte in mano, se non riescono a sistemare questa vicenda resta un problema serissimo: questa tensione ci sarà sempre ed emergerà ciclicamente. Ci vuole qualcuno che riesca a imporre agli interlocutori una serie di mosse, come era stato fatto giustamente nel percorso che ha portato agli accordi di Oslo. Se si vuole battere Hamas bisogna rafforzare chi le si oppone in campo palestinese. Ma per fare questo non bastano le parole e una pacca sulla spalla, occorrono risultati tangibili.
Prendersi progressivamente i territori occupati in Cisgiordania a lungo andare non vorrebbe dire costringere i palestinesi ad andarsene?
Certo, questo perché il Movimento dei coloni si muove dentro quella “teologia della terra” di cui parlavamo prima. Mentre per altre forze come il Likud la questione è vista in altri termini, cioè allargare i confini per un’ipotesi di sicurezza nazionale, per creare una specie di fascia di sicurezza, per il Movimento dei coloni tutto questo è legato al fatto che i confini dello Stato di Israele devono coincidere con quelli dell’Israele biblico. Ma nessuno sa quali siano questi confini, si sa solo che sono molto più grandi di quelli israeliani del 1967.
Per capire questa guerra, insomma, dobbiamo correggere questo errore di prospettiva? Bisogna guardare più alla West Bank che a Gaza?
Questo è un aspetto è molto sottovalutato dalla stampa mondiale: si guarda sempre a Gaza e non si capisce che dall’altra parte c’è la vera partita. Non è un caso che le truppe israeliane il 7 ottobre fossero schierate in Cisgiordania per proteggere i coloni dagli incidenti che in quei giorni si stavano sviluppando. Si credeva che Hamas fosse un problema assolutamente gestibile. I partiti nazionali religiosi, d’altra parte, sono fondamentali per la sopravvivenza del governo Netanyahu: se loro escono lui cade. E loro avevano fatto spostare quasi tutti i battaglioni in Cisgiordania. Insomma, continuiamo a guardare a Gaza ma l’elemento fondamentale della politica israeliana è la Cisgiordania. Cosa fare della Cisgiordania: questo è il vero nodo. Le sorti del conflitto israelo-palestinese, paradossalmente si giocano più su quel versante, anche perché se si toglie territorio non c’è neanche la necessità di perseguire la formazione di due Stati.
Così si arriverebbe a una diaspora completa dei palestinesi?
Sì, con l’aggravante che gli altri Paesi arabi i palestinesi non li vogliono. I palestinesi sono un popolo che per sua storia si organizza politicamente, ma per i Paesi arabi ospitarli è sempre una “grana”. Nessuno li vuole. Si trovano in questa situazione particolarissima di non avere una terra ma di non essere davvero sostenuti fino in fondo dai loro confratelli arabi.
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