I beni comuni tra ideale democratico e strumento neoliberale
DA LA FIONDA (Di Giuseppe Libutti)
Il caso di Roma e del Lazio: la trasformazione dei beni comuni da patrimonio pubblico a interesse privato.
Da oltre un decennio, il tema dei “beni comuni” occupa una posizione centrale nel dibattito pubblico. Tuttavia, affrontare la questione in modo esaustivo risulta complesso, sia per le difficoltà legate alla sua definizione precisa, sia per l’individuazione dei contenuti associati, fino alla costruzione di una prospettiva condivisa per la loro tutela.
Nel 2011, Stefano Rodotà ha posto l’accento sull’importanza dei beni comuni, considerandoli fondamentali per il futuro della democrazia. Egli ha evidenziato come la definizione di un elenco dei beni comuni fosse una questione delicata: un’eccessiva inclusione rischiava di banalizzarne il valore. Il punto centrale, tuttavia, era il legame indissolubile tra beni comuni, esercizio dei diritti fondamentali e libero sviluppo della persona. La bandiera dei beni comuni, simbolo di un rinnovato patto democratico con la cittadinanza, è stata sventolata da amministrazioni sia di centro-sinistra che di centro-destra, come strumento fondamentale per favorire la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica.
Tuttavia, un’analisi approfondita delle interpretazioni date da diverse amministrazioni rivela che la categoria dei beni comuni, concepita per proteggere i beni collettivi sia dallo sfruttamento privato che dall’inefficienza pubblica, si è dimostrata in pratica uno strumento efficace del neoliberismo. Nel Lazio e a Roma, senza soluzione di continuità dal governo Zingaretti all’attuale a guida Rocca, passando per la giunta Gualtieri, le norme varate mostrano come la categoria dei beni comuni venga usata per sottrarre beni alla proprietà pubblica, ovvero al controllo del popolo sovrano, e favorirne lo sfruttamento da parte di pochi.
Tra queste norme, rientrano la Legge della Regione Lazio n. 10 del 2019, il Regolamento sull’utilizzo degli immobili di Roma Capitale per finalità di interesse generale del dicembre 2022 e il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni di Roma Capitale approvato a maggio 2023. L’analisi di queste leggi evidenzia come il principio di cittadinanza attiva sia, in realtà, uno strumento ideologico, e come la tanto lodata categoria dei beni comuni porti, in definitiva, alla svalutazione dei beni pubblici, favorendone la privatizzazione. Si delinea così una categoria che esclude anziché includere, rivelandosi un efficace meccanismo neoliberale.
Molti dubbi sorgono sull’effettiva utilità delle normative sui beni comuni, poiché esse introducono una forma alternativa di proprietà pubblica che, tuttavia, non sembra davvero collegata al concetto autentico di “pubblico”. Alla luce di queste riflessioni, risulta difficile sostenere una visione idealizzata dei beni comuni senza una chiara dimostrazione della loro utilità pratica e della legittimità di questa nuova categoria giuridica.
Non è chiaro, infatti, come tale categoria possa essere considerata l’unica alternativa valida alla proprietà individuale e, più in generale, al sistema capitalistico predatorio. Il concetto di appartenenza collettiva di beni utili alla comunità potrebbe essere più appropriatamente descritto come “proprietà pubblica”, puntando sulla valorizzazione di quest’ultima. Sorprende che, in una democrazia rappresentativa, il concetto di “pubblico” sia stato così ridimensionato a favore di quello di “comune”, senza comprendere che l’unico modo per garantire l’accesso universale a un bene è renderlo pubblico.
La normativa appare inoltre carente sotto diversi aspetti, sia nella sua formulazione teorica che nella sua applicabilità pratica. Una formulazione generica, infatti, tende a creare ambiguità, che in questo contesto favorisce le forze neoliberali. Nei conflitti per l’accesso alle risorse, senza protezioni adeguate per i soggetti più deboli, sarà sempre il più forte a prevalere, grazie alla sua capacità di raccogliere informazioni e alla sua maggiore forza contrattuale rispetto al titolare formale del bene comune.
Partendo dal presupposto che un diritto è democratico quando è creato dai rappresentanti nazionali ed è accessibile a tutti i cittadini, inclusi i meno esperti, dovremmo chiederci se l’introduzione di questa nuova categoria sia davvero utile. Una categoria giuridica può dirsi democratica solo se creata dai rappresentanti nazionali e se nella sua applicazione pratica risulta accessibile a tutti. Nel caso dei beni comuni, la categoria non è stata sviluppata dai rappresentanti nazionali, ma introdotta a livello locale senza adeguata trasparenza, risultando discriminatoria poiché non garantisce né una definizione univoca né un accesso concreto per tutti.
In conclusione, la categoria dei beni comuni, per chi l’ha sostenuta in buona fede, si è rivelata un’illusione. A uno sguardo più attento, essa si rivela per ciò che è: uno strumento neoliberale, il cui successo è stato alimentato soprattutto dalla spinta interessata di coloro che si oppongono alla proprietà pubblica.
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/09/18/i-beni-comuni-tra-ideale-democratico-e-strumento-neoliberale/
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