Il professore influencer e la scuola dello spettacolo
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Salvatore Grandone)
Con l’avvento dei social i caratteri della società dello spettacolo, già individuati da Débord negli anni ’60, raggiungono la loro forma più matura.“Ciò che è buono appare” e “ciò che appare è buono”; regna una visibilità assoluta in cui bello, bene e vero coincidono nell’apparire. L’attenzione si sposta dalle cose all’informazione e ai dati; si vive tra le “non cose”. Sui social l’influencer esprime la parabola di un io che si “informatizza”. La vita è infatti tradotta in reel, stories, feed, ecc. L’io non è più né poter essere né cosa oggettivata dallo sguardo dell’altro: diventa un’entità frammentata, sovraesposta all’occhio onnipotente di uno spettatore anonimo e controllata dagli algoritmi. All’interno di queste dinamiche sta emergendo negli ultimi tempi quello che a prima vista sembra un semplice epifenomeno: il professore influencer. Ma si tratta realmente di un effetto secondario? In che modo i docenti influencer incidono sul divenire della relazione educativa? Di fronte alle tante celebrazioni acritiche e alle prese di posizione polemiche è importante tentare una descrizione che colga le peculiarità della spettacolarizzazione della scuola.
In un celebre testo degli anni ’60 Guy Débord individua nello spettacolo il carattere dominante della nostra società.
« Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza. » (G. Débord, La società dello spettacolo)
Lo spettacolo abolisce la distinzione tra verità e menzogna, tra essere e apparire. L’aspetto più inquietante è non solo che “ciò che appare è buono”, ma che “ciò che è buono appare”. In altre parole, il “buono” inizia e finisce nell’orizzonte dello spettacolo: al di là dell’apparire vi è solo scarto, deiezione e insignificanza. Lo spettacolo è così ideologia, anzi, continua Débord,
« Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo è materialmente “l’espressione della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo”. La “nuova potenza dell’inganno” che vi si è concentrata ha la sua base in questa produzione, dalla quale “con la massa degli oggetti cresce […] il nuovo regno di enti estranei cui l’uomo è asservito”. » (Ivi)
Oltre ad accentuare i tratti appena descritti, l’avvento dei social ha spostato in modo marcato l’attenzione dalle cose alle informazioni. Ha preso gradualmente il sopravvento il mondo di “non cose”. Afferma Byung-chul Han in Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale:
« Oggi le cose precipitano sempre più sullo sfondo della nostra attenzione. L’attuale iperinflazione degli oggetti, che conduce alla loro esplosiva proliferazione, è a sua volta sintomo di una crescente indifferenza nei loro confronti. Le nostre ossessioni non sono più indirizzate alle cose, bensì alle informazioni e ai dati. Ormai produciamo e consumiamo più informazioni che cose. Ci inebriamo con la comunicazione. Le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non-cose. La conseguenza di ciò si chiama infomania. Ormai siamo tutti infomani. […] Stiamo diventando tutti dei feticisti delle informazioni e dei dati. Si parla addirittura di “datasexuals”. La rivoluzione industriale ha rinsaldato e ampliato l’ambito oggettuale, allontanandoci solo dalla natura e dall’artigianato. La digitalizzazione, invece, ha messo la parola fine al paradigma oggettuale. Essa sottomette le cose alle informazioni. »
Lo spostamento dell’attenzione dalle cose alle informazioni ha conseguenze rilevanti sull’intersoggettività. Se lo sguardo dell’altro, come insegna Jean-Paul Sartre, tende a solidificare e alienare le possibilità dell’io, cioè a reificarlo, l’esibizione dell’esistenza sui social, con la relativa informatizzazione e riduzione in dati visualizzabili e indicizzabili, produce un’alienazione di un’alienazione.
La persona sovraesposta sui social, l’influencer, si consegna a uno sguardo anonimo e onnipotente che non si accontenta di reificare. Nell’ordinaria situazione del con-essere l’essere oggetto per l’altro genera la perdita sul piano intersoggettivo dello scarto che è l’io per se stesso, ma si guadagna pur sempre una fittizia unità oggettuale – quella che gli altri attribuiscono – che dà una presunta coerenza al soggetto. Certo è un senso che “sta stretto”, fragile come le maschere dei personaggi pirandelliani. Però è per sempre un senso con cui confrontare le proprie più autentiche possibilità.
Ora, sui social il passaggio dal regime delle cose a quello dell’informazione provoca un’esposizione infinita nel visibile, che frantuma l’io in immagini e video sempre e ovunque disponibili. Nell’assoluta visibilità dello schermo l’io non ex-siste né è una mera cosa per l’altro; diventa un insieme di informazioni, di pacchetti-dati ordinati da algoritmi. L’influencer si “specularizza” nei social, entra in un gioco di specchi da cui non si può sottrarre. Come oggetto per gli altri l’io aveva un senso a cui in linea di principio poteva resistere; come informazione l’io subisce una dispersione e una molteplicità di sensi che sfuggono al controllo.
Alla luce di queste considerazioni, è interessante interrogarsi su quello che potrebbe essere considerato un effetto secondario. Negli ultimi tempi sta emergendo il fenomeno dei professori influencer. Cosa aggiunge la sua diffusione a quanto descritto? In che modo i docenti influencer possono incidere sulla rappresentazione e sul divenire della relazione educativa?
Il docente influencer mette sul palcoscenico dei social una narrazione della scuola. L’educazione si fa spettacolo con la conseguente riduzione del portar-fuori dell’e-ducere a un essere-fuori senza profondità. L’intimità della relazione educativa, con le sue difficoltà e contraddizioni, è sostituita infatti da un gioco di specchi che rimandano a simulacri di alunni e di docenti. L’insegnante diventa un content creatror che cerca di capitalizzare il tempo educativo trascinandolo sullo schermo. Dalla classe allo schermo è tra-dotta soprattutto la dimensione affettiva, in quanto nutrimento principale dello storytelling. Ma, portata sui social, l’emozione promuove; essa è funzionale ai like e alle visualizzazioni dei contenuti. La relazione affettiva positiva alunno-professore si oggettiva in “yes boys” e “yes girls” impersonali.
Dal momento che la riflessione è sullo schermo letteralmente “speculazione”, visibilità, si producono le classiche polarizzazioni del mondo social. Il dibattito è azzerato da schemi manichei. Si è liberi di mettere i like alle storie del professore influencer e di commentare, vincolati però da una narrazione fornita a priori. Il senso è infatti ancora una volta sovraesposto.
Qualsiasi critica costruttiva resta muta, perché rinvia all’invisibile. In effetti, l’unica interazione “fuori luogo” sui social è proprio la parola che indica il mondo della vita. Chi prova a instaurare un dialogo al di là dell’assoluta visibilità si mette in scacco da sé. Non è possibile uscire dallo spettacolo, in quanto per dia-logare occorre mono-logare, aderire allo spazio unidimensionale della scena. La libertà è schiacciata dalla accettazione della logica tirannica dello spettacolo.
Con l’ascesa del docente influencer si assedia allora una delle poche roccaforti, la scuola, in cui la riflessione non era ancora ridotta alla speculazione autoreferenziale dello schermo. La scuola che si fa spettacolo rinuncia alla velatezza intrinseca al dialogo educativo. Non c’è formazione o educazione senza presuppore la distinzione tra un “dentro” e un “fuori”, senza temporalità incerta, senza un’intersoggettività opaca.
La spettacolarizzazione della scuola tende ad azzerare la distinzione dentro-fuori. Le narrazioni dei professori influencer determinano il “dentro” e il “fuori”. In altri termini, la profondità della relazione educativa è appiattita sul visibile. Tutto è ridotto a informazione: il docente, gli alunni, la didattica, ecc. La temporalità incerta e caotica dell’insegnamento è ricostruita con storie che servono ad alimentare l’intensificazione della visibilità. Sullo schermo vige un eterno presente anonimo in cui non si dà profondità e progresso.
L’intersoggettività con le sue incomprensioni e frustrazioni, con i suoi non detti, si trasforma in community. Nel dialogo autentico docente-alunni vi è una lotta costante contro la reificazione: ci si sforza di riconoscersi come io dinamici, fragili e non categorizzabili. Il docente si sforza di non cedere all’oggettivazione e scommette sulle virtualità dell’alunno. Dal suo canto, lo studente si affida all’insegnante e risponde alla fiducia con la fiducia, mettendo alla prova se stesso. Docente e alunni fanno un passo indietro importante rispetto al modo impersonale del con-essere: come Socrate con i suoi interlocutori, essi cercano di praticare l’elenchos, corrono il rischio di mettere in discussione le opinioni e le rassicuranti abitudini di pensiero.
L’informazione sui social della relazione educativa annienta questo: la profondità, l’intimità del dialogo con la sua opacità, gli io che provano a vedersi nella propria potenza di esistere e non come cose, tutto si dilegua, svanisce in dati anonimi asserviti all’ideologia dello spettacolo.
Il professore influencer entra così in contrasto con la funzione segnica. Viene da chiedersi se sia definibile ancora come un in-segnante. Il desiderio di influenzare non stride con l’esigenza di lasciare un segno che alimenti il “segno che nulla indica” (Hölderlin) che noi siamo? In che modo il rumore assordante del docente influencer, il suo affaccendarsi nel visibile si concilia con l’ascolto, con il silenzio, con la Gelassenheit propria dell’autentico prendersi cura? Per la nostra riflessione sono illuminanti queste parole di Luigina Mortari:
«La cura può essere definita il lavoro del vivere e dell’esistere, perché quel mancare d’essere che rende necessaria la cura mai trova una soluzione. Mai è dato un momento in cui guadagniamo una condizione di sovranità sull’essere, mai giungiamo a possedere veramente la nostra condizione. Proprio perché la debolezza dell’esserci, in quanto mancante d’essere, è costitutiva della condizione umana, il lavoro di cura non può non accompagnare la vita intera. Il lavoro della cura non lascia respiro, non consente soste; è un lavoro che riempie ogni attimo del tempo. […] La cura è ontologicamente essenziale: protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. Una buona cura tiene l’essere immerso nel buono. Ed è questo buono a dare forma alla matrice generativa del nostro vivere e a strutturare quello strato di essere che ci fa stare saldi fra le cose e gli altri. Fare pratica di cura è dunque mettersi in contatto con il cuore della vita.» (L. Mortari, Filosofia della cura)
L’insegnante abbraccia fino in fondo la filosofia della cura; instaura la relazione educativa in una mancanza d’essere che non potrà mai essere colmata; getta ponti con i segni tra le possibilità di esistere; dona il suo tempo affinché gli alunni possano attingere a una temporalità più autentica o, per dirla con Henri Bergson, alla durata dell’io profondo che si lascia vivere e compie il miracolo della «creazione di sé da sé» (La coscienza e la vita).
Il professore influencer, al contrario, rinuncia alla cura per l’informazione; si mette in scena e si indicizza; si frammenta e si disperde in reel, feed, ecc.; abita con il suo sé sovraesposto una community di like, di visualizzazioni e di reazioni. Per il professore influencer il vissuto è pensato in vista dell’informazione: l’esperienza è pre-formata come dato grezzo in vista dei contenuti da pubblicare sullo schermo. Lo sguardo non interroga, ma si riflette nel visibile; il corpo non cerca una faticosa e incerta postura dialogica, ma si irrigidisce nella posa. È legittimo allora chiedersi se la scuola dello spettacolo e dei professori influencer è realmente il futuro educativo che vogliamo.
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