Ahmed prova a scherzarci su: «A quest’ora qui, davanti alla scuola, per terra trovavi solo cartacce di cioccolatini e caramelle: i bambini uscivano, affollavano i negozietti e poi, lo sai come sono fatti i bambini, buttavano la carta per terra. Ora è tutto pulito: i genitori non hanno da dargli uno o due shekel per le caramelle».

La Cisgiordania che entra nel quinto mese di offensiva non ce la fa più. La spirale di violenza, chiusure, raid notturni dell’esercito, arresti di massa e perdita del lavoro ha raggiunto un picco esplosivo. Un misto di rassegnazione, scappatoie per sopravvivere e rabbia. Non la nascondono, emerge dai discorsi, dal modo di parlare, dall’ironia gelida.

IERI E OGGI i medici hanno scioperato: niente stipendio pieno da mesi. Per gli insegnanti è lo stesso: le scuole sono aperte, le università tengono lezioni da remoto, ma di salari già magri ricevono solo la metà.

La «fortuna» è che quasi ogni famiglia allargata ha qualcuno che lavora nel pubblico, qualcosa a fine mese arriva comunque. A casa di Mona, insegnante alle porte di Betlemme, il suo è l’unico stipendio che entra dal 7 ottobre.

Da allora 100mila lavoratori impiegati in Israele sono seduti a casa: permessi di lavoro cancellati subito. Altri 150mila, illegali nel mercato israeliano, lo stesso. Ogni anno con loro entravano in Cisgiordania 3,5 miliardi di dollari, secondo l’Economic Policy Research Institute. E ancora, hotel vuoti, ristoranti anche, negozi che aprono quando possono. Costa tutto troppo.

«Quattro mesi fa cinque chili di pomodori li pagavi otto shekel, oggi ne servono 18 per un chilo solo – dice Ahmed, volontario del comitato popolare di Dheisheh – Le verdure arrivavano da Gerico e Jenin, ma oggi con la chiusura militare della Cisgiordania il poco che c’è ha dei costi sempre più inaccessibili».

Il problema è anche la produzione locale, dalle campagne intorno Betlemme. «Villaggi come Battir, Nahalin, Hussam, sono chiusi. I contadini che ogni mattina venivano al mercato a vendere sono spariti. Molti non riescono a coltivare per le violenze dei coloni. Quest’anno abbiamo bruciato la raccolta delle olive».

KHALIL faceva l’imbianchino a Gerusalemme. Ha cinque figli, un cane e «una casa di due stanze. A Beit Shemesh, il mio villaggio di origine, avevamo ettari di terra». È un rifugiato del 1948, vive nel campo di Dheisheh. Per anni ha lavorato in un hotel a Betlemme, poi aveva ottenuto l’agognato permesso di lavoro in Israele.

Dice che non sa più cosa dire ai suoi figli che lo vedono lì a casa tutti i giorni: «Non abbiamo il controllo delle nostre vite. Dovrei spiegare ai miei figli cosa sta succedendo ma non so più come fargli immaginare il futuro. Non abbiamo mai avuto certezze, neanche economiche».

Helu è giovane, di figli non ne ha. Vive con i genitori. Lavorava come manovale nella colonia di Beitar Illit. La scorsa settimana la sua è stata una delle 75 famiglie a cui il comitato popolare, insieme all’ong italiana Acs e Ya Basta ÊdîBese, ha consegnato un pacco alimentare: olio, farina, zucchero, pasta.

«Ne avevamo bisogno. Abbiamo finito i risparmi. Lavoro al massimo un giorno a settimana, quando trovo qualcosa. Prima guadagnavo 300 shekel al giorno, oggi 50. E costa tutto il triplo».

Nel campo la tensione si respira. Nel labirinto di vicoli, che celano minuscoli cortili di rose e alberi da frutta, molti negozietti sono chiusi. Da un mini market appare una donna, è la proprietaria. Chiede ad Ahmed se il comitato può aiutarla a comprare delle medicine.

DA MESI l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, già a corto di fondi, non riesce a coprire le spese farmaceutiche. La paura è che la macchina si ingolfi con il taglio dei finanziamenti da parte di 13 paesi occidentali (dopo le accuse di Israele a 12 suoi dipendenti gazawi di aver preso parte alle violenze del 7 ottobre).

«L’effetto sarà enorme – continua Ahmed – L’Unrwa qui gestisce le scuole e le cliniche, ma si occupa anche di reperire medicinali e di provvedere, quando possibile, con pacchi di aiuti. Lo ha fatto durante il Covid. Ora rischia di collassare».

Rischiano il posto anche un centinaio di dipendenti con impiego stabile perché da anni, ormai, l’Unrwa non può permettersi di assumere, opta per contratti di un mese quando i fondi arrivano. Non contribuisce nemmeno più a operazioni chirurgiche e cure mediche che dovevano essere realizzate fuori dalle cliniche del campo: copriva il 75%, ora no.

Nella sede del comitato, sopra la scrivania, c’è una lista di nomi. Dopo la consegna dei pacchi a 75 famiglie, in pochi giorni un altro centinaio si è presentato qui a chiedere aiuto. «Sono molte di più quelle che ne hanno bisogno – dice una volontaria, Sara – Lo sappiamo perché le conosciamo. Molti si vergognano di venire».

Non si può contare nemmeno più sui contributi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che permettevano di coprire gli aiuti alle famiglie più bisognose. «Ora il nostro fondo cassa è vuoto. Abbiamo debiti con le farmacie». L’Anp non riesce a pagare gli stipendi dei suoi, figurarsi distribuire sostegno economico agli altri.

«LA SITUAZIONE del settore pubblica non è nuova: da un anno Israele ha congelato parte dei fondi delle tasse palestinesi che raccoglie per l’Anp, ma ora la situazione è drastica: non consegna più nulla dal 7 ottobre. Dal 2023 i dipendenti pubblici ricevono il 50% dello stipendio alcuni mesi, 65% in altri mesi, ora è di nuovo calato al 50%», ci spiega l’economista palestinese Basel Natsheh. Una media di 550 milioni di shekel (140 milioni di euro) al mese che l’Anp non riceve, «il 35% del budget palestinese».

«Nell’ultimo quadrimestre del 2023 – continua – il pil dei Territori occupati ha perso il 30%. Con la chiusura di città e villaggi, le attività economiche sono rallentate drammaticamente nell’impiego locale e nella produzione. Avevamo un tasso di disoccupazione al 14% in Cisgiordania, ora è al 35% secondo i dati ufficiali. Ma è più alto: tanti lavoravano a nero. Siamo in un circolo di inflazione e disoccupazione: i palestinesi non saranno in grado di supportare se stessi nel contesto di un’economia già dipendente da quella dell’occupante, che decide cosa entra ed esce».

Al rischio danno voce in tanti: un’esplosione sociale che non sarà facilmente controllabile. Un mix di deterioramento economico e frustrazione politica, di umiliazioni quotidiane e senso di impotenza: «Si rischia il caos – conclude Natsheh – Furti, violenze, ma anche una sollevazione popolare. La gente non ce la fa più».

FONTE:https://ilmanifesto.it/la-cisgiordania-affamata-e-umiliata-rischia-di-esplodere