La Germania è tornata: Berlino guida la corsa al riarmo
da TERMOMETRO GEOPOLITICO (Giacomo Gabellini)
Con un piano da 900 miliardi di euro, il settore bellico prende il posto dell’automotive in crisi, diventando la nuova locomotiva industriale tedesca. E trascina l’Europa verso un’economia di guerra.
Dopo il piano da 102 miliardi di euro del 2022, la Germania accelera la sua svolta militarista. Il programma da 900 miliardi di euro presentato dal cancelliere in pectore Friedrich Merz ridefinisce l’industria tedesca, spostando il baricentro dalle automobili alle armi. Aziende come Rheinmetall riconvertono stabilimenti automobilistici in industrie militari, mentre Volkswagen valuta di cedere impianti inattivi a produzioni belliche. Di pari passo, la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen promuove il piano ReArm Europe da 800 miliardi. Il comparto della difesa del Vecchio continente è però sempre più integrato nel complesso militare-industriale statunitense, con colossi finanziari americani che dominano l’azionariato delle principali aziende europee.
«La Germania è tornata!» ha proclamato Friedrich Merz, ex alto dirigente di BlackRock nonché esponente di vertice della Cdu e cancelliere tedesco in pectore, quando ha presentato al Bundestag e alla popolazione tedesca il piano di riarmo nazionale da 900 miliardi di euro messo a punto dal suo partito. Per quanto clamorosa e destinata a lasciare pesanti strascichi, l’uscita di Merz si colloca in realtà nel solco tracciato dal precedente governo tedesco.
Il 27 febbraio 2022, ad appena tre giorni dall’avvio di quella che Vladimir Putin definisce Operazione militare speciale russa in Ucraina, il cancelliere Olaf Scholz aveva proclamato l’immediato adeguamento della spesa militare tedesca al limite minimo previsto dal Trattato del Nord Atlantico. Il tutto nel contesto di un piano di riarmo da 102 miliardi di euro, ancorato direttamente alla Costituzione tedesca.
A sua volta, l’annuncio di Scholz segnava un vero e proprio spartiacque storico. La cosiddetta Zeitenwende concludeva formalmente l’epoca post-bellica caratterizzata da un diffuso anti-militarismo e da un assai ridotto grado di legittimazione della Bundeswehr. Il cambio di rotta destinato a rendere il bilancio della difesa tedesco il terzo per dimensioni su scala globale palesava urbi et orbi l’ambizione tedesca di costituire in maniera unilaterale uno strumento militare potente e soprattutto autonomo. Non necessariamente compatibile, cioè, con le regole «non scritte» della Nato, istituita nell’aprile 1949 al fine, come spiegato dal suo primo segretario generale Lord Ismay, «to keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down». Ossia di «tenere l’Unione sovietica fuori (dall’Europa, nda), gli americani dentro e i tedeschi sotto».
Il piano di riarmo definito da Berlino nel 2022 va tuttavia a innestarsi su un processo di espansione del bilancio della difesa risalente al 2015, che il governo guidato dalla cancelliera Angela Merkel implementò parallelamente al progetto di costituzione di una forza di difesa comunitaria scollegata dalla Nato, di cui la Bundeswehr avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia. O, meglio, una sorta di ancora (Ankerarmee) rispetto agli eserciti degli Stati limitrofi, con cui le forze armate tedesche hanno sviluppato un elevato livello di cooperazione e interoperabilità. E ai quali il complesso militare-industriale germanico (gravitante attorno alle imprese Baainw, ThyssenKrupp, Krauss Maffei Weigmann e Rheinmetall) fornisce parte importante delle attrezzature. Una menzione speciale spetta all’Olanda, la cui decisione di integrare due terzi delle proprie forze armate all’interno delle strutture militari tedesche potrebbe fungere da esempio per gli Stati mitteleuropei.
Il disegno tedesco ha subito una brusca accelerata a partire dai primi mesi del 2017, quando gli analisti della Bundeswehr consegnarono al governo uno studio in cui si esaminavano le tendenze geopolitiche in atto e il loro possibile impatto al 2040. Il settimanale Der Spiegel, entrato in possesso del documento, rivelò in proposito che «la Bundeswehr ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni […]. Per la prima volta nella storia, questo documento della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire». Il documento proseguiva prefigurando sei scenari. In uno di questi, intitolato La disintegrazione dell’Unione Europea e la Germania in modalità reattiva, gli autori ipotizzano un mondo nel quale «l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine […]. L’ampliamento dell’Unione Europea è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri Paesi hanno lasciato il blocco comunitario e l’Europa ha perso la sua competitività globale […]. Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa». Nel quarto scenario, intitolato Competizione multipolare, «l’estremismo è in crescita, con una serie di Paesi europei che tendono ad avvicinarsi al modello di capitalismo statale vigente in Russia». E nel quinto scenario, intitolato Oriente contro Occidente, «alcuni Paesi orientali dell’Unione Europea hanno bloccato il processo di integrazione europea mentre altri hanno già aderito al blocco orientale».
In tutti gli scenari presi in esame, la risposta caldeggiata dagli analisti della Bundeswehr alla prospettiva di un aumento del caos e della conflittualità internazionale consisteva nel potenziamento dell’esercito. Obiettivo da attuare attraverso il progressivo incremento delle spese militari inaugurato nel 2015 e l’inquadramento nei ranghi delle forze armate di cittadini di altri Paesi europei che risiedano da diversi anni in Germania. L’ex presidente Horst Kohler spiegava che si trattava di uno sforzo necessario per «un Paese delle nostre dimensioni, con il suo orientamento verso il commercio estero, e perciò dipendente dal commercio estero. Occorre essere consapevoli che, in caso di urgenza, si renderà necessario schierare l’esercito per difendere i nostri interessi, quali ad esempio proteggere le rotte del libero commercio o prevenire instabilità regionali che avrebbero un impatto negativo nei confronti della nostra capacità di salvaguardare il commercio, il lavoro e i salari».
Alcune personalità tedesche di spicco si sono persino spinte a caldeggiare la trasformazione della Bundesrepublik in una potenza atomica, una vecchia aspirazione tramontata per effetto delle politiche condotte dal generale Charles de Gaulle. La decisione del presidente della Quinta repubblica francese di mettere autonomamente a punto la force de frappe aveva costretto la Germania ad accontentarsi della «condivisione nucleare» nell’ambito della Nato. Bonn si era anche trovata a dover accettare un ruolo limitato nella pianificazione e nell’eventuale impiego di armi non convenzionali da parte dell’Alleanza Atlantica. «Al piccolo fantoccio» commentò sarcasticamente Franz Josef Strauss nelle sue memorie, «fu concesso di sfilare insieme alla fanfara militare con la sua tromba giocattolo, facendogli credere di suonare la grancassa».
Un’umiliazione conclamata, attestante lo status di Paese a sovranità limitata a cui la Germania è rimasta inchiodata per tutto il periodo post-bellico. Viceversa, «l’indipendenza richiede che la Germania si doti di una deterrenza nucleare. La cosa rientra nei nostri vitali interessi nazionali», ha affermato in pubblico più di recente, nel 2019, il maggiore della Bundeswehr Maximilian Terhalle, facendo eco al deputato della Cdu Roderich Kiewesetter (vicino al complesso militare-industriale tedesco) e al direttore della Frankfurter Allgemeine Zeitung Berthold Kohler. Già nel novembre 2016, quest’ultimo aveva esortato i tedeschi a «pensare l’impensabile», alludendo proprio all’allestimento di un arsenale atomico tedesco.
A sua volta, l’arma nucleare si sarebbe configurata come la punta di lancia dell’Ankerarmee, la forza militare con il compito di «ancorare» la Germania. Una punta di lancia intesa come prolungamento militare della vecchia idea di Kerneuropa (il nucleo di Paesi europei fondatori più integrati), rivisitata nel 2015 dal ministro della Difesa tedesco Ursula Von Der Leyen. Al centro della visione dell’attuale presidente della Commissione europea c’era l’espressione «guida dal centro», ispirata a sua volta al concetto di «potenza del centro», coniato dallo storico e politologo Herfried Münkler.
Il quadro strategico dipinto dal conflitto russo-ucraino e dalla radicale alterazione della postura statunitense nei confronti dell’Europa dall’amministrazione Trump, votata a un graduale disimpegno in un’ottica che qualifica l’Alleanza Atlantica come camicia di forza ormai anacronistica. Dinamiche che hanno rinvigorito queste tendenze, di cui il piano di riarmo varato da Scholz nel 2022 costituisce una trasposizione.
Stesso discorso vale per il programma da 900 miliardi di euro predisposto da Merz, che implica la rimozione dei vincoli all’indebitamento integrati nel 2009 nella Legge fondamentale della Repubblica per porre lo Stato nelle condizioni di raccogliere capitali da convogliare in due distinti fondi d’investimento. Il primo dovrebbe occuparsi di manutenzione e ammodernamento delle infrastrutture, mentre il secondo del potenziamento della Bundeswehr. La Bundesbank, dal canto suo, ha avanzato una proposta di riforma atta a incrementare significativamente le capacità di indebitamento di Berlino (dallo 0,35 all’1,4% del Pil), a condizione che il debito pubblico non superi la soglia del 60% del Pil.
L’aggiustamento concepito dalla Banca centrale tedesca, che autorizzerebbe il governo federale a contrarre prestiti aggiuntivi per un ammontare di circa 220 miliardi entro il 2030, non soddisfaceva tuttavia i requisiti minimi fissati da Merz. Ecco quindi che il cancelliere in pectore ha cercato e ottenuto il consenso della maggioranza qualificata al Bundestag per lanciare il suo ambizioso progetto destinato a orientare l’apparato produttivo tedesco verso un’economia di guerra.
Detto in altri termini, la Cdu intende trasformare la spesa militare nel volano fondamentale per l’intero tessuto industriale tedesco. E potrebbe verosimilmente trovare nella Spd una valida sponda per conseguire l’obiettivo. Lo si evince dalle dichiarazioni formulate nel maggio 2024 da Boris Pistorius. Secondo il ministro della Difesa, il piano di riarmo predisposto dal suo governo risultava imprescindibile per rendere la Germania «pronta alla guerra entro il 2029», in quanto «non dobbiamo credere che Putin si fermerà ai confini dell’Ucraina».
Pistorius sosteneva che occorreva pertanto operare a fondo a livello di software (uomini ed equipaggiamento di base), dove la Bundeswehr rimaneva poco più di un’«accozzaglia di aggressivi campeggiatori», come l’aveva definita nel settembre 2012 un ufficiale britannico. Lo conferma ancor oggi un recente rapporto redatto dal Bundestag, in cui si denuncia una carenza cronica e strutturale di elmetti, giubbotti antiproiettile, giacche invernali…
Il discorso cambia invece se si considera la struttura hardware (mezzi militari), destinata non a caso ad assorbire gran parte dei piani di riarmo tedeschi, con effetti che si sono già rivelati assolutamente dirompenti. La società franco-tedesca Knds ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario per adattarlo alla produzione di veicoli blindati, collocandosi nel solco tracciato da Rheinmetall. Quest’ultima ha già attuato un piano di conversione in fabbriche di armi e munizioni di due suoi impianti preposti alla produzione automobilistica.
La decisione, spiegano i vertici dell’azienda, scaturisce dalla forte domanda di attrezzature belliche a livello sia domestico sia internazionale, come certificato dall’aumento dell’utile operativo nel settore delle armi e munizioni (pressoché raddoppiato a 339 milioni di euro nei primi nove mesi del 2024), mentre la divisione automobilistica calava del 3,8%.
Volkswagen, identificata fino a ieri come l’emblema globale della Germania, ha accusato una caduta di gran lunga più pesante (pari al 30,6% su base annua). Così pesante da indurre i vertici dell’azienda ad annunciare la propria disponibilità a sostenere l’incremento della produzione bellica richiesto dai programmi tedeschi, valutando l’opportunità di cedere alcuni stabilimenti inattivi di proprietà proprio a Rheinmetall, che li convertirebbe in fabbriche di materiale militare.
Il processo non è confinato alla sola Germania. A febbraio, il governo danese ha dichiarato che avrebbe incrementato il bilancio per la difesa a oltre il 3% del Pil nel prossimo biennio. Il Regno Unito ha invece delineato un ruolino di marcia inteso ad aumentare la spesa militare al 2,5% del Pil entro il 2027. Anche l’Italia sta orientandosi nella stessa direzione, con l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni che ha convocato alla Camera dei Deputati il presidente di Stellantis, John Elkann, per valutare l’integrazione del gruppo nel programma governativo di riconversione dell’industria automobilistica verso settori ad alto potenziale di sicurezza come la difesa. Come ha spiegato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, l’obiettivo consiste nel «salvaguardare le competenze tecniche e il capitale umano già formato, indirizzandoli verso settori con una maggiore redditività e stabilità», alla luce della profonda trasformazione che sta subendo l’industria dell’auto.
Di pari passo, la Commissione Europea ha lanciato ReArm Europe, un piano di riarmo su scala comunitaria da 800 miliardi di euro. Piano che, per esonerare le spese militari dal Patto di Stabilità, implica l’applicazione della clausola di salvaguardia prevista dall’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. La Commissione, dal canto suo, ha autorizzato i Paesi membri a riorientare a beneficio della difesa dei fondi di bilancio originariamente destinati al finanziamento di altri programmi. Ha anche annunciato, per tramite della stessa Von der Leyen, che «l’Europa ha tutto ciò che le serve per prendere il comando nella corsa alla competitività». La presidente della Commissione ha aggiunto: «Questo mese, la Commissione presenterà l’Unione del risparmio e degli investimenti. Trasformeremo i risparmi privati in investimenti necessari» a ridurre il divario colossale con gli Stati Uniti, la cui spesa in ricerca e sviluppo supera di 12 volte quella europea. La stessa Von der Leyen ha quindi spiegato che questi investimenti potrebbero «innescare un vento potente e favorevole per importanti settori», come l’informatica quantistica, le reti satellitari, i veicoli senza pilota e l’intelligenza artificiale.
Segno inequivocabile dell’intenzione dei vertici istituzionali europei di affermare il comparto bellico come nuovo driver della crescita. Una presa di posizione che va a scapito dell’automotive, le cui filiere occupano oltre 13 milioni di lavoratori, generando circa l’8% del Pil dell’Unione Europea, e sostengono il 32% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il settore automobilistico, tuttavia, dipende dalla domanda privata, flagellata su scala europea dalle politiche di compressione salariale imposte in omaggio al dogma ordoliberista e penalizzata a livello internazionale dai colpi di maglio inferti dagli Stati Uniti – già dall’epoca di Barack Obama – all’assetto liberoscambista.
Sebbene non sia assolutamente in grado di rioccupare il bacino di manodopera tradizionalmente assorbito dall’industria automobilistica, il settore bellico offre il vantaggio di prosperare non sulla domanda privata, ma sulle commesse pubbliche. Cosa che comporta un ruolo più attivo dello Stato nel condizionamento dei processi economici, se non nel loro indirizzo tout court, ma non necessariamente una maggiore autonomia dell’Europa – e segnatamente della Germania – dagli Stati Uniti.
Il caso di Rheinmetall, in proposito, risulta paradigmatico. Soltanto dall’inizio del 2025, l’azienda ha registrato una crescita azionaria del 92,2%, garantendo dividendi proporzionali agli azionisti. La composizione dell’azionariato vede una presenza molto limitata di partecipazioni governative, mentre la maggioranza è detenuta da interessi finanziari europei, ma anche statunitensi, riconducibili a colossi del calibro di BlackRock, Bank of America, Goldman Sachs e Capital Group.
Una situazione analoga riguarda altre imprese europee della difesa e comunque connesse alla sfera della produzione bellica. Fra le aziende in crescita troviamo Airbus (12,6% da inizio anno), Kongsberg (27% da inizio anno), Bae Systems (41% da inizio anno), Rolls-Royce (41% da inizio anno), Dassault (45,5% da inizio anno), Saab (58% da inizio anno), Leonardo-Finmeccanica (73,3% da inizio anno) e Thales (76% da inizio anno). Alla penetrazione finanziaria statunitense corrisponde una saldatura – grazie al sistema del subappalto – tra le grandi aziende europee operanti nel settore bellico e il complesso militare-industriale Usa, il cui export in Europa è letteralmente decollato nel corso degli ultimi anni.
Lo si evince dai dati forniti dallo Stockholm International Peace Research Instute (Spiri), che attestano un consolidamento della supremazia degli Stati Uniti sul mercato globale delle armi. Tra il quinquennio 2015-2019 e quello successivo, la quota statunitense sul totale è cresciuta del 21% (dal 35 al 43%) per effetto delle implicazioni dal conflitto-russo ucraino. La guerra ha prodotto un crollo della fetta di mercato globale riconducibile alla Russia (-64%): l’export è passato dal 21 al 7,8% del totale. Lo sforzo bellico russo ha assorbito larghissima parte della produzione domestica e trasformato nel contempo l’Ucraina nel principale canale di ricezione di materiale bellico su scala mondiale (8,8% delle importazioni totali).
Il trasferimento massiccio di attrezzature militari a Kiev ha naturalmente imposto ai Paesi europei di ricostituire – seppur molto parzialmente – le proprie scorte, in larghissima parte attraverso l’incremento degli acquisti dagli Stati Uniti. Rispetto al quinquennio precedente, l’import europeo di armi è aumentato del 155% e la quota di mercato del Vecchio continente presidiata dagli Usa è cresciuta dal 52 al 64%.
Le statistiche pubblicate dal Sipri sul punto risentono in misura molto contenuta della corsa al riarmo scatenata dalla guerra in Ucraina, perché non conteggiano ancora i dati relativi agli ordinativi europei di sistemi d’arma complessi che i produttori statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, Northrop Grummann, General Dynamics) saranno in grado di consegnare soltanto fra diversi anni. Lo ha sottolineato con forza il ricercatore del Sipri Pieter Wezeman, sottolineando che «gli Stati europei della Nato hanno ordini per quasi 500 aerei da combattimento e molte altre tipologie d’arma dagli Stati Uniti», tra cui gli F-35 e i sistemi Patriot.
Ne consegue che l’Europa a guida tedesca sta cercando di costruire consenso politico attorno a un progetto di riarmo generalizzato. Un piano concepito – o comunque destinato – non tanto ad affrancare il Vecchio continente dalla dipendenza militare dagli Usa, quanto a spostare il baricentro dell’economia continentale dal consumo privato alla cosiddetta asset price inflation. Ossia alla crescita artificiale del valore degli asset finanziari, trainata dalla spesa bellica.
-di Giacomo Gabellini-
#TGP #Germania #Difesa
[Fonte: https://krisis.info/it/2025/03/aree/europa/germania/la-germania-e-tornata-berlino-guida-la-corsa-al-riarmo/]
FONTE: https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2FTermGeopol%2Fposts%2Fpfbid02HkdQzsxGDzde6iVn5PzqEbvJqdFvczuGej1rFYDNBoFngbJePxYHP3BLJhSJouK4l&show_text=true&width=500“>http://https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2FTermGeopol%2Fposts%2Fpfbid02HkdQzsxGDzde6iVn5PzqEbvJqdFvczuGej1rFYDNBoFngbJePxYHP3BLJhSJouK4l&show_text=true&width=500
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