Forse per la prima volta dal 1945, il cosiddetto occidente collettivo si trova a dover affrontare due guerre significative nello stesso momento. Si tratta di una situazione già di per sé eccezionale, ma lo è ancor più in quanto il mondo occidentale sta attraversando una fase a dir poco complicata, ed in cui sicuramente la sua potenza (non solo militare) viene apertamente messa in discussione e sfidata, da parte di più attori sulla scena internazionale. E per quanto, soprattutto negli ambienti anglo-americani, una lunga dimestichezza con la geopolitica e le strategie globali dovrebbe aiutare a leggere correttamente la fase, ciò sembra invece non accadere. O quanto meno, non del tutto.
Dal punto di vista dell’occidente, infatti, sembra che – semplicemente – una guerra rimuova l’altra. Archiviata di fatto quella in Ucraina, data sostanzialmente per persa e comunque ormai fonte più di imbarazzo e fastidio, Stati Uniti e NATO sembrano essersi gettati sulla (rinnovata) guerra israelo-palestinese, con lo stesso entusiasmo dei primi mesi in Ucraina.
Anche se per il momento a sostenere economicamente Israele sono soltanto gli USA, mentre i paesi europei si limitano ad un supporto politico totale ed incondizionato [1], è evidente che l’onda lunga di questa guerra finirà per investire ancora una volta proprio questi ultimi. Ed ancora una volta laddove fa più male, le fonti di approvvigionamento energetico. In questo, evidenziandosi una volta di più come le classi dirigenti europee siano non soltanto completamente asservite all’impero americano, ma anche costituite da leadership di assoluta mediocrità – se non peggio.
Quello che traspare, comunque, è che la percezione di queste guerre, in occidente, sia tutto sommato superficiale. C’è di mezzo, ovviamente, un vecchio problema, che riguarda tutte le guerre seguite al secondo conflitto mondiale. Tutti i conflitti che hanno visto coinvolti i paesi dell’occidente collettivo sono stati infatti asimmetrici (contro nemici decisamente meno potenti), di limitato impatto (relativamente pochi caduti, bilancio economico in genere sempre positivo), comunque politicamente vantaggiosi (anche quando conclusi con una sconfitta, il lascito di caos va sempre a vantaggio dell’egemone), e sopra ogni cosa sono state tutte combattute lontano da casa.
C’è, quindi, una diversa percezione della guerra, da parte del mondo occidentale, che si è formata negli ultimi ottant’anni. Una percezione che, fondamentalmente, si riassume nell’idea che possiamo combattere quante guerre vogliamo in condizioni di sicurezza. Sicurezza che, appunto, ci verrebbe da una schiacciante superiorità tecnologica e militare, tale da consentirci di proiettare la nostra forza bellica sempre e comunque in casa del nemico di turno, tenendo lontane tutte le conseguenze spiacevoli che sempre accompagnano una guerra.
Questo paradigma mantiene ancora la sua validità, ma comincia già ad incrinarsi. I costi economici, soprattutto per i paesi europei, stanno diventando insostenibili, ed è chiaro che per reggere il ritmo della loro (inevitabile) crescita verrà sempre più intaccato il modello di welfare a cui siamo abituati [2]. I costi politici crescono in parallelo, sia in termini di ulteriore e crescente perdita di qualsiasi spazio di autonomia (rispetto all’impero washingtoniano), sia in termini perdita di credibilità ed affidabilità internazionale.
Ci rimane – chissà ancora per quanto – la capacità di spostare le guerre sempre in casa altrui. Ma la linea del fronte si avvicina sempre più.
Un dato fondamentale, che sfugge alle leadership (ed alle opinioni pubbliche) occidentali, o che viene comunque letto in una chiave mistificatoria, è la connessione profonda tra le guerre ai nostri confini. Intanto, e non è poco, per la prima volta abbiamo due conflitti estremamente duri, ed estremamente pericolosi, nello stesso momento. Entrambe si svolgono in prossimità del limes dell’impero, ad est ed a sud, ed entrambe ci vedono profondamente schierati e coinvolti; manca appunto soltanto quell’ultima linea rossa da varcare, il coinvolgimento diretto.
In ogni caso, non è soltanto per la prossimità che queste due guerre sono connesse. In ambedue i casi, infatti, assai più rilevante è la natura profonda di queste che le mette in connessione. Sono, in modi diversi, e con ragioni contingenti differenti, due momenti della sfida che il resto del mondo lancia all’impero, alla sua egemonia. Di più, sono in effetti leggibili addirittura come concatenate: senza il conflitto in Ucraina (senza ciò che lo ha reso possibile, senza il suo esito), l’attuale conflitto in Palestina non avrebbe probabilmente potuto manifestarsi, non in questi termini almeno.
Il punto è che sono sia l’uno che l’altro come due distinte battaglie, ma della medesima Grande Guerra Globale.
Questa guerra viene combattuta, e lo sarà sempre più, con sempre nuove battaglie, secondo uno schema politicamente asimmetrico, nel senso che gli obiettivi delle parti in conflitto sono diversi e non semplicemente opposti. Per l’occidente si tratta di provare a mantenere la propria egemonia, cercando di logorare il nemico affinché la sua crescita (economica, militare e politica) sia ritardata il più possibile. Per il resto del mondo si tratta di liberarsi da tale egemonia – non di sostituirla con un altra.
Questa asimmetria ha una immediata conseguenza sui modi, e soprattutto sui tempi, con cui le parti in conflitto si affrontano. Per l’occidente egemonico, è una corsa contro il tempo, è ciò lo costringe ad essere giocoforza sempre più aggressivo e bellicoso. Per il mondo multipolare il tempo è il miglior alleato, quindi impegnerà battaglia solo quando strettamente necessario, e comunque non facendone mai determinare al nemico le regole. Ogni battaglia sarà combattuta quando e come sarà ritenuto opportuno.
È l’impero che cerca lo scontro, ma deve temerlo ogni volta.
Il generale tempo è un po’ la versione contemporanea di ciò che fu il generale inverno nelle campagne di Russia. Tutti gli attori internazionali, che si trovano – volenti o nolenti – a dover fronteggiare l’aggressività egemonica dell’occidente, ne sono consapevoli e vi fanno affidamento. E da ciò traggono coerentemente anche importanti indicazioni strategiche e tattiche.
Nonostante la Russia avesse, ad esempio, il potenziale militare per piegare l’Ucraina in breve tempo, ha preferito adottare un approccio diverso, basato sul logoramento del nemico, e che si prolunga nel tempo. Grazie a questo approccio, la guerra in Ucraina sta producendo molto di più della sconfitta del regime di Kiev, che avrebbe lasciato però – se fosse stata rapida – una scia di problemi irrisolti. Mettendo in azione il generale tempo invece, Mosca sta conseguendo molti, e ben più importanti risultati.
Innanzi tutto, sta demolendo l’esercito ucraino. Per quanto la NATO abbia impegnato ingenti risorse, almeno a partire dal 2014, per rafforzarlo e portarlo ai livelli dei suoi standard, oggi l’AFU è in gravissima difficoltà; basti pensare che l’età media dei militari in servizio è di 40 anni, tanto che si sta abbassando l’età di arruolamento a 17 anni, e la mobilitazione ha raggiunto le donne. Anche al netto dell’elevata renitenza, favorita dall’enorme corruzione, ciò significa che generazioni di maschi giovani sono state più che decimate [3].
La guerra di logoramento ha inoltre portato alla distruzione di colossali arsenali militari, non solo ucraini ma dell’intero occidente. Mentre l’industria bellica russa ha fatto giganteschi passi avanti, moltiplicando la produzione, e mettendo a frutto l’esperienza di combattimento per sviluppare sistemi d’arma più avanzati e più efficaci [4]. E soprattutto, in Ucraina la Russia ha mostrato che le armi e le tattiche della NATO non sono affatto invincibili, ma al contrario che è possibile sfidare e vincere l’egemone proprio laddove si sentiva più sicuro, ovvero sul campo di battaglia.
Ovviamente la NATO crede di avere ancora questa superiorità, in quanto la sua forza aerea e navale è ritenuta largamente superiore. Ma, come segnala Military Watch Magazine, “La NATO è significativamente inferiore alla Russia nella quantità e qualità dei missili antiaerei”.
In ogni caso, il conflitto ucraino ha messo in luce la fragilità del sistema bellico della NATO, e quindi la sua sfidabilità.
Tutto ciò – la mancata vittoria ucraina, la sconfitta delle armi della NATO, il grande sviluppo dell’industria bellica russa, per non parlare della creazione di fatto di un solido fronte antiegemonico con Iran, Corea del Nord e Cina – rappresentano un grosso intralcio rispetto ai disegni strategici statunitensi, per i quali si traducono nella necessità di rallentarne la realizzazione, regalando tempo ai suoi nemici.
Il nemico strategico degli USA, la Cina, viene infatti per un verso tenuta sotto pressione (con sanzioni, minacce di inasprimento delle stesse per la collaborazione con la Russia e l’Iran, provocazioni militari intorno a Taiwan e spinte espansive della NATO nell’indo-pacifico), e per un altro blandita con dichiarazioni distensive e proposte di pacifica convivenza. Washington sa che la competizione con Pechino difficilmente potrà essere vinta sul piano economico, deve quindi cercare di rallentarne lo sviluppo, ed al tempo stesso accelerare in vista dello scontro, sinché ritiene di avere sufficiente margine per assicurarsi una vittoria militare. In questo quadro strategico, la guerra Ucraina ha finito col diventare una battuta d’arresto, piuttosto che un passo avanti.
Similmente, il riacutizzarsi improvviso del conflitto israelo-palestinese si presenta come un intralcio per le strategie globali statunitensi. Per gli USA, infatti, il controllo del Medio Oriente è altrettanto fondamentale di quello sull’Europa, essendo questi due degli asset strategici irrinunciabili, per ovvie ragioni. In particolare, per quanto riguarda il M.O., Israele rappresenta il pilastro cardine su cui si fonda l’intera strategia di controllo sulla regione; strategia che a sua volta si articola fondamentalmente nel dividere il fronte arabo, legandolo appunto a Tel Aviv, e per fare ciò necessita che la principale ragione di tensione – la questione palestinese, appunto – venga costantemente silenziata. Questo delicato equilibrio, già minacciato dalla mediazione cinese che ha messo fine all’ostilità tra Arabia Saudita ed Iran [5], è stato fatto saltare dall’iniziativa palestinese del 7 ottobre.
Con il lancio dell’operazione Al-Aqsa Flood, infatti, la resistenza palestinese ha non soltanto rotto questi equilibri, ma esattamente come prima ha fatto il conflitto ucraino, ha mandato in pezzi il mito dell’invincibilità di Tsahal e dei servizi israeliani, ne ha mostrato la sfidabilità.
Non solo, la mossa palestinese ha riportato la Palestina al centro del dibattito mondiale e, aprendo la strada alla prevedibile reazione israeliana, ha costretto gli USA a scendere precipitosamente in campo per sostenere l’alleato, e con ciò stesso ha riapprofondito il solco di sfiducia tra occidente e resto del mondo.
Nonostante fosse evidente che le formazioni combattenti della resistenza non potessero battere l’IDF in attacco, così come era evidente che Israele avrebbe reagito selvaggiamente, la tempesta funziona egregiamente se vista nella sua prospettiva strategica, che ancora una volta punta sul logoramento del nemico. Come ha detto il leader di Hezbollah in occasione del suo discorso per la Giornata dei Martiri, “siamo in una battaglia di fermezza, pazienza e accumulo di risultati, una battaglia per raccogliere punti nel tempo” [6].
Le forze della resistenza, in Palestina e non solo, sono infatti assolutamente in grado di tenere testa all’esercito israeliano, e quindi di tenere inchiodati gli Stati Uniti in Medio Oriente, costretti a sostenere un’altra guerra, a bassa intensità stavolta, che il suo alleato non è in grado di vincere da solo.
Anche in Palestina, quindi, torna il generale tempo a contrastare i disegni dell’impero americano. Sia Netanyahu che il suo ministro della difesa, Gallant, parlano apertamente di una guerra che durerà mesi, se non addirittura di più, per sconfiggere Hamas. Ma può reggere uno scontro di questa durata, dovendo comunque non solo affrontare una durissima battaglia urbana con le forze della resistenza a Gaza, ma anche l’impegnativo confronto con Hezbollah sul confine libanese, le punture di spillo in arrivo dallo Yemen e dalla Siria, e la crescente rivolta in Cisgiordania?
Per quanto abbia alle spalle la potenza degli USA, Israele ha dinanzi a sé delle difficoltà enormi, che trascendono il mero aspetto militare. Anche a prescindere dallo scontro interno al paese, antecedente al 7 ottobre ma da questo soltanto leggermente sopito, c’è la questione delle responsabilità (politiche e militari) nella debacle, c’è la questione dei prigionieri civili e militari, c’è la questione – che sta ormai emergendo con forza – dei numerosi morti israeliani dovuti al fuoco dello stesso esercito.
Ma, ancora più forte, c’è il costo economico del conflitto.
Che non è semplicemente il costo vivo dell’operazione militare, specialmente se dovesse prolungarsi così tanto, ma l’impatto complessivo sull’economia israeliana. Che da un lato si vede sottrarre la forza lavoro dei riservisti richiamati, e dall’altro quella delle migliaia di palestinesi che ora sono stati espulsi verso Gaza. C’è la cessazione delle attività economiche in tutto il nord, in gran parte evacuato per ragioni di sicurezza, ed altrettanto lungo i confini con la Striscia di Gaza. Persone evacuate da entrambe le regioni che, oltretutto, avranno prima o poi bisogno di un aiuto pubblico. Per tacere del fatto che più di un quarto di milione di israeliani ha lasciato il paese, in seguito all’attacco del 7/10. Il tutto, in un quadro di isolamento internazionale crescente; e anche se i governi del NATOstan non deflettono nella solidarietà verso Tel Aviv, è evidente che il comportamento di quest’ultima crea enormi imbarazzi, che alla lunga finiranno per aprirvi crepe.
La situazione è tale, dunque, che sia Israele che gli Stati Uniti avrebbero bisogno di uscire da questo impasse in fretta, ma sanno entrambe che non sarà possibile. Ed a Washington scalpitano, perché sono consapevoli di come questa crisi stia mettendo in seria difficoltà tutto il suo network di relazioni mediorientali. Al punto che – di necessità virtù – Biden si appresta a chiedere a Xi Jinping di intercedere con Teheran, affinché si astenga dall’intervenire.
Solo che l’Iran non alcuna fretta di farlo; siede metaforicamente sulla riva del Giordano e attende…
1 – In effetti, il governo tedesco ha da poco aumentato massicciamente le autorizzazioni per le esportazioni di armi verso Israele. Dal 2 novembre, il governo ha autorizzato esportazioni per un valore di circa € 303 milioni. Nel 2022 erano solo circa € 32 milioni. (Fonte: Deutsche Welle Politics)
2 – Come ha dichiarato recentemente Josep Borrell, responsabile della UE per la politica estera, “i paesi UE devono essere politicamente preparati a compensare i tagli agli aiuti USA all’Ucraina”.
3 – “Le perdite delle forze armate ucraine sono esorbitanti”; così ha detto l’ex presidente del comitato militare della NATO, ed ex ispettore generale della Bundeswehr, generale Harold Kujat sul canale YouTube dell’HKCM.
4 – Secondo la rete televisiva tedesca ZDF, “la Russia è all’avanguardia nell’innovazione militare in Ucraina, mentre le armi occidentali sono in ritardo”.
5 – La mediazione di Pechino, oltre a consentirgli di affacciarsi autorevolmente nella regione, ha prodotto a cascata una serie di eventi sgraditi all’impero: il rientro della Siria nella lega Araba, l’avvio di una possibile risoluzione dei problemi tra questa e la Turchia, la fine del conflitto tra Ryhad e Sanaa.
6 – Sayyed Hassan Nasrallah, 11 novembre 2023, Rumble
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