La guerra del lavoro
DA LA FIONDA (Di Orazio Luongo)
Sembrava un terremoto, dice qualcuno. Un bombardamento, qualcun altro. Ma non siamo né a Gaza né in Ucraina. Siamo a Firenze, due passi dalla stazione Rifredi, che se alzi lo sguardo, la cupola del Brunelleschi non è poi nemmeno tanto lontana. Bella e maestosa, stagliata imponente contro i colli fiorentini.
Qui invece al cantiere di Via Mariti è venuto giù tutto. Un boato, ripete la gente che abita intorno. Di colpo abbiamo sentito un boato. Poi, le grida degli operai che chiedevano aiuto.
Nessun ordigno però, nessun cratere in mezzo alla sabbia e al cemento. Eppure laggiù la scena che si scorge tra travi e piloni crollati è quella di una distruzione impressionante. Roba che davvero fai fatica a distinguerla da un palazzo distrutto da un missile di precisione. Sotto le macerie, otto operai: tre feriti, quattro morti, uno disperso (che serviranno cinque giorni di ricerche per ritrovare anche lui morto). Un bilancio spaventoso.
Sì, non c’è dubbio. Se vuoi capire quello che è accaduto qui, non puoi che calarti nell’ordine di pensiero di una guerra. Una guerra dimenticata in nome del primato del profitto, di cui questo è solo l’ultimo tragico atto. Una guerra che dall’inizio dell’anno, in meno di due mesi, ha già visto morire quasi 200 lavoratori. E nel 2023, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale morti sul lavoro di Bologna, ha fatto ben 1485 vittime: una media di 4 morti al giorno. Morti che nel settore dell’edilizia, dicono ancora i dati, nel 70% dei casi sono operai di aziende in subappalto. Quella selva di imprese e microimprese in cui è sempre più spesso frantumata l’organizzazione del lavoro di un cantiere, e dunque anche la responsabilità della sicurezza di chi ci lavora. Una selva oscura, dove lavoratori dipendenti, in appalto e subappalto pur lavorando gomito a gomito sono ingranaggi slegati di un meccanismo governato dal principio del massimo ribasso dei costi. Fatto di inquadramenti, salari e diritti diseguali, ma anche di responsabilità separate che spezzettano il lavoro rendendo “l’errore” un rischio insito nel sistema. Tanto che sui cantieri edili italiani, dicono sempre i dati, ogni due giorni si muore.
Un sistema che di legge in legge, di riforma in riforma (l’ultima approvata lo scorso anno), in ossequio al principio del “non disturbare il fare”, ha visto dilagare in modo incontrollato la prassi dei subappalti a cascata. Finendo col rendere ancora più precario, un settore già abbondantemente liberalizzato.
Ed ecco allora le responsabilità di chi in questa quotidiana guerra, al di là dei proclami, ha lasciato i lavoratori sempre più soli, esposti agli attacchi di un conflitto di classe che dall’altro campo non si è mai fermato.
Le responsabilità di un sindacato votatosi interamente alla concertazione, che a forza di concessioni, accordi al ribasso, e deroghe ai contratti nazionali ha reso il lavoro più precario ed insicuro, e al contempo indebolito il potere contrattuale dei lavoratori, spesso costretti a lavorare in condizioni di rischio, o con ritmi e carichi di lavoro insostenibili, in contesti dove la sicurezza è sempre più una variabile dipendente dei profitti.
Ma anche le responsabilità politiche di una sinistra abbagliata sulla via del governo dagli idoli del mercato, della produttività, della flessibilità, tutti ispiratori di leggi e riforme che hanno segnato un arretramento spaventoso del nostro mondo del lavoro, demolendo tutele e diritti dei lavoratori, non ultimo quello di dire ‘No’ a condizioni di lavoro rischiose.
Politiche nefaste per chi lavora in determinati contesti, costretto a scegliere tra il rischio di rimetterci la pelle e quello di essere messo alla porta (addirittura alla porta d’uscita del paese, nel caso dei lavoratori immigrati). Fallimentari anche sul piano dei risultati, laddove si osserva che il numero degli infortunati e dei morti sul lavoro è rimasto sostanzialmente costante negli ultimi vent’anni, se non è persino aumentato. Piazzando stabilmente l’Italia tra i peggiori paesi dell’UE, in quanto a numero di morti sul lavoro in rapporto al totale degli occupati.
Una situazione inaccettabile per una repubblica fondata sul lavoro. Com’era inaccettabile, per i residenti di questo quartiere, l’idea che da quel cantiere sorgesse un altro mega centro commerciale, anziché un’area verde. L’ennesimo non-luogo simile in tutto e per tutto agli altri venuti su negli ultimi anni un po’ ovunque, cambiando per sempre il volto delle nostre città. Dove il cemento continua a divorare suolo. E dove un giorno capita che quel cemento venga giù, seppellendo vite. Come in una guerra. Una guerra silenziosa, dove non arriva mai il cessate il fuoco.
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