Egemonia dell’orecchio
di Saverio Squillaci
Che sensazione meravigliosa di gioia mista a malinconia ci pervade quando riascoltiamo le sigle dei cartoni animati che hanno costellato la nostra infanzia. E che dire di quei brani che, andando dietro a chi sapeva suonare la chitarra, cantavamo a squarciagola nei falò in spiaggia, che ci facevano sentire in comunione tra noi, tra ragazzi. Le canzoni in radio erano la colonna sonora della nostra vita ed in particolare siamo rimasti legati a quelle melodie che hanno fatto da sfondo ad un periodo, un evento particolarmente triste o viceversa euforico durante gli anni della scuola: le “hit” della nostra formazione esistenziale e sentimentale. La musica ha di certo questo potere: si fonde con il nostro mondo emotivo, specialmente in quell’età in cui le categorie e gli schemi relazionali sono ancora duttili e i nostri bisogni interiori quasi del tutto inconsapevoli e caotici. Non è un caso che gli esseri umani, soprattutto i giovani e giovanissimi, ne abbiano sempre avuto quasi una irresistibile necessità e che ogni popolo ne abbia beneficiato attraverso forme e repertori dai connotati propri anche se in costante trasformazione e soggetti alle più svariate contaminazioni, un po’ come succede per le lingue.
All’orecchio dei miei genitori, nati tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, interpreti come Domenico Modugno, che pure era stato un grande innovatore, o Orietta Berti stavano già passando di moda. Figuriamoci voci come quelle di Claudio Villa o di Beniamino Gigli. Tantomeno erano state per loro emotivamente rilevanti la canzone popolare interpretata ad esempio da personaggi come Anna Magnani o la grande tradizione napoletana. Mia madre amava Lucio Battisti come anche mio padre che sorprendentemente conosceva addirittura James Brown anche se lo scimmiottava in un modo tutto suo! Noi figli di quella generazione abbiamo quasi tutti una maggiore dimestichezza con l’ascolto e la comprensione dei brani che provengono dallo stile dei grandi artisti afroamericani o più generalmente della musica d’oltreoceano rispetto ai nostri genitori. Non è un caso che a partire dagli anni Ottanta un numero sempre maggiore di autori italiani si cimenti nella composizione di canzoni in lingua inglese. La famosissima “Self Control” di Raf è ancora incisa profondamente nell’immaginario musicale mio e dei miei coetanei. Inutile sottolineare quanto in questo processo siano stati coinvolti i nostri figli, ormai fruitori di testi prevalentemente anglofoni.
Se appare piuttosto evidente il peso che la canzone angloamericana ha avuto su svariate popolazioni in senso linguistico, meno immediato risulta individuare i cambiamenti prodotti nelle strutture musicali più profonde che oggi percepiamo come nostre ma che settant’anni fa ancora non ci appartenevano. Innanzitutto i ritmi, cuore pulsante di qualsiasi ascolto musicale e non sempre percepiti in modo consapevole dall’ascoltatore, passano dalla moda della polka, del valzer o di quello che il profano tende a definire con la parola “liscio” a qualcosa di meno “stabile” per l’orecchio di un europeo. Gli accenti smettono di essere “marziali” come nel nostro inno nazionale o nella celeberrima “O surdato nnammurato” e si spostano sui movimenti deboli, attraverso un processo tutto afroamericano di cui possiamo intravedere l’origine nell’incontro tra la musica degli schiavi di colore e gli schemi dei bianchi. Un processo che finirà per convogliare molte delle sue esperienze sonore nel Jazz di New Orleans e poi di Chicago e New York, un genere che per molti decenni rappresenterà gli Stati Uniti d’America come e più di quanto abbia fatto successivamente il Rock and Roll. La sincope finisce per dominare sui quei tempi forti che gli studenti imparano a riconoscere durante le primissime lezioni di musica a scuola e oggi basta ascoltare un qualsiasi brano pop per cogliere inevitabilmente questo modo di vivere il ritmo, un modo che ci fa apparire il “liscio”, l’incalzare delle canzoni patriottiche e il portamento di buona parte della nostra musica popolare come qualcosa di molto, molto vecchio e superato.
Per quanto riguarda le strutture e i giri armonici utilizzati le trasformazioni risultano meno traumatiche se continuiamo a riferirci all’ambito della musica più orecchiabile. Saranno i Beatles a fornire una sintesi magistrale di come comporre e vendere “hit”, una sintesi talmente efficace da rappresentare ancora un modello imprescindibile per tutto il mercato discografico e radiofonico di massa. L’elemento più sorprendente di questo improvviso cambiamento nel gusto musicale degli italiani a partire dalla fine degli anni Sessanta è però, a mio parere, il modo nuovo di concepire la relazione tra lingua e voce. La patria del belcanto, viene investita da una tendenza a concepire il fraseggio nelle melodie eseguite dai cantanti quasi antitetica al proprio. Il piacere per le note tenute e vibrate, gli acuti struggenti, i legati sinuosi e la veste melodrammatica dell’esposizione, viene soppiantato ad una velocità innaturale dall’affermarsi di un modo di cantare più “staccato” e “nasale”, con frasi che si chiudono “polverizzando” l’ultima sillaba e dunque si caratterizzano per la preferenza nella composizione dei testi di parole finali tronche. Elementi con cui potremmo in parte definire lo stile angloamericano derivante in buona parte da connotati linguistici. Di questa operazione troviamo riscontro nel già citato Battisti che si rifaceva ai grandi del Soul come Otis Redding, in De Gregori la cui musica presenta spesso evidentissime sfumature Country ma ancor prima nei cosiddetti “urlatori” come Celentano o Mina: cantanti che assorbono una quantità enorme di elementi stilistici dal Rock and Roll. Perfino parte del repertorio in dialetto napoletano prodotto da compositori come Renato Carosone assume le forme sincopate dello Swing e poi del Blues con Pino Daniele. Negli anni Novanta la canzone italiana si avvicinerà addirittura ad uno stile di canto palesemente “black” sulla scia del successo di Giorgia e al filone del Rap e dell’Hip Hop con i 99 Posse o gli Articolo 31.
La quasi totalità degli artisti nostrani si vota, da un certo momento in poi, ad un tipo di musica e di forme testuali che fino a pochi anni prima sarebbero risultate di difficile comprensione o addirittura cacofoniche all’orecchio dell’ascoltatore italiano medio e cioè ai nostri nonni, quelli che avevano vissuto la seconda guerra mondiale. Insomma da un certo momento in poi inizieremo a cantare e suonare come gli americani senza nemmeno accorgercene ed è proprio nei primi anni del dopoguerra che questo processo sembra avere inizio. Se durante tutta la prima metà del Novecento la musica di intrattenimento europea era stata quasi impermeabile alle innovazioni prodotte negli Stati Uniti, vuoi per un sentimento nazionale più accentuato o per una sorta di orgoglio atavico proveniente dalla consapevolezza di aver inventato ed esportato le strutture musicali come le conosciamo oggi o ancora a causa di una minore capacità di diffusione mediatica, dal 1945 in poi le cose cambiano radicalmente e a quanto pare non per puro caso. Lo sottolinea il musicologo e storico del Jazz Stefano Zenni(1) quando annovera tra i motivi che concorrono ad incentivare la fortuna della musica statunitense, un progetto del Dipartimento di Stato Americano volto a promuovere una serie di tour dei propri artisti in tutto il pianeta. In particolar modo gli italiani accoglieranno il Jazz e la canzone americana come la musica dei liberatori d’oltreoceano. Quei ritmi, quelle melodie, quella lingua, rappresenteranno sempre di più un “leitmotiv” di libertà e democrazia, condito da prospettive di benessere e di ricchezza per se stessi e per i propri figli. Il processo di diffusione capillare delle modalità artistiche “made in USA” verrà presto “appaltato” alle grandi etichette discografiche e ai network radiofonici, lieti di poter disporre di un mercato globale già preparato ad accogliere il loro prodotto.
Ciò di cui stiamo parlando non sembra potersi definire come semplice fenomeno di contaminazione stilistica e, al netto della manifesta volontà politica di perseguirlo, andrebbe certamente valutato come fenomeno reso possibile dallo sviluppo tecnologico nell’ambito della comunicazione di massa. Questa triplice alleanza tra potere militare, economico e tecnologico che ha concorso al prodursi di una “soft power” per certi versi inarrestabile, andrebbe considerata da un punto di vista artistico tenendo presente la sua natura di tipo imperialistico tesa a trasformare la fisiologica attitudine della musica alla contaminazione in quel percorso verso l’omologazione di cui fu profeta in patria Pier Paolo Pasolini. Personalmente ho amato ed amo la visceralità del Blues, la trascendente malinconia del Soul, la rabbiosa inquietudine del Rock e la follia illuminata del Jazz. Lungi da me ripudiare il profondo sentimento di stima e di gratitudine verso i fuoriclasse che se ne sono fatti interpreti, tantomeno sminuirne in qualche modo il valore in termini di oggettiva importanza nell’ambito della storia della musica moderna. Da musicista di provincia e da fruitore attento di contenuti musicali però non posso nascondere a me stesso l’evidenza del fatto che il mio gusto e la mia sensibilità artistica provengono da un processo che per molti versi non ha a che fare né con l’arte né con una particolare predisposizione verso certi ascolti. Le melodie, i ritmi, le strutture armoniche che ho assorbito durante l’infanzia e l’adolescenza non hanno contribuito solo alla formazione di una mia estetica musicale ma anche, subdolamente, alla costruzione di una predisposizione affettiva verso tutto ciò che è angloamericano, persino più intensa ed “eroticamente” soddisfacente di quella che avrei potuto sviluppare nei confronti della terra in cui sono nato e in cui ho vissuto. Oggi mi sembra abbastanza naturale constatare come la musica, che con così tanta facilità si lega alla nostra sfera emotiva giovanile e il cui potere evocativo è per questo motivo così difficile da razionalizzare ed analizzare compiutamente, sia stata certamente una componente fondamentale dello sforzo egemonico statunitense con il conseguente affermarsi di un certo tipo di atteggiamento politico, sociale ed economico assunto dal popolo italiano di cui non si può non tenere conto. Un’egemonia che non proverrebbe dunque dai discorsi degli intellettuali o da professori di accademia ma più banalmente dall’orecchio di un adolescente pieno di sogni e di speranze per il futuro.
(1) Stefano Zenni, Storia del jazz. Una prospettiva globale, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2018, p. 359-361
Commenti recenti