Ultimo atto per la Coalizione anti ISIS e la presenza USA in Iraq e Siria?
di ANALISIDIFESA (Gianandrea Gaiani)
Gli Stati Uniti lamentano i primi caduti nel conflitto mediorientale riacceso dallo scontro israelo-palestinese iniziato il 7 ottobre scorso. Tre soldati americani sono morti in un attacco notturno con drone contro una postazione statunitense nella Giordania nord orientale, vicino al confine con la Siria, mentre altri 34 sono rimasti feriti. Un portavoce del governo giordano ha riferito alla tv pubblica che l’attacco non è avvenuto sul suolo giordano ma oltre il confine, in Siria, contro la base americana di Al-Tanf dove da anni i soldati di Washington impediscono alle truppe regolari di Damasco di riassumere il controllo di uno dei “santuari” degli insorti anti-governativi.
Il Pentagono sostiene invece che sia stato colpito l’avamposto Tower 22, inserito nel complesso militare di al-Tanf ma situato in territorio giordano dove gli Stati Uniti schierano circa 3mila militari che si aggiungono ai 2.500 in Iraq e ai circa 1.000 dislocati in Siria: in quest’ultima nazione non ci sono accordi con il governo di Damasco che autorizzino tale presenza.
“Stiamo ancora raccogliendo informazioni sull’attacco ma sappiamo che è stato effettuato da miliziani radicali sostenuti dall’Iran che operano in Siria e Iraq”, ha accusato il presidente Joe Biden in una nota diffusa dalla Casa Bianca in cui ha reso omaggio ai caduti aggiungendo: “Non abbiate dubbi: chiederemo conto a tutti i responsabili, nel momento e nel modo che sceglieremo”.
L’attacco e i caduti mettono in ulteriore difficoltà l’Amministrazione Biden già alle prese con gravi difficoltà sui temi della difesa e sicurezza a dieci mesi dal voto presidenziale: l’escalation nel Mar Rosso in seguito agli attacchi non risolutivi condotti contro le milizie Houthi, la forte contestazione interna al Partito Democratico per le vittime civili palestinesi nella Striscia di Gaza, le tensioni con il Texas che ha schierato la Guardia Nazionale lungo il confine messicano per bloccare i flussi migratori illegali sfidando (sostenuto da 25 stati dell’Unione) il governo federale, il mancato accordo al Congresso per sbloccare nuovi fondi per il sostegno militare all’Ucraina sempre più in difficoltà nella guerra contro la Russia….
Se sul fronte interno Donald Trump accusa Biden di “trascinarci in un’altra guerra”, la situazione di tensione creatasi in tutto il Medio Oriente intorno alla presenza militare statunitense rischia di determinare la fine della Coalizione anti ISIS guidata da Washington ma composta da trippe alleate di diverse nazionalità. Il dibattito sulla necessità di ritirare le truppe presenti in Siria al di fuori di ogni legittimazione giuridica è tornato alla ribalta in seguito ai recenti nuovi attacchi delle milizie scite alle piccole basi situate in Siria Meridionale e orientale.
La questione venne presa in esame già dall’amministrazione Trump ma all’epoca il Pentagono convinse la Casa Bianca a mantenere la presenza di truppe a sostegno delle milizie curde e situate nei pressi di alcune basi russe con l’obiettivo di impedire a Damasco di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi dell’est.
La recente decisione di Mosca di impiegare i propri aerei schierati dalla fine del 2015 nella base di Hmeymin (Latakya) per sorvolare l’area di confine con Israele nel Golan sembra indicare la volontà di Mosca di porsi come garante di Damasco anche nei confronti di Israele che continua a colpire in territorio siriano milizie e obiettivi legati all’Iran.
Il ritiro statunitense dalla Siria (e dall’Iraq) costituirebbe quindi una grande vittoria per la Russia, l’Iran e per il governo siriano di Bashar Assad ma/ va inserito in un contesto che vede pericolante anche la presenza delle forze statunitensi e della Coalizione anti ISIS in Iraq, il cui governo ha rinsaldato strette relazioni con Damasco e intende negoziare il ritiro delle forze americane.
Washington e Baghdad avvieranno nei prossimi giorni le discussioni sul futuro della coalizione anti-Isis nel Paese, nel quadro del gruppo di lavoro congiunto istituito dai due Paesi, come ha annunciato in una nota il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, dopo la pubblicazione di alcune indiscrezioni di stampa in merito all’imminente ritiro delle forze militari statunitensi in Iraq.
“Il lavoro della commissione consentirà di avviare una transizione verde una partnership strategica bilaterale tra Stati Uniti e Iraq, dopo il successo della campagna contro lo Stato islamico”, si legge, aggiungendo che le discussioni saranno incentrate sul “futuro” della missione della coalizione internazionale, le cui basi (soprattutto a Erbil, in Kurdistan e ad al-Asad, nella regione occidentale di al-Anbar) sono state più volte prese di mira da razzi e droni lanciati dalle milizie scite delle Forze di Mobilitazione Popolare (MUP), considerate patte integrante delle forze di sicurezza irachene.
Lo scambio di attacchi tra le milizie scite e le forze statunitensi e l’uccisione a Baghdad, all’inizio dell’anno, di tre comandanti delle MUP ad opera di un UAS MQ 9 Reaper americano, hanno mobilitato le forze politiche irachene a premere sul governo per espellere le truppe di Washington dalla nazione araba.
Il ministero degli Esteri iracheno ha reso noto il 25 gennaio che è stato concordato con gli USA di formulare un calendario che specifichi la durata della presenza della coalizione internazionale contro l’Isis in Iraq, sottolineando che l’accordo prevede l’inizio della graduale riduzione di tali forze aggiungendo che Baghdad si impegna a garantire la sicurezza dei membri della coalizione internazionale durante il periodo di negoziazione relativo al loro ritiro. Il ritiro delle forze americane in Iraq renderebbe inoltre logisticamente impossibile sostenere le truppe schierate nelle basi situate nella Siria Orientale.
Lo stesso giorno attacchi missilistici condotti dagli Stati Uniti in Iraq hanno distrutto due quartier generali e una struttura di intelligence del gruppo sciita filoiraniano Kataib Hezbollah. Il premier iracheno Shia Al Sudani aveva già annunciato la formazione di una commissione per mettere fine alla missione americana in Iraq. In occasione del forum di Davos aveva precisato che l’Isis “non è più una minaccia” definendo la partenza degli americani “fondamentale per la stabilità del Paese”.
Il 25 gennaio le truppe irachene hanno “distrutto” alcune postazioni tenute dallo Stato islamico nell’ambito dell’operazione “Waad al Haq” (“Promessa di verità”) nelle province di Diyala, Salah al Din e Kirkuk: segnale inequivocabile che Baghdad punta a garantire in autonomia la propria sicurezza.
Come è già accaduto in Afghanistan in seguito agli accordi tra USA e Talebani, anche in Iraq le intese che verranno raggiunte tra Baghdad e Washington ricadranno direttamente sulla presenza degli altri contingenti della Coalizione incluse le forze italiane e la missione di addestramento e consulenza della NATO.
Dall’Italia finora non sono emerse reazioni o commenti mentre il 25 gennaio il ministro degli Esteri spagnolo, Jose Manuel Albares, dopo un incontro a Baghdad con l’omologo iracheno, Fuad Hussein, ha dichiarato che le truppe spagnole dispiegate in Iraq nell’ambito della missione NATO e della coalizione contro lo Stato islamico rimarranno nel Paese “fino a quando Baghdad lo vorrà”. “Siamo qui su richiesta del governo iracheno e ce ne andremo quando il governo iracheno lo riterrà opportuno”, ha spiegato il capo della diplomazia di Madrid. La Spagna ha circa 150 militari dispiegati in Iraq in parte nella base al-Asad.
Foto: forze statunitensi in Siria (US Army)
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