Il network delle milizie filo iraniane
di EASTWEST (Lorenzo Forlani)
L’ennesima operazione militare israeliana sulla Striscia di Gaza, iniziata all’indomani degli attacchi da parte di Hamas del 7 ottobre 2023, ha sin dai primi giorni generato le “reazioni in solidarietà” ai palestinesi da parte di una serie di attori non statali della regione: in primis Hezbollah, che già dall’8 ottobre ha iniziato a colpire il nord di Israele; poi gli Houthi dallo Yemen, che da metà ottobre hanno preso di mira le navi mercantili che passavano per il Golfo di Aden, per poi iniziare a colpire anche la stessa Israele, ad esempio con il missile ipersonico deflagrato in un’area desertica vicino Tel Aviv lo scorso 14 settembre; infine le milizie sciite irachene che, considerando gli Stati Uniti responsabile indiretto dell’assedio israeliano su Gaza, a partire da novembre 2023 hanno iniziato uno sporadico lancio di razzi verso le basi statunitensi in Iraq.
Tutti hanno posto come condizione per l’interruzione delle ostilità il cessate il fuoco su Gaza ma nel frattempo, un parziale equivoco ha iniziato a caratterizzare la narrazione del conflitto in atto: l’idea cioè che le azioni di questi attori, a cominciare dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, venissero coordinate e decise da un regista occulto, la Repubblica islamica dell’Iran, e che i primi siano nulla più che i bracci esecutori della strategia regionale iraniana. Secondo la narrazione dominante in Israele, questi soggetti sarebbero non solo delle proxies dell’Iran ma più esattamente strumenti che l’Iran può utilizzare ai fini della destabilizzazione regionale – nonché della minaccia ad Israele stessa – nel quadro della sua politica regionale di sicurezza e difesa.
E’ un parziale equivoco, che finisce per rendere meno chiara la comprensione delle dinamiche regionali e della capacità iraniana di influenzarle, di esserne in qualche modo “la mente”. Le “milizie filo iraniane” devono sì il graduale sviluppo delle loro capacità militari all’Iran, così come dall’Iran possono essere “persuase” ad assumere una condotta “antagonista”, ma la capacità odierna dell’Iran di “controllarle”, ed eventualmente di dissuaderle, è in realtà contenuta. E talvolta rischia di metterla in posizioni scomode, cioè dover prendere parte a conflitti non preventivati.
A giudicare da quanto riferito lo scorso novembre alla Reuters da autorità della Repubblica islamica, Teheran non era ad esempio al corrente del 7 ottobre, così come non lo era Hezbollah in Libano. Ciò è in qualche modo coerente con quanto riportato da Politico il successivo mese di febbraio, quando gli stessi funzionari dell’Intelligence americana avevano nuovamente espresso dei forti dubbi sulla attuale capacità iraniana di tenere sotto controllo l’attività di queste milizie.
Un controllo che era iniziato a declinare sin dal 2020, cioè dall’assassinio da parte di Washington del generale iraniano Qassem Soleimani, a capo delle Forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione, nonché architetto della “rete” di milizie. Soleimani, in virtù dell’intelaiatura di una serie di rapporti personali che aveva alimentato nella regione nel corso degli ultimi tre decenni, nonché della “diplomazia parallela” portata avanti dall’Iran attraverso le relazioni tra le “hawza” (seminari) sciite in Iran ed in Iraq, aveva la facoltà e la capacità di indirizzare e coordinare le azioni delle milizie irachene, ed in qualche misura di “richiamarle all’ordine” quando le circostanze politiche lo suggerivano. Il venir meno di una figura di raccordo come Soleimani ha prodotto un certo livello di anarchia tra di esse, facendo poi emergere di volta in volta la loro “agency”, la loro reale autonomia in termini operativi e la specificità delle loro singole agende, la cui narrativa sottostante spesso coincide o comunque è in accordo con quella iraniana ma è declinabile in modalità differenti.
Non tutte le milizie ricadono nello stesso insieme, ed è utile prendere a prestito la definizione di Andreas Krieg del King’s College, secondo il quale l’Iran ha investito in “eterarchie”, o in una “rete di reti orizzontali”, sistemi di alleanza in cui gli elementi costituenti non hanno un rapporto gerarchico e interdipendente – per cui l’indebolimento di una non si riflette sulle altre – e possono portare avanti agende diverse.
Hamas, ad esempio, non è una proxy iraniana, sebbene l’Iran sia il suo principale fornitore di armi e sebbene con esso condivida un chiaro nemico comune. Il sostegno dell’Iran ad Hamas è relativamente recente ed era stato interrotto con l’inizio della guerra civile siriana, in cui il gruppo palestinese si era schierato con i ribelli mentre Teheran sosteneva il regime di Bashar al Assad. Ripresa negli ultimi anni, la relazione trai sunniti di Hamas e l’Iran sciita è figlia del nuovo millennio: negli anni 80’, all’indomani della rivoluzione iraniana e nell’ambito del tentativo iraniano di esportarla, sostenendo le comunità sciite regionali, un’alleanza con un movimento sunnita legato alla Fratellanza musulmana sarebbe stata inverosimile, nonostante la “sensibilità” di Teheran verso la questione palestinese.
L’abbandono di criteri puramente ideologici, in luogo di una postura più pragmatica dell’Iran – che dall’inizio degli anni ’90 prende atto del suo isolamento – l’ha spinta ad ampliare il respiro delle sue alleanze asimmetriche, “raggruppando” via via partners accomunati da un nemico o da obiettivi contingenti comuni. In questo periodo Teheran investe massicciamente anche sul suo soft power, cercando di accreditarsi in diversi modi e presso pubblici diversi – financo in Occidente – come il paese “antagonista” (degli Stati Uniti) per eccellenza.
La causa palestinese è diventata parte integrante della sua dottrina strategica per due motivi: rafforzare le credenziali di Paese che promuove una narrativa di resistenza, e appoggia quella che è percepita come la lotta di liberazione per eccellenza nel mondo arabo-islamico; dimostrare di poter competere con Israele, per assurgere al ruolo di potenza regionale.
Un discorso simile a quello di Hamas riguarda gli Houthi in Yemen. Così come Hamas – nata nei campi profughi palestinesi nel corso degli anni ’80 – è esistita per almeno un ventennio prima di ricevere il sostegno iraniano, gli Houthi sono un soggetto politico in Yemen almeno dal 1992, per poi emergere in parte vittoriosi (oggi controllano le aree costiere più importanti e quelle più densamente abitate, compresa la capitale Sana’a) nella guerra civile esplosa in Yemen dopo l’inizio delle primavere arabe.
Con Teheran condividono l’appartenenza religiosa alla famiglia dello sciismo, l’Iran nella variante duodecimana e gli Houthi in quella zaidita. La religione, però, non è una variabile rilevante nel rafforzamento delle loro relazioni da dieci anni a questa parte, mentre lo è molto di più il contesto subregionale.
Gli Houthi sono allo stesso tempo tra i più vicini ed i più lontani tra gli attori non statali che gravitano nell’orbita iraniana: vicini, perché ne condividono la retorica spregiudicata, l’aperta ostilità ad Israele e l’opposizione alla presenza militare americana nella regione, così come a lungo hanno avuto nell’Arabia Saudita il maggiore rivale regionale; lontani, perché sono nettamente i meno controllabili da parte di Teheran, avendo come obiettivo autonomo – perseguito per lungo tempo in assenza del sostegno iraniano – il riconoscimento del loro ruolo di attori locali da parte del resto della regione.
In tempi di logica “offensiva”, come quella che si è determinata in questi mesi, la loro spregiudicatezza sul piano militare – con i sequestri dimostrativi delle navi occidentali e israeliane, o con i lanci di missili verso Israele o verso le stesse imbarcazioni – fa buon gioco a Teheran, che può così evitare un coinvolgimento diretto nelle ostilità e mantenere un alto grado di “deniability”, cioè di estraneità, di deresponsabilizzazione; in momenti di segno opposto, invece, quella stessa spregiudicatezza, insieme alla necessità degli Houthi di perseguire con i propri tempi e modi la propria agenda politica, possono causare dei problemi anche alla stessa Teheran, che non ha la facoltà di dare “ordini” a Sana’a.
Una facoltà che risulta declinante, specie dalla morte di Soleimani, anche in Iraq, dove milizie come Kataib Hezbollah, l’organizzazione Badr e soprattuttp Asaib Hal al Haq, guidata da uno scissionista del movimento sadrista, Qais Al Khazali, non sempre si coordinano con Teheran, ed in ogni caso perseguono lo stesso obiettivo locale – condiviso da Teheran – più o meno dal 2005: il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq e dalla regione. Gli sporadici lanci di missili verso le basi americane hanno quindi la funzione di rendere più costosa l’opzione di una permanenza, oltre a fungere da deterrente “esterno” per l’Iran.
Hezbollah in Libano è la milizia più potente e strutturata di questa “rete di reti”, nonché la più antica, impalcata dalla Repubblica islamica nei primi anni ’80, in piena esportazione rivoluzionaria. Ciò si vede non solo dal punto di vista delle dotazioni militari (secondo diverse fonti non confermate, si parla di circa 150 mila missili di diversa gittata) ma anche dal concetto di “train the trainer” (“addestra l’addestratore”), cioè dal fatto che Hezbollah oggi è l’unica milizia della galassia filo iraniana a fornire addestramento diretto ad altre milizie – come ad esempio gli stessi Houthi -, su “delega” di Teheran.
Questo plateale rafforzamento delle capacità militari e logistiche si deve alla lunga partecipazione diretta, da parte di Hezbollah, alla guerra in Siria, una vera e propria “palestra” per un movimento che non è paragonabile ad alcuna altra milizia regionale. Questa partecipazione – al fianco di un regime autocratico che agli occhi delle comunità sunnite locali ha frustrato i tentativi di autodeterminazione in senso democratico – ha finito nel tempo per erodere il consenso inter comunitario che il “partito di Dio” si era guadagnato in gran parte del Libano e della regione con la guerra contro Israele nel 2006, finendo per riportarla oggi al punto di partenza, cioè primariamente connessa al tessuto sociale sciita.
L‘organicità all’arena libanese ed il ruolo svolto nel “liberare” il sud del Libano da Israele conferisce in ogni caso ad Hezbollah lo status di attore politico nazionale, con una propria base di consenso e di reclutamento, con lo sviluppo di propri canali autonomi di finanziamento, con la costruzione di un vero e proprio “brand” Hezbollah in grado di produrre influenza transnazionale, che secondo analisti come Sanam Vakil la farebbero agevolmente sopravvivere ad una eventuale scomparsa del regime di Teheran.
Queste milizie agiscono in modo più autonomo di quanto non si pensi ma sono accomunate da obiettivi strategici simili o connessi: come visto nei mesi successivi al 7 ottobre, possono colpire il nemico in modo simultaneo, da luoghi diversi, senza l’ok iraniano. Permettono all’Iran di giocare su un piano tridimensionale, come in un videogame, mentre Israele e gli Usa sono costretti a farlo su un piano bidimensionale, come in una partita di scacchi.
FONTE: https://eastwest.eu/it/il-network-delle-milizie-filo-iraniane/
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