La fine della storia o l’inizio della rivoluzione?
di LA FIONDA (Davide Sabatino e L’indispensabile)
Da quanto tempo soffriamo le sorti del nostro Paese? Direi, come minimo, da decenni. Ci trasciniamo stanchi e senza forma fisica in un cammino privo di mete e di speranze. Per le persone cresciute in Italia negli ultimi settant’anni, questa situazione di logoramento dell’intera struttura politica, antropologica e culturale è diventata la norma, l’habitat naturale a cui doversi adattare. Nel 1960 un grande uomo politico-spirituale di nome Ernesto Balducci, scriveva che: “I giovani sono soli, perfino la scuola, per lo più, è vuota di attrazioni, perché troppo distante dalla vita vera. Il costume che sopravvive è stanco: chi ci sta dentro non ci crede più, e i giovani se ne accorgono. E ne fanno a meno con cinismo”[1]. Il dramma di questa sfiducia ha origini antiche, e non riguarda solo i “giovani”. Il cinismo, diceva Balducci: non è forse questo il grande orientamento emotivo che caratterizza il nostro tempo, dove noi tutti siamo in qualche misura sottomessi alla legge del più forte, incoscienti devoti del motto machiavellico “il fine giustifica i mezzi”? Non ci sembra anche a noi, oggi più di ieri, di dover fare a meno dell’idea di morale, del buonsenso comune, delle regole di convivenza civile, della civiltà dei diritti, degli ideali rivoluzionari e del senso religioso della vita interiore? Non è forse proprio il “fine” a non essere più così chiaro, e dunque ciò che rimane in superficie e soltanto il mero “mezzo”, che si traduce fatalmente in opportunismo politico?
Nel 1968 le parole profetiche di Balducci ebbero, almeno, una loro rivelazione storica. Quell’iniziale rigetto cinico si tramutò presto (anche se solo in parte) in moto contestativo, in ribellione sregolata contro il sistema della retorica, della guerra e della menzogna. Diceva infatti Balducci: “I giovani hanno bisogno dell’essenziale, e non vogliono tortuosi raggiri”[2]. Già all’epoca del Sessantotto si vedeva chiaramente come fosse finito il tempo delle etichette ampollose, delle bolle papali, degli obblighi irrazionali, della parola forte ma ipocrita. Il mondo vecchio piombò nell’insicurezza, mentre quello nuovo bruciava tanto di rabbia quanto di desiderio. Oggi la rivoluzione è tenuta sotto anestesia da Netflix, dal Grande Fratello televisivo-pubblicitario o parlamentare che sia. La ricerca umana del fine ultimo, dello scopo politico-spirituale della nostra vita, non è mai terminata: è solo congelata, messa nel surgelatore della storia in attesa che qualcuno, qualcuna o qualcosa la scongeli. Andrebbe rianimato lo spirito rivoluzionario, esorcizzando ogni epilogo violento e criminale. Ma, per fare questo, occorre un calore nuovo, un calore vero, che sappia smascherare la falsità del teatrino politico e, allo stesso tempo, incendiare gli animi delle persone che dormono sonni apparentemente tranquilli.
Se qualcuno, ad esempio, credesse ancora alla favola della democrazia in Italia, suggerisco la visione dell’ultimo film di Andrea Segre “Berlinguer. La grande ambizione”. Al di là del vostro personale orientamento politico, vi troverete di fronte a due ore di crude verità sulla crisi politica devastante degli anni Settanta, che ancora ci riguardando terribilmente: dal golpe in Cile dell’1 settembre 1973 ad opera dei Servizi segreti statunitensi, che spinse l’allora Segretario del PCI a immaginare il famoso Compromesso storico con la DC, fino ad arrivare al sequestro e assassinio di Aldo Moro, alla morte di crepacuore di Berlinguer a 62 anni e all’inizio trionfale dell’era consumistica neoliberista. Tutte cose che dovremmo sapere a memoria, visto che molti testimoni di quel periodo sono tuttora vivi. Invece, la rimozione del trauma, come ci insegna la psicologia, è un meccanismo di sopravvivenza quasi istintivo. Il problema però è che ogni rimosso, quando torna in superficie, torna sempre con un’intensità distruttiva maggiore rispetto al tempo della ferita. Dobbiamo ancora fare i conti con quella stagione politica; ma farli seriamente, senza addolcimenti né censure. Ciò che sappiamo di quegli anni è molto, anche di più di ciò che ci servirebbe per poter convincerci una volta per tutte che questo Sistema della restaurazione perenne ha radici lontane, certamente, ma anche estremamente attuali. Il Gattopardo è un testo di psicoanalisi del politico italiano. Basta prenderne atto e cominciare a coltivare una visione più profonda e davvero rivoluzionaria tanto della politica quanto della relazione umana.
Il fatto che, come dice l’ultimo rapporto del Censis, “il 55,7% degli italiani oggi considera inutili le manifestazioni di piazza e i cortei di protesta” dovrebbe come minimo preoccuparci sulle sorti della cosiddetta democrazia. Quando l’astensionismo raggiunge livelli mai visti prima, non serve più pensare in modo riformista o partitico. Come sottolinea spesso e volentieri il filosofo francese Edgar Morin: “Non è solo la crisi dei partiti di sinistra in rovina, né soltanto la crisi della democrazia che imperversa in tutto il mondo”. “Ora — dice Morin — siamo al cuore della crisi e la crisi è nel cuore dell’umanità”[3]. Questo è il grado di allarme esistenziale e sociale che vorremmo sentire emergere dalle parole dei nostri governati. E magari, oltre all’allarme, ci piacerebbe sentire anche qualche soluzione che non fosse né un facile ritorno bigotto ad un passato ormai morto e sepolto né una fuga in avanti verso un baratro “progressista” disumanizzante già preannunciato. Le grandi “oligarchie liberali” — come le ha ribattezzate Emanuel Todd nel sul ultimo libro[4] —, di stampo angloamericane, hanno le ore contate (oltre ad essere sempre meno liberali). Il vento sta cambiando, e il resto del mondo è in rivolta. Il problema quindi non è più se crolleranno, ma quando ciò accadrà. In un certo senso con le guerre in corso in Ucraina, Palestina, Libano e Siria il destino dei paesi finora egemoni sembra segnato. Tocca ora scendere più in profondità nella tanto documentata “sconfitta dell’Occidente”, per riuscire a raggiungere quel nocciolo “teologico politico” (per citare il Direttore Preterossi) che fa della nostra area del mondo il luogo della rinascita e della resurrezione, e non unicamente la tomba dell’umanità come fine tragica della storia. Insomma chi esulta nel vedere il declino barbarico del nostro Paese, è uno sciocco masochista. Ugualmente lo è chi, di fronte alla catastrofe, vorrebbe ripristinare il prestigio trionfalistico dell’impero romano. Il tramonto c’è, esiste, e occorre interpretarlo, viverlo integralmente, poiché è solo stando nella fine che è possibile leggere un nuovo, nuovissimo, inizio. Altra via non ci è permessa.
[1] E. Balducci, La verità e le occasioni, Paoline, Alba, 1960 p. 51
[2] Ibid., p. 52
[3] E. Morin, Svegliamoci!, Mimesis, Milano, 2022
[4] E. Todd, La sconfitta dall’Occidente, Fazi, Roma, 2024
FONTE:https://www.lafionda.org/2024/12/13/la-fine-della-storia-o-linizio-della-rivoluzione/
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