Non vedo, invece, alcuna emergenza nelle manifestazioni per Gaza che in queste settimane attraversano le nostre comunità accademiche. Le studentesse e gli studenti dicono, anzi gridano, cose che si possono condividere o meno. Io, per esempio, non condivido affatto la richiesta di boicottare le università israeliane, come non condivisi (e non applicai) quella governativa di fare altrettanto con le università russe. Ma non perché abbia alcuna simpatia per i governi di Netanyahu e di Putin: al contrario, perché le università di quei Paesi sono fra i pochi luoghi in cui si coltiva un vitale dissenso. Condivido, invece, la richiesta di ‘smilitarizzare’ le università italiane. In conferenza dei rettori votai contro la collaborazione con MedOr (la fondazione di Leonardo presieduta da Marco Minniti), e credo che nessun rettore dovrebbe sedere nel suo consiglio scientifico. Nell’aula magna della mia università abbiamo scritto una frase di Virginia Woolf: “E poi, cosa si dovrà insegnare nell’università nuova? Certo non l’arte di dominare sugli altri… di uccidere… ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri”. E il nostro Codice Etico dice che “nessuna ricerca di chi lavora e studia all’Università e nessun posto di insegnamento possono essere finanziati da imprese o fondazioni legate alla produzione e vendita di armi”.
Ma il punto non è essere d’accordo o meno con ciò che dicono le studentesse e gli studenti: è permettere loro di dirlo. I governi delle università devono avere l’intelligenza di costruire più spazi di libertà, in modo che a nessuno (con l’eccezione, imposta dalla Costituzione, di chi si professi fascista) venga negato il diritto di parlare, ma anzi tutti possano farlo: esemplare, in questo senso, il Senato accademico aperto voluto dal rettore di Pisa Riccardo Zucchi, che in otto ore ha dato tribuna e ascolto alle più diverse opinioni su Gaza e Israele. Quando le studentesse e gli studenti provano (sbagliando) a togliere la parola a personaggi mediatici invitati nelle università (secondo una prassi sulla quale dovremmo interrogarci), come si fa a non vedere che una generazione senza voce sta contestando chi, invece, può parlare ovunque? Perché è in fondo questo che chiedono: poter parlare, essere ascoltati. Dovremmo preoccuparci se non lo facessero, di fronte all’enormità del massacro di Gaza e alle complicità ipocrite dell’Occidente. Semmai, dovremmo interrogarci sui limiti della capacità di argomentare che vengono dolorosamente a galla in questa ondata di proteste: ma qui siamo noi professori a doverci battere il petto, per aver supinamente accettato un modello universitario assai più dedito a formare un disciplinato ‘capitale umano’, che non ad alimentare un solido e attrezzato pensiero critico.
Le università devono rimanere luoghi in cui si garantisce a tutti e a tutte la massima libertà di parola. E bisogna resistere al rischio (o al disegno) per cui la creazione a tavolino di una emergenza sia pretesto e legittimazione di qualunque forma di irregimentazione poliziesca, o di controllo politico. Perché è dall’alto, e non già dal basso, che sono sempre arrivate, in ogni Paese, le vere e più concrete minacce alla libertà delle università: la quale è uno dei termometri più sensibili della libertà tutta di un Paese.
Di fronte alla repressione giudiziaria delle proteste studentesche della metà degli anni Sessanta, quell’uomo misurato e mite che era Alessandro Galante Garrone scrisse: “Cerchiamo un po’ tutti di non inaridire, alla fonte, la sincerità dei nostri giovani, di rispettarne la dignità, di non indurli a una opportunistica cautela, di cui hanno già fin troppi esempi intorno a sé. Lasciamoli dire, senza veli, quello che pensano. Le manette, le museruole, le vessazioni grandi o piccole (come un tempo i biglietti della confessione) non possono che fare del male”. Parole sagge: ancora oggi perfetto manifesto di una università veramente libera.
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