Disastri ambientali
di DOPPIOZERO (Davide Papotti)
Nella società contemporanea il dominio del visuale appare incontrastato, in più ambiti e in diverse prospettive. La comunicazione mediatica, infatti, è sempre di più trasmissione e condivisione di immagini; l’accessibilità ai mass media fondati su un portato visuale è sempre più ubiqua, portatile e capillare; nel mondo dei social media, per esistere occorre essere visibili. Con la consueta acutezza e lucidità, aveva visto bene Italo Calvino, che, nelle sue Lezioni americane, dedicò la quarta delle Norton Lectures che avrebbe dovuto tenere nell’anno accademico 1985-86 alla Harvard University proprio al tema della visibilità: “Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini” (p. 69). La preoccupazione che attraversa la dotta lezione di Calvino (fondamentalmente una riflessione sul rapporto fra mente creativa e immaginario) ha purtroppo trovato radicate e pervasive conferme in una società, quale quella contemporanea, che ha fatto della visibilità una dimensione di superficie, inevitabilmente effimera, sinonimo di semplificazione.
Come ovvia conseguenza di questo impero della visibilità futile, ciò che non è immerso nel continuo turbinio della volatile comunicazione sociale quotidiana sembra non esistere affatto. Non si tratta però soltanto di una questione di celebrità, di numero di followers, di successo dell’influencer di turno. Il dominio di un certo tipo di visibilità, come già aveva intuito Calvino, intacca le potenzialità cognitive non soltanto dei singoli individui, ma anche della società nel suo complesso. Se il mondo occidentale ha da secoli percorso un itinerario di rafforzamento della dimensione visuale, l’attuale posizione dominante di questo approccio sensoriale rischia un carattere di monopolio, con forti ripercussioni sulla coscienza e sulla conoscenza espresse dalle società: ciò che non è immediatamente visibile non è più degno di attenzione.
La mancanza di visibilità non soltanto inficia profondamente la conoscenza, ma può anche possedere gravi ripercussioni pratiche: basti pensare come l’invisibilità di certi fenomeni diventi assai pericolosa quando si tratta di inquinamento o di rischio ambientale. In questi ambiti, ciò che è invisibile può essere altrettanto pericoloso di ciò che ottiene subito un riscontro di visibilità e, quindi, di riconoscibilità. Non a caso sul problema della vista (e della sua assenza), lo scrittore portoghese Josè Saramago ha impostato l’inquietante metafora di uno dei suoi romanzi più celebri, Ensaio sobre a Cegueira (1995; nell’edizione italiana il titolo è stato semplificato in Cecità). In relazione ai problemi ambientali, ed alla loro “invisibilità” in gran parte della letteratura contemporanea, lo scrittore indiano Amitav Gosh ha pubblicato un illuminante saggio che nell’edizione italiana è stato tradotto ricorrendo di nuovo a una metafora legata al senso della vista: La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (nell’edizione originale in inglese, del 2016, il titolo è “The Great Derangement”, parola che può significare sia “disordine”, “disallineamento” in generale, ma anche una vera e propria malattia mentale).
Il mondo dell’ecologia è un mondo complesso: fatto di correlazioni, di legami, non sempre intuitivi, percepibili, riconoscibili. Eppure su questo fronte, come dovrebbe essere ormai evidente, è in gioco la sopravvivenza stessa della specie umana. Per comprendere appieno il nesso che, nella presa di coscienza delle problematiche ecologiche, sussiste fra percezione sensoriale, modalità conoscitiva e coscienza individuale/collettiva occorrono competenze multiple, che attraversano la psicologia cognitiva, la psicologia sociale, la sociologia, la geografia della percezione, l’ecologia, la chimica, la fisica.
Una lettura convincente, ed avvincente, di questa complessità ci viene ora dal volume Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali, di Adriano Zamperini (Einaudi, 2023), in cui l’autore, oltre ad offre i presupposti terminologici e concettuali per affrontare correttamente questa complessità (parlando ad esempio di “territorializzazione del sé”, un termine che efficacemente esemplifica e riassume i fervidi incroci interdisciplinari che la psicologia sociale intrattiene con la geografia, la sociologia, l’antropologia), ne analizza le componenti in quello che egli definisce il “triangolo della violenza”: “La mano invisibile dei perpetratori “Il danno invisibile delle vittime” e “La violenza invisibile agli occhi degli spettatori”.
Tutto questo entro un orizzonte definito da due parole chiave: “Giustizia e sicurezza”. La prima per fungere da antidoto alla violenza, la seconda come filtro conoscitivo cruciale per comprendere le dinamiche sociali del nostro tempo; la domanda di sicurezza, in diversi ambiti, è infatti uno dei nodi centrali della politica contemporanea.
Le pagine di Zamperini conducono il lettore ad una lucida consapevolezza dei fenomeni che governano la “violenza invisibile”, cioè tutte le forme di danno ambientale prodotte dall’azione umana che non possiedono un’immediata percettibilità sensoriale. Basti pensare alle radiazioni nucleari, la cui presenza, in caso di incidenti (la memoria corre subito al caso di Chernobyl e a quello, più recente, di Fukushima) è rilevabile soltanto attraverso strumentazione tecnica. Oppure all’inquinamento delle falde acquifere, come nel caso della contaminazione da PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) del Veneto (e in generale di tutto il bacino del fiume Po; Zamperini da anni segue come studioso le dinamiche socio-psicologiche legate a questo grave tipo di inquinamento). La prima caratteristica della “violenza invisibile” è certamente questa mancanza di riconoscibilità sensoriale ed organolettica; ma non si tratta dell’unico aspetto subdolamente pericoloso. Come già Rob Nixon, nel suo volume Slow Violence and the Environmentalism of the Poor (2011) aveva correttamente spiegato, la violenza ambientale può spesso mascherarsi attraverso la diluizione nel tempo. Non soltanto nell’estensione temporale delle cause, e quindi dell’esposizione alla contaminazione, ma anche per quanto riguarda la lunga durata degli effetti; anche in questo caso, basti pensare all’inerzia temporale dei grandi disastri ambientali provocati da attività nucleari o chimiche. In ultimo, a comporre il quadro della violenza invisibile, vi è la disuguaglianza sociale. Trattandosi di forme complesse e striscianti di violenza ambientale, la presa di coscienza, la divulgazione e la presa in carico dei problemi possono essere correlati a fattori sociali, come il livello di istruzione, la condizione economica, la disponibilità di tempo e di risorse da poter dedicare al problema. Spesso sono dunque gli strati sociali svantaggiati ad essere i più colpiti da questo tipo di violenza, con forme di colpevolizzazione della vittima efficacemente spiegate ed esemplificate nel volume di Zamperini, che ci restituisce con lucida spietatezza gli interessi economici che regolano ed inficiano il diritto alla salute delle popolazioni. Si tratta di informazioni che dovrebbero essere rese disponibili al maggior numero di persone possibile, anche nelle opportune sedi di istruzione scolastica ed universitaria. Per rendere, appunto, certi tipi di violenza più “visibili”, per farli uscire da quel cono d’ombra all’interno del quale essi continuano a coltivare una efferata dannosità. E per restituire al termine “visibilità” la pregnante utopia calviniana, che prevedeva la possibilità di vedere, attraverso l’immaginazione, anche l’invisibile.
Commenti recenti