Retaggi e avanguardie
DA LA FIONDA (Di Francesco Prandel)
Batte e ribatte che sa di tribale, è il nostro essere naturale che batte, batte, batte e si ribella, a questa nostra vita e al mondo che ci ha cambiati molto, sì, ma non fino in fondo.
BATTITO ANIMALE, Raffaele Riefoli (Raf)
Prendiamo l’italiano medio, diciamo un impiegato. La giornata tipo inizia con il tentativo di disattivare la sveglia, che è una macchina. Si rade con un rasoio, che è una macchina. Prepara il caffè con la macchinetta e prende l’ascensore, che è una macchina. Prende un autobus o guida una macchina, passa il cartellino nella macchinetta, sale in ufficio e se ne sta per un paio d’ore al computer, che è una macchina. Una pausa alla macchinetta del caffè, poi torna alla sua postazione. A pranzo potrebbe scegliere una compagnia diversa ma, mentre “gusta” il pasto, smanetta col cellulare, che è una macchina. Poi la storia si ripete a ritroso, e la giornata tipo si conclude con il tentativo di attivare la sveglia che, inutile ribadirlo, è una macchina.
Si vorrà obiettare che, tra una macchina e l’altra, il nostro impiegato incontra anche delle persone. Come il capoufficio, per esempio. Il quale, lungi dall’aprirgli l’animo suo, lo tratta a sua volta come una macchina, impartendogli istruzioni e controllando che si attenga diligentemente alla procedura. Dal canto suo, pure il nostro impiegato si guarda bene dall’esternare i propri sentimenti al capo: cerca di svolgere le proprie mansioni seguendo alla lettera le istruzioni ricevute, attenendosi strettamente alla procedura. Ciò comporta che, rivolgendosi ai colleghi o alla clientela – facciamo il caso che si tratti di un impiegato delle poste – dovrà dire e fare certe cose in un qualche modo ben codificato.
Qualcuno osserverà che, rientrato a casa, troverà finalmente la moglie e i figli, e potrà cominciare a parlare e agire umanamente. Naturalmente, a differenza delle macchine non abbiamo ancora un pulsante da premere per passare dalla modalità “impiegato” a quella di “marito” o di “padre”. No, dopo una giornata – o una vita – in compagnia delle macchine, e di persone che parlano e agiscono meccanicamente, il nostro impiegato non può decidere di cambiare registro a comando. La moglie – poniamo un’infermiera, o un’insegnante – sarà più o meno nelle stesse condizioni, e i figli, allontanati a forza dalla play-station o dal cellulare per la cena, non saranno da meno.
Quando vivevamo come scimmie in qualche parte dell’Africa, il nostro habitat era la foresta, e la nostra compagnia erano gli altri animali. Questi fattori ambientali non hanno subito grosse variazioni dal momento che ci siamo dati alla caccia e alla raccolta. Nemmeno il passaggio all’allevamento all’agricoltura, pur introducendo vari e importanti elementi di discontinuità, ha stravolto il quadro ambientale: per quanto modificato dall’uomo, il paesaggio restava carico di elementi naturali, e le frequentazioni extra-umane rimanevano limitate a quelle degli animali. Le cose sono radicalmente cambiate con la rivoluzione industriale. L’ambiente umano, oggi, non solo è stato profondamente modificato grazie alle macchine: è anche densamente popolato dalle macchine. «Dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei».
Dopo diversi milioni di anni di convivenza con gli animali in un contesto pressoché naturale, nel giro di appena qualche secolo i fattori ambientali che inscrivono il nostro vivere sono profondamente mutati. Mi pare ragionevole attendersi che, in ordine a questa metamorfosi ambientale, stia cambiando anche l’uomo che l’ha prodotta. Se le cose stanno così, siamo nel bel mezzo di una mutazione antropologica, con i retaggi che vivono al fianco delle avanguardie. Sono già tra noi, ce ne sono in circolazione diversi esemplari, specie negli ambienti che contano.
Nel corso di milioni di anni il genere homo ha dato luogo a una successione di specie (habilis, erectus, neanderthalensis, ecc.) fino ad approdare all’uomo moderno, che viene chiamato homo sapiens – il sapiens ripetuto due volte mi pare eccessivamente ottimista – e si ritiene popoli il pianeta da qualche centinaio di migliaia di anni. Tuttavia, la variazione dei fattori ambientali intervenuta negli ultimi secoli è talmente profonda da rendere plausibile l’ipotesi che sia in corso una speciazione. L’uomo che arava il campo col bue, e che viveva in un ambiente in cui prevalevano elementi naturali, è ben diverso dall’uomo che ara il campo col trattore a guida GPS, e vive in un ambiente che presenta elementi prevalentemente antropici.
Il rapporto uomo-macchina non è meramente simbiotico, perché nella simbiosi ciascuna parte mantiene una sua specificità. Si tratta di una relazione che presenta anche un carattere osmotico, nel senso che mentre gli uomini interiorizzano tratti genuinamente meccanici – in particolare per quanto riguarda il pensiero e il linguaggio – le macchine acquisiscono caratteri tipicamente antropici – ad esempio la morfologia e la capacità di comunicare.
L’homo machina – così si potrebbe chiamare l’ipotetico uomo che, secondo la congettura qui avanzata, starebbe progressivamente prendendo il posto dell’homo sapiens – differirebbe dal suo precursore sotto diversi aspetti. L’avanguardia si distingue dal retaggio più che altro per il comportamento. L’homo machina – lo dice il nome stesso – è un uomo meccanico. È un uomo più prevedibile, efficiente e affidabile del suo predecessore, e decisamente meno empatico. Pensa, parla e agisce meccanicamente. Il suo pensiero non è teso a comprendere la natura delle cose, ma nello sfruttarle a proprio vantaggio. Il suo discorso ripete frasi che qualcun altro ha già pronunciato, scimmiotta idee che altri hanno già avuto, è costellato di luoghi comuni e trabocca di anglicismi. Il suo fare è ligio alla norma, alla procedura, al protocollo, al programma, al progetto, al politicamente corretto. L’arte non è per lui, finge di interessarsene perché la cosa gli da quel tocco di umano che ha perso e che, al momento, è ancora apprezzato.
Più difficile è riconoscere l’homo machina dalla sua corporatura e dal suo intelletto. La scomparsa della fatica fisica e mentale – dovuta all’impiego intensivo delle macchine – lo renderebbe fisicamente e mentalmente meno dotato: non si può negare che l’ascensore è comodo, ma neanche che le nostre gambe sono deboli. Per contenere la pancia o la cellulite, paga i macchinari di una palestra per farsi restituire la caricatura di ciò che altre macchine gli hanno tolto. Non si può negare nemmeno che sono comode le calcolatrici, o i navigatori, ma neanche che stiamo perdendo la capacità di calcolare e di orientarci. Ci vorrebbero delle palestre per la mente, oltre che per il corpo. Forse ci sono già, non lo so. Magari ci sono dei programmi o delle applicazioni fatte apposta per restituirci il feticcio delle facoltà mentali che i computer e i telefonini ci hanno tolto.
Proprio perché propenso all’efficienza, al rendimento, – una quantità misurabile delle macchine, una qualità tipica dei loro frequentatori – il nuovo ominide programma minuziosamente persino il suo tempo libero. Durante la pausa pranzo gioca a scacchi sul cellulare, prima di cena fa girare il tapis roulant, una versione della ruota entro la quale corre il criceto chiuso in gabbia.
In genere, dunque, l’homo machina si presenta bene, ma difficilmente riesce a dissimulare la meccanicità e la ripetitività dei movimenti corporei, e ancor meno lo stato di cattività in cui alleva i propri pensieri.
Dire che ogni comodità comporta una perdita è poco più di un’ovvietà. Meno ovvio è capire come mai, delle due facce, ne consideriamo una sola. Un’azienda che considera le entrate e non le uscite è destinata a fallire. Di questo passo, la vita dell’homo machina sarà comodissima, ma lui sarà fisicamente sfatto e mentalmente ebete. A meno che, come facevo notare sopra, non cerchi di galleggiare aggrappandosi allo stesso masso che lo sta trascinando a fondo.
In passato il mutamento delle condizioni ambientali (in senso lato) è stato relativamente lento. Ciò ha evitato la frattura sociale che invece oggi va prendendo forma, quella tra i retaggi e le avanguardie, proprio perché l’ambiente sociale sta conoscendo mutazioni radicali nell’arco di una generazione e anche meno. Inevitabilmente, immersi come siamo in questo cambiamento tumultuoso e travolgente, c’è chi si abbandona alla corrente lasciandosene cullare e chi invece tenta, se non proprio di andare controcorrente, di aggrapparsi alle proprie radici per cercare di salvarsi, cioè di preservare quel “fattore umano” inaffidabile proprio perché imprevedibile, e scarsamente performante proprio perché, con Nuccio Ordine, coglie «l’utilità dell’inutile».
Per dirla con Vasco Rossi, si vanno delineando «due comunità diverse», ogni giorno più insofferenti l’una all’altra, per cui non pare eccessivo aspettarsi che nel futuro prossimo la loro pacifica convivenza possa incontrare delle battute d’arresto. Un assaggio di quello che ci si può ragionevolmente attendere l’abbiamo avuto durante la pandemia, un periodo in cui non poche avanguardie hanno lasciato chiaramente intendere che i retaggi sono una sorta di subumani, e che come tali vanno trattati. Vista la piega che stanno prendendo le cose – si pensi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e alle potenzialità dell’ingegneria genetica – in futuro questa frattura sociale potrebbe arrivare a scomporsi su altri e nuovi fronti, ingenerando tensioni che andrebbero a sovrapporsi a quelle già respirabili nell’aria post-pandemica. A quel punto, la creazione di “riserve” – come quelle in cui i colonizzatori del “nuovo mondo” hanno relegati i nativi americani – potrebbe diventare la soluzione più naturale.
I due mondi sono questi. Io auspico la creazione dei due mondi, auspico la polarizzazione. […] Io ritengo che la polarizzazione, la creazione dei due mondi, sia l’unica soluzione pacifica che ci eviti lo scontro di civiltà.
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/12/17/retaggi-e-avanguardie/
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