Calcio e Kultur: note sul concetto di forma a partire dal tempo europeo
DA LA FIONDA (Di Lorenzo Serra)
Nella nostra percezione, il calcio (così come, più in generale, lo sport) sembrano vivere in un luogo appartato – un’isola beata – rispetto alle problematiche del mondo contemporaneo, mentre, invece, come vedremo più avanti, i legami possono essere anche molto stretti, nel senso che il calcio costituisce una simbolizzazione fondamentale di quello che definiamo tempo europeo. La fascinazione per il calcio, e lo sport in generale, almeno qui in Europa (diverso è il discorso per quanto riguarda per esempio l’America Latina), sembrano, infatti, essersi definitivamente separati dalle problematiche della cultura tout court – in una fase di terribile crisi – avviandosi, sempre più, in direzione di un binario estremamente problematico: divenire il riflesso di quella compiuta spoliticizzazione, da decenni in atto nelle nostre società. Un luogo appartato, appunto, un’isola beata, rispetto alla crisi del contemporaneo. È una questione che investe più che i singoli individui, la nostra epoca tout court: una civiltà affacciata su un abisso, che vive, pur tuttavia, in un’apparente già compiuta redenzione.
Si cita spesso, a proposito, un passaggio di Pasolini – “il calcio come ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, anche se questa definizione andrebbe oggi problematizzata, perché il calcio dal tempo del racconto pasoliniano, è mutato drasticamente e parlare attualmente, per esso, di ‘sacralità’ risulta sempre più difficile: ma se anche questo sport, in qualche modo, conservasse la memoria di qualcosa di altro, ciò manterrebbe comunque immutato il problema di tutto il resto, e cioè della nostra Cultura. È di estrema importanza criticare fortemente una contrapposizione tra “calcio come divertissment” e “serietà della cultura”: anzi, lo sport, come già detto, merita studio e trattazione autonomi. Ma ciò non elude la domanda fondamentale: il fatto, cioè, che, qui in Europa, si stia perdendo qualsiasi ulteriore dimensione ‘sacra’, ritualistica e, più in generale, Culturale. Questa è quindi la questione che qui proponiamo: non sport vs Kultur, ma sport e Kultur – quello che oggi viene terribilmente a mancare. Ciò che dovremmo anelare, dunque, è alla possibilità di un diverso modo di concepire lo sport in un nuovo tempo – o perlomeno, che cominci una battaglia, un conflitto, una guerra contro il contesto dominante.
Tali premesse di carattere generale potrebbero sembrar in contraddizione con il seguito che tratterà, invece, di un aspetto estremamente specifico del calcio, ma questa, al fondo, è la tesi che qui si vuole sostenere: lo sport ri-assumerà, nuovamente, una sua integrale dimensione valoriale nel momento in cui non sarà più scisso, in modo così totale, dal problema della cultura nel suo complesso – non reso più, cioè, come momento, in definitiva, di evasione dalle problematiche del tempo. Si dovrebbe, cioè, tornare a sprofondare negli abissi della società, piuttosto che coprirli di tappeti di fiori (incarnati, sfortunatamente, oggi, anche da un certo interesse per lo sport, sempre più declinato in modalità monotematiche, e quindi separate dal problema della cultura nella sua totalità).
Ma arriviamo al tema: una riflessione definibile di natura ‘estetica’ sul calcio. Eludendo il problema se il calcio sia una forma d’arte, e quale tipo di arte sia (si parla, da più parti, di “arte in movimento”), si partirà dall’esame di tale questione, che sta suscitando, nell’ultimo periodo, dibattito: quanta importanza assumono i calciatori nella buona riuscita di una squadra e quanto, invece, incide un allenatore? Per rispondere a ciò ci viene in aiuto l’introduzione di un concetto nuovo, apparentemente atipico per il calcio (e lo sport in generale): quello di “forma”.
Un concetto prevalentemente di carattere estetico, ma che può assumere una sua rilevanza anche per l’interpretazione del fenomeno calcistico tout court: d’altronde, nel nostro tempo, non avendo molteplici possibilità di sbocco, le riflessioni sull’estetico precipitano, con sempre maggiore costanza, nella dimensione sportiva. Quali sono dunque quegli elementi fondamentali per cui possiamo dire che una squadra esprima, o incarni, una sua ‘bellezza’? Esiste la possibilità del ‘bello’ nel calcio, o si è condannati ad una polarizzazione estrema del dibattito pubblico, fondato, per di più, su opinioni ‘assolutamente soggettive’ (non tendenti più, cioè, ad una dimensione di condivisione ed intersoggettività)?
È solamente ponendo tali domande che riusciamo a comprendere il valore dell’allenatore, il quale, prescindendo, ora, dall’importanza che egli può avere riguardo la dimensione emotiva o sentimentale del gruppo (decisiva anch’essa), è colui che, soprattutto, può coadiuvare le squadre a giungere a ‘forma’ (il concetto di forma, d’altronde, mantiene una stretta relazione con quella dimensione emotiva a cui accennavamo). Ecco, dunque, la bellezza estetica che si può scorgere in questo sport: la possibilità di ritrovare in determinati movimenti collettivi compiutezza, armonia, proporzionalità (le quali, tuttavia, si possono avvicinare, come vedremo più avanti, anche a contesti apparentemente caotici). Insomma, non sono squadre necessariamente belle quelle che si fondano su una fase offensiva spiccata, come non sono necessariamente ‘brutte’, da un punto di vista estetico, quelle che si fondano su una maggiore importanza assegnata alla fase difensiva: bellezza, piuttosto, è la possibilità di giungere ad una forma.
Insistiamo su un punto, il concetto di forma non è un concetto classico (la proporzione non è qui quella delle linee ordinate, senza imprecisioni o sbavature), piuttosto è una nozione polivalente, tale da poter assumere al suo interno significanti differenti: forme offensive, difensive, caotiche e così via. Ma mai al punto di slabbrarsi: restano fermi i concetti, seppur al loro interno variegati, di armonia ed organicità. La forma, dunque, è la possibilità del ‘bello’ nel calcio, e si accompagna, nella gran parte delle volte, al problema dell’efficacia: una dimensione strettamente estetica che mantiene, così, un’immediata relazione con le possibilità di riuscita di una squadra.
Torniamo ora alla domanda iniziale: in questo concetto di forma quale rilevanza assumono i calciatori e quale, invece, l’allenatore? Esiste, sicuramente, la possibilità che i calciatori trovino da sè la chiave, per così dire spontaneamente (si pensi alla democrazia corinthiana capitanata da Socrates – anche se un abisso ci separa, calcisticamente, e culturalmente, da quel tempo storico). Oggi, però, che si procede verso una dimensione di maggiore ‘razionalizzazione’ anche nel mondo del calcio, l’allenatore sembra assumere una rilevanza più decisiva: siamo, cioè, di fronte ad un sempre minor spazio assegnato alla spontaneità aggregativa dei singoli e sempre di più, invece, alla disciplina (anche quando declinata in un contesto dai tratti caotici) di un collettivo. Prima, cioè, sintetizzando un fenomeno al suo interno molto più complesso e variegato, esistevano ‘forme’ legate maggiormente al carattere della contingenza, ora a quello della necessità.
Ma questo apre ad un’altra serie di questioni, che, qui, possiamo solamente enunciare: prima di tutto, quella che abbiamo definito come ‘razionalizzazione’ sembra esser un processo con una sua logica intrinseca da cui è estremamente difficile tornare indietro nel calcio, ma non solo, se non in modalità che sembrano assumere sfumature necessariamente utopistico-romantiche – si possono tentare altre strade (da approfondire è il progetto relazionale, latino-americano, dell’allenatore Diniz della Fluiminense, che sta costruendo una sua scuola), ma con estrema difficoltà, perché marcate, ad ogni modo, da quel sigillo ‘tecnico’ legato, ormai, anche a questo sport. E, quindi, un ulteriore problema (dai riflessi anche politici): noi aneliamo, realmente, al ritorno di un’assoluta indipendenza dei singoli (in cui pensiamo di riveder quel riflesso del ‘calcio mitico, di strada’)? Tolte alcune fantastiche eccezioni, infatti, il ‘singolo’ è tale, si esprime al meglio, in una dimensione di singolarità ‘slegata’ o, piuttosto, in un comune che lo metta in condizione di essere, veramente, ciò che è? Ma, ancora, questo ‘luogo comune’ non rischia, se estremizzato, di asfissiare l’individuo, facendogli obliare parte della sua dimensione creativa – una concezione dello spazio sistematizzata a tal punto non corre, cioè, il pericolo di costruire catene di montaggio, sì apparentemente funzionali, ma lascianti sempre minor spazio ad una dimensione di ‘anima’? Ecco allora come può ritornare, nelle forme di una reazione, quel celebre passaggio Dostoevskjiano – “2 più 2 uguale 5”: al diavolo la vostra felicita universale se ciò mortifica la mia singolarità. Eppure, anche questa sembra essere una messa in discussione problematica, che sembra eludere alcune delle sfide, più stringenti, poste dalla modernità. In conclusione, tutti questi interrogativi ruotano attorno a tale domanda fondamentale: si può recuperare una relazione proficua tra singolo e comune (tra ‘libertà dello spirito’ e ‘forma armonica’), tra orizzontale e verticale, senza subordinazione assoluta di alcuno dei due termini, ma in grado, piuttosto, di valorizzarli entrambi?
Ma questi sono più che altro appunti, domande, note che nascono dal calcio per procedere al di fuori di esso – con la speranza che, in un tempo non troppo lontano, possano tornare a legarsi passione per lo sport e passione per la ‘vita’ di una cultura, e di un’epoca, tout court.
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