E se…
di GIUBBE ROSSE NEWS (Enrico Tomaselli)
Gli accadimenti in Siria sono stati così inaspettati e veloci che, diciamolo, probabilmente non stiamo affatto riuscendo a comprenderli bene – e oltretutto cerchiamo tutti, comprensibilmente, di coglierne il senso altrettanto velocemente, senza darci il giusto tempo per far sedimentare ciò che sappiamo, e per far emergere quel che ancora non sappiamo. Certo, ci sono degli elementi che difficilmente possono cambiare di segno, e sicuramente alcune macro-tendenze si confermeranno quali appaiono già adesso. È però probabile – o quanto meno assai possibile – che ve ne siano altri, rispetto ai quali stiamo forse traendo conclusioni affrettate, ed applicando chiavi di letture inesatte.
Questo, pertanto, vuole essere un esercizio assolutamente ipotetico, un ulteriore tentativo di interpretazione a mente tiepida (ancora troppo presto per poter dire a mente fredda…), ma tutto sommato non meno di tanti altri che stiamo facendo negli ultimi giorni.
Partirò da un presupposto, sul quale mi sono spesso soffermato, ovviamente in termini generali, ovvero che non necessariamente ciò che accade deve essere letto in una chiave deterministica, in cui cioè ogni cosa accade in quanto prodotta dalla specifica volontà di qualcuno. Questo genere di chiave di lettura, che ovviamente si basa anche sul riconoscimento che vi sono precisi interessi (di questo o quel soggetto) affinché una determinata cosa si verifichi, resta comunque basato su un processo deduttivo, logico ma non necessariamente vero. Se A desiderava che B cadesse, e B cade, è stato A a spingerlo.
In effetti, però, esiste un’altra chiave di lettura possibile, non deterministica ma opportunistica. Quando B cade, A lascia intendere di essere stato lui a spingerlo, e cerca comunque di trarre tutti i vantaggi che si aspettava dalla caduta di B.
Al di là di questa schematizzazione esemplificativa, cosa potrebbe significare rispetto alla caduta del regime siriano? Proviamo ad ipotizzare.
Su un elemento penso che tutti possano convenire, ciò che ha sorpreso più di ogni altra cosa – e che tuttora, nonostante le innumerevoli spiegazioni razionali fornite, lascia ancora un che di non chiarito – è il modo in cui si è squagliato (letteralmente) l’Esercito Arabo Siriano (SAA). Non voglio proporre una spiegazione alternativa di ciò ma, semplicemente, farne il punto di partenza. Il fatto è che, nonostante tutte le ragioni avanzate per spiegarne il collasso repentino, questo resta comunque inspiegabile razionalmente. Ma, al tempo stesso, indiscutibilmente vero. Anche l’ipotesi più tetra, cioè un tradimento dei vertici militari, a ben vedere non riuscirebbe a spiegare i tempi ed i modi in cui si è determinato.
Ne consegue che questo collasso è stato non solo velocissimo, ma soprattutto imprevedibile. E se è stato imprevedibile, significa – appunto – che non era previsto. Ergo, non era questo il piano.
Ovviamente, nel momento stesso in cui, invece, si è determinato l’imprevisto, ciò ha offerto un’opportunità. Che è stata colta, più o meno velocemente, più o meno con determinazione, da alcuni attori sulla scena.
Ricostruiamo gli eventi, a partire da questa ipotesi.
La coalizione jihadista raccolta sotto la sigla dell’HTS, stanziata nella provincia siriana di Idlib, al confine turco, prepara un’azione destabilizzante, il cui obiettivo è – probabilmente – la conquista di Aleppo. L’operazione, rilevata dai turchi, è molto probabilmente gestita dalla CIA e dall’MI6 britannico. L’intento è dare uno scossone al regime di Assad (di cui certo i servizi occidentali conoscono la fragilità strutturale) e, forse, attirare nel nord siriano un po’ di forze dell’Asse della Resistenza (Hezbollah e IRGC iraniano). Ovviamente, anche gli israeliani ne sono informati. È anche possibile che fosse stata pensata proprio in funzione del conflitto libanese; se non si fosse raggiunto un accordo di cessate il fuoco, l’attacco alla Siria avrebbe rappresentato un ottimo elemento di ulteriore pressione. La tempistica degli eventi potrebbe rafforzare questa ipotesi. Che è comunque marginale.
In termini strategici, l’operazione poteva avere un disegno operativo a tenaglia: HTS che investe Aleppo a nord, l’IDF che entra nel Golan a sud (e le forze israeliane si stavano preparando da tempo ad attaccare la Siria, ne ho parlato più volte).
Quando, già nei primi giorni, si vede che il SAA non oppone resistenza intorno ad Aleppo, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), controllato dai turchi, vede un’opportunità ed entra a sua volta in azione, ma non in funzione anti-siriana, quanto piuttosto anti-curda. Intanto le forze dell’HTS – che, ricordiamolo, sono essenzialmente fanterie meccanizzate, senza significativa copertura di artiglieria e di corazzati, e totalmente prive di copertura aerea – vedono aprirsi davanti a sé una serie di vuoti, con le forze siriane che si ritirano senza combattere, abbandonando ogni genere di mezzi ed armi. E, ovviamente, si precipitano a riempire questi vuoti. Colgono, a loro volta, un’opportunità.
Intanto, anche le forze curde si mettono in movimento, per difendersi dagli attacchi del SNA, agendo spesso in coordinamento con le forze siriane (che gli cedono posizioni) e russe (che attaccano dall’aria l’SNA). L’HTS prosegue la sua marcia verso sud, senza mostrare alcuna ostilità verso le SDF curde, anzi spesso agevolandole a loro volta.
A questo punto si muove a sua volta anche il fronte sud, con cellule dormienti del SNA che si attivano e puntano verso le aree curde. Benché siano loro ad essere le più vicine a Damasco, preferiscono puntare verso l’est e l’Eufrate, lasciando che sia l’HTS a prendere la capitale. Anche l’ISIS, da tempo rintanato nel deserto, dà segni di vita. Interessante notare, al riguardo, che i miliziani jihadisti liberano dalle prigioni siriane tutti i prigionieri, compresi i militanti dell’ISIS, mentre rifiutano di liberare alcuni miliziani del SNA da loro detenuti ad Idlib.
La situazione precipita, russi e iraniani prendono atto del collasso non solo del SAA ma dell’intero regime siriano, e cercano di salvare il salvabile: corridoi di uscita sicuri per le poche forze dell’Asse della Resistenza presenti in Siria, garanzie di sicurezza per le minoranze ed i luoghi sacri sciiti, mentre Mosca cerca una mediazione tramite Ankara per preservare le sue truppe sparse per il paese e, in prospettiva, le basi di Latakia e Tartus.
Il regime cede i poteri all’HTS, Assad si fa portare in salvo in Russia. La guerra tra milizie filo-turche e curdi si fa più dura, gli USA intervengono a difesa delle SDF. Israele entra in Siria, spingendosi di fatto sino alle porte di Damasco, e contestualmente avvia una campagna di sistematica distruzione di tutto ciò che rimane delle infrastrutture di difesa della Siria.
Il quadro che si delinea è quello di una estrema instabilità, con almeno tre o quattro schieramenti diversi che si confrontano.
I turchi, che rischiano di trovarsi con il cerino in mano, hanno la sola carta del SNA, ma non riescono ad avere ragione dei curdi, anche per via dello stop politico e militare delle forze USA. E, al tempo stesso, non possono rompere i rapporti con l’HTS per non restare tagliati fuori dal dopo Assad.
Al-Julani si ritrova proiettato a leader del paese in meno di due settimane, ma le sue forze non sono chiaramente in grado di sostituire l’amministrazione statale del vecchio regime, e per di più detiene il potere di una carcassa vuota, priva di risorse economiche (il petrolio siriano resta saldamente in mano curda e anglo-americana) e di sovranità (l’esercito allo sbando e le armi distrutte da Israele).
Ulteriori elementi che contribuiscono a rendere credibile questa chiave di lettura.
Se il piano anglo-americano fosse stato quello di mettere la Siria in mano alle milizie di Al-Julani, tanto per cominciare avrebbero cominciato il suo whitewashing molto prima, evitando di correre ai ripari in extremis, ritrovandosi con un leader siriano a capo di un movimento ancora considerato come terrorista, e lui personalmente con una taglia da 10 milioni di $ sulla testa. E si sarebbero posti ovviamente anche il problema della sopravvivenza economica e militare del nuovo regime (vedi alla voce petrolio e armi). L’Al-Julani jihadista, invece, andava benissimo per una operazione limitata di destabilizzazione.
Se il piano fosse stato quello, gli israeliani probabilmente si sarebbero mossi diversamente sul campo, cercando di prendere terreno in profondità, piuttosto che spingersi verso nord. E probabilmente si sarebbero opposti all’idea di mettere lo stato siriano in mano ad una banda di inaffidabili tagliagole – per quanto al soldo di Washington. Il fatto che si siano spinti assai vicino a Damasco, ed abbiano distrutto coscienziosamente ogni possibile armamento presente sul territorio siriano, significa sostanzialmente che non si fidano.
Pertanto, l’ipotesi è che l’imprevisto collasso dell’esercito siriano abbia scombussolato i piani, ma al tempo stesso abbia fornito una serie di opportunità, che i vari attori hanno colto ciascuno per proprio conto, e per proprio interesse. È possibile, in effetti, che tutti avrebbero preferito un Assad più debole ma ancora in sella, piuttosto che una situazione magmatica che nessuno è certo di poter governare a proprio piacimento.
Del tutto naturale che, vista la situazione, non solo tutti cerchino di trarne il massimo vantaggio (o di ridurre al minimo lo svantaggio) ma diano ad intendere, variamente, che questi sia in effetti l’esito previsto e desiderato.
Se e quanto sia davvero così, in ogni caso, lo si capirà solo nei prossimi mesi.
FONTE: https://giubberossenews.it/2024/12/17/e-se/
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