Assange, un viaggio nel Pacifico, e le maschere dell’Occidente
di ROBERTO IANNUZZI (blog personale)
Julian Assange presso l’ambasciata dell’Ecuador nel Regno Unito
Washington e i suoi alleati europei continuano a minare quella patina di democrazia e promozione dei diritti umani che Assange ha il merito di aver smascherato con il suo lavoro di giornalista.
Dopo una battaglia durata 14 anni, 5 dei quali trascorsi a Belmarsh, famigerato carcere di massima sicurezza alla periferia di Londra, il fondatore di Wikileaks Julian Assange ha dunque inaspettatamente ottenuto la libertà.
Il giornalista australiano rischiava 175 anni di carcere per ben 18 capi d’accusa presentati dall’amministrazione Trump, poi presi in carico dal successore Biden.
Per 5 anni, il Dipartimento di Giustizia americano aveva ignorato gli appelli di tutto il mondo a far cadere le accuse dell’Espionage Act rivolte contro Assange.
Un patteggiamento improvviso
Tutto è cambiato a maggio, dopo che l’Alta Corte di Giustizia britannica aveva concesso al fondatore di Wikileaks un’udienza di appello sulla richiesta di estradizione negli Stati Uniti.
L’Alta Corte aveva ritenuto che il governo statunitense non avesse fornito garanzie soddisfacenti sul fatto che Assange potesse contare su una difesa in base al Primo Emendamento, se fosse stato estradato e processato negli USA.
Il Dipartimento di Giustizia, forse temendo di perdere la causa, si è affrettato a giungere ad un patteggiamento con il team legale di Assange.
I procuratori statunitensi hanno accettato una dichiarazione di colpevolezza per una singola accusa di cospirazione ai sensi della legge sullo spionaggio, senza ulteriori pene detentive rispetto al periodo da lui già scontato in prigione.
I funzionari americani hanno accettato la richiesta di Assange di evitare di recarsi negli Stati Uniti continentali per chiudere il patteggiamento.
Assange è stato rilasciato su cauzione dalla prigione di Belmarsh e ha preso un volo charter per raggiungere un tribunale nelle remote Isole Marianne Settentrionali, un territorio statunitense nell’Oceano Pacifico.
Laggiù, il giudice del tribunale ha accettato il patteggiamento e condannato Assange a una pena già scontata.
“Il fatto è che questo caso è stato un attacco al giornalismo, un attacco al diritto dell’opinione pubblica di sapere, e non avrebbe mai dovuto essere intentato”, ha dichiarato la moglie Stella Assange. “Julian non avrebbe mai dovuto passare un solo giorno in prigione. Ma oggi festeggiamo perché Julian è libero”.
Una delle rivelazioni più incredibili sul patteggiamento di Assange è che il governo americano “ha accettato di non presentare altre accuse contro Julian per qualsiasi condotta, pubblicazione, raccolta di notizie, qualsiasi cosa sia avvenuta prima del patteggiamento”, ha affermato Barry Pollack, avvocato americano del fondatore di Wikileaks.
Pollack ha tuttavia anche confermato che il patteggiamento prevedeva che Assange desse ordine di distruggere “qualsiasi informazione non pubblicata in suo possesso, o in possesso di WikiLeaks o di qualsiasi affiliato di WikiLeaks”.
Secondo Stephen Rohde, uno studioso di diritto costituzionale, la decisione del governo americano di giungere a un patteggiamento si spiega con il fatto che “un processo ad Assange comportava il grave rischio che gli Stati Uniti fossero messi in imbarazzo dalla rivelazione che la CIA aveva complottato di rapirlo o assassinarlo”.
Dove ha perso e dove ha vinto Assange
Se da parte del governo americano si è trattato di un’inattesa concessione, Assange e il suo team legale sono tuttavia consapevoli del danno che tale patteggiamento ha arrecato alla libertà di stampa, pur avendo esultato per la liberazione di uno dei più noti prigionieri politici al mondo.
Come ha spiegato Jennifer Robinson, avvocato australiano del team di Assange, è il procedimento giudiziario stesso che ha creato il precedente secondo cui i professionisti dell’informazione di tutto il mondo possono essere perseguiti dagli Stati Uniti, in base a una legge che non difende l’interesse pubblico, per il “reato di giornalismo”.
Ma la sconfitta degli Stati Uniti è avvenuta su un altro piano. Si è consumata già anni fa, quando i cablo di Wikileaks hanno rivelato al mondo gli innumerevoli crimini di guerra commessi dal paese “leader del mondo libero” in Iraq, Afghanistan, e a Guantanamo.
Nel 2010, l’analista dell’intelligence militare americana Chelsea Manning, che disponeva di un’autorizzazione di sicurezza “TOP SECRET”, aveva fornito a WikiLeaks 700.000 documenti e rapporti in gran parte segreti.
Tali documenti includevano gli “Iraq War Logs”, 400.000 rapporti sul campo che documentavano 15.000 morti non dichiarate di civili iracheni, nonché stupri, torture e omicidi sistematici dopo che le forze statunitensi avevano trasferito i detenuti a una famigerata squadra di tortura irachena.
Essi contenevano anche l’”Afghan War Diary”, comprendente 90.000 rapporti che documentavano un numero maggiore di vittime civili, provocate dalle forze della coalizione, rispetto a quanto dichiarato dall’esercito statunitense.
I documenti, inoltre, includevano i “Guantanamo Files”, 779 rapporti segreti che contenevano le prove che 150 persone innocenti erano state incarcerate per anni a Guantanamo. I rapporti spiegavano come quasi 800 uomini e ragazzi detenuti laggiù fossero stati torturati e maltrattati, in violazione delle Convenzioni di Ginevra e della Convenzione contro la Tortura.
Quando l’impero getta la maschera
L’inconsueto viaggio di Assange nelle Isole Marianne Settentrionali ha gettato temporaneamente luce su un’altra realtà pressoché ignorata dai più, quella dei possedimenti coloniali americani.
Dopo la guerra ispano-americana del 1898, gli Stati Uniti cominciarono a soggiogare le colonie spagnole nel Pacifico, fra cui anche le Filippine, che videro pienamente riconosciuta la loro indipendenza dagli USA solo nel 1946.
L’isola di Guam, la più meridionale delle Marianne, è rimasta sotto il controllo americano dal 1898, mentre le Marianne Settentrionali ebbero un destino più travagliato, vedendosi cedute dapprima all’impero tedesco, poi finendo tra i possedimenti giapponesi, e tornando sotto il controllo americano solo dopo la sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale.
Sebbene gli abitanti delle Marianne Settentrionali siano cittadini statunitensi, l’arcipelago non è riconosciuto come uno stato della Federazione. Essi dunque non possono votare alle presidenziali americane. L’arcipelago ha un delegato alla Camera dei Rappresentanti USA, che però non ha diritto di voto.
Stesso destino hanno gli abitanti dell’isola di Guam, i quali però “godono” della presenza di due strategiche basi militari USA, l’Anderson Air Force Base, e la Base Navale di Guam, entrambe impiegate in chiave di contenimento della Cina.
Essendo queste due basi candidate ad essere fra i primi bersagli di un eventuale attacco missilistico cinese nel caso di un conflitto militare fra Washington e Pechino, l’esercito americano ha cominciato ad aumentare il numero di tali basi, e sta trasformando l’isola di Tinian, una delle Marianne Settentrionali, in una nuova base strategica.
Vestigia della potenza coloniale francese
Più di 4.400 chilometri a sudest di Guam, e circa 1.200 chilometri a est della costa australiana, troviamo l’arcipelago della Nuova Caledonia, altra colonia occidentale “agli antipodi”. Questa volta si tratta tuttavia di un possedimento coloniale francese, che recentemente si è affacciato in maniera intermittente alle cronache della politica internazionale.
La Francia annesse la Nuova Caledonia nel 1853, e da allora ne ha mantenuto il controllo, sia per la sua posizione strategica che per sfruttarne le materie prime, sebbene vi sia nell’arcipelago un crescente movimento per l’indipendenza.
A maggio, dure proteste sono scoppiate dopo che Parigi ha approvato un emendamento costituzionale alla legge elettorale del possedimento, che riduce la rappresentanza della popolazione canaca indigena rispetto agli immigrati francesi.
La Nuova Caledonia ha la particolarità di possedere il 25% delle riserve mondiali di nichel, un metallo essenziale per produrre le batterie al litio impiegate nelle auto elettriche, ma anche per la produzione di acciaio inox.
Presso il movimento indipendentista canaco è ancora vivo il ricordo di Eloi Machoro, il “Che Guevara del Pacifico”, e la frase da lui pronunciata poco prima di essere assassinato da un cecchino francese il 12 gennaio 1985: “Solo la lotta conta…la morte non è nulla”.
La situazione nella Nuova Caledonia è di nuovo caduta nel dimenticatoio dopo che in Francia è scoppiata la crisi, provocata dai risultati delle elezioni europee, che ha portato il presidente Emmanuel Macron a indire elezioni anticipate.
Ma le proteste, che a maggio avevano provocato 9 morti e causato notevole distruzione nell’arcipelago, sono riesplose a fine giugno, per la prima volta estendendosi all’intero territorio, dopo che 11 indipendentisti sono stati incriminati e 7 di loro immediatamente trasferiti in Francia, a 17.000 chilometri dall’arcipelago, per essere incarcerati in 7 differenti centri di detenzione.
Com’è noto, la Nuova Caledonia non è certo l’unico territorio dove l’eredità coloniale francese viene messa in discussione.
Nell’ultimo anno, un movimento popolare che ha lanciato una sfida all’influenza neocoloniale francese nell’Africa occidentale, è culminato in diversi golpe militari che hanno portato alla nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel (composta da Niger, Mali e Burkina Faso), e nell’elezione in Senegal di Bassirou Diomaye Faye, dopo una campagna dai toni aspramente anticoloniali.
L’Eliseo come il Titanic
Nel frattempo, l’8 giugno, Macron aveva accolto il presidente Joe Biden all’Eliseo per una cena sontuosa.
Ciò accadeva poco prima che la Francia sprofondasse nella crisi delle elezioni anticipate, accompagnata dall’ascesa dell’estrema destra del Rassemblement National di Marine Le Pen, e non molto prima che un faccia a faccia tra i due candidati alla Casa Bianca, insolitamente anticipato a giugno, mettesse in evidenza ciò che tutti sapevano da tempo: la scarsa lucidità del presidente uscente, e l’impressionante deterioramento delle sue capacità cognitive.
Ed ecco all’improvviso il New York Magazine parlare di “cospirazione del silenzio per proteggere Joe Biden”, ed insinuare che le convinzioni delle élite liberali che appoggiano il presidente ormai coincidano con quelle dei più rabbiosi sostenitori dell’ex presidente Trump, secondo i quali vi sarebbe un gruppo segreto di esponenti di alto livello del governo che controlla Biden, e che starebbe mettendo in atto il proprio piano di rimpiazzarlo con un altro candidato presidenziale.
Il tutto all’indomani di un dibattito televisivo fra i due avversari totalmente privo di contenuti politici, che ha drammaticamente messo a nudo la crisi della democrazia americana.
Ma quell’8 giugno, tutto ciò doveva ancora accadere. Gli oltre 200 ospiti francesi e americani erano rimasti sbalorditi di fronte alla sfarzosa sala del palazzo presidenziale.
Alla cena erano presenti amministratori delegati e stelle del cinema, accademici e diplomatici, ministri e deputati di entrambi i paesi.
Il ricevimento concludeva la visita ufficiale di Biden in Normandia, per commemorare l’80° anniversario dello sbarco.
Guerre per dissimulare la crisi interna
Quest’anno le celebrazioni, oltre a ricordare la vittoria sulla Germania nazista, avevano assunto toni aspramente antirussi.
Malgrado il sacrificio di oltre 20 milioni di sovietici durante la seconda guerra mondiale, solo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky era stato invitato alle commemorazioni sulle spiagge della Normandia.
Il viaggio di Biden era parte integrante dello sforzo americano volto ad alimentare il conflitto ucraino, rifiutando ogni prospettiva negoziale.
Alcuni leader europei, fra cui lo stesso Macron, hanno addirittura ventilato un possibile coinvolgimento più diretto nel conflitto, sebbene l’Occidente non sia in grado di schierare più di 300.000 uomini in Europa.
E la prossima settimana, il vertice NATO che si terrà a Washington per celebrare i 75 anni dell’Alleanza, ancora una volta discuterà di come avvicinare l’Ucraina alla piena adesione all’organizzazione, senza tuttavia concederla.
Il miglior modo per prolungare ulteriormente uno dei conflitti più pericolosi che si siano recentemente combattuti sul suolo europeo, visto che la neutralità dell’Ucraina è il principale obiettivo a cui punta lo sforzo bellico russo.
Nel frattempo, non solo Washington, ma anche Londra e Berlino hanno concretamente appoggiato la guerra di sterminio condotta da Israele a Gaza che ha macchiato indelebilmente la reputazione occidentale agli occhi del cosiddetto Sud del mondo.
L’ultimo crimine, in ordine di tempo, commesso da un Occidente che nei passati trent’anni ha condotto guerre scriteriate dai Balcani al Medio Oriente, le quali hanno minato quello stesso ordine internazionale che Washington fino a poco tempo fa pretendeva di difendere.
Misfatti che Julian Assange ha avuto il grande merito di mettere a nudo di fronte all’opinione pubblica mondiale.
FONTE: https://robertoiannuzzi.substack.com/p/assange-un-viaggio-nel-pacifico-e
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