da TERMOMETRO GEOPOLITICO (La storia e le idee)

Tra il campo di battaglia che rivela chi è più forte e gli accordi che devono superare la reciproca sfiducia, la pace è un puzzle complesso.
La resa incondizionata è strategia o necessità?
Vediamo assieme i meccanismi dietro la fine dei conflitti.
“How Wars End” del politologo USA Dan Reiter, edito dalla Princeton University Press, esplora come e perché le guerre si concludono.
Ci sono due concetti centrali: le informazioni che emergono dal campo di battaglia e la certezza che l’avversario rispetti in futuro gli accordi di pace.
Le guerre sono, in fondo, questioni politiche.
Il Nobel per la Teoria dei Giochi Thomas Schelling le descrive come una sorta di negoziato, dove si discute su dei confini o sul tipo di governo.
La pace arriva con un accordo che risolve la disputa, creando un nuovo equilibrio.
Due concetti fondamentali influenzano la fine delle guerre:
1) Prospettiva dell’informazione. Il combattimento riduce il disaccordo sull’esito chiarendo chi è il più forte.
2) Prospettiva dell’impegno credibile. La garanzia che gli accordi di pace reggano.
La prospettiva dell’informazione dice che le guerre iniziano perché le parti non sono concordi su chi vincerebbe.
Le battaglie servono a chiarire questo punto, dando dati concreti sulla forza militare di ognuno e cambiando le aspettative sia presenti che future.
Quando le parti capiscono chi prevarrebbe in un conflitto prolungato, possono negoziare.
Chi vince le battaglie chiede di più, chi perde offre concessioni.
Nella Guerra Messico-Statunitense (1846-48), la forza degli USA divenne evidente, spingendo il Messico alla pace.
Carl von Clausewitz sostiene che la gran parte delle guerre finiscono senza la distruzione totale dell’avversario.
Le battaglie rivelano chi vincerebbe, così ci si ferma prima, risparmiando risorse.
L’accordo di pace riflette questa nuova consapevolezza della forza relativa.
La prospettiva dell’impegno credibile evidenzia un problema: la mancanza di una forte autorità internazionale che obblighi a rispettare gli accordi. Senza questa garanzia, ogni parte teme che l’altra possa riprendere a combattere, rendendo la pace fragile e incerta.
Se uno stato pensa che l’avversario potrebbe violare un accordo, anche un compromesso vantaggioso perde valore.
La paura di un tradimento futuro degli accordi può bloccare le trattative per la pace, prolungando un conflitto già deciso sul campo di battaglia.
Per superare questa paura, allora si cerca la vittoria assoluta: sconfiggere del tutto l’avversario, magari imponendo un nuovo governo. Gli USA nella Seconda Guerra Mondiale chiesero la resa incondizionata per la completa sfiducia nei regimi al potere in Germania e Giappone.
La ricerca di una vittoria assoluta per la paura di conflitti futuri può talvolta prevalere sulla logica informazionale, come successe ai francesi nel 1870 dopo le prime sconfitte contro la Prussia che suggerivano di concludere il prima possibile un accordo di pace.
Altre volte invece se combattere diventa troppo costoso in termini di uomini e risorse, se la vittoria sembra impossibile o se stati terzi rischiano di intervenire, si può accettare un compromesso, anche con dubbi sulla sua tenuta.
La guerra del ’39/40 tra Finlandia e Unione Sovietica lo dimostra: i costi altissimi e i rischi di continuare, spinsero a una pace limitata, nonostante le incertezze su quanto l’avversario avrebbe rispettato l’accordo.
Che infatti fu poi rotto solo un anno dopo.
Conquistare territori strategici può essere una soluzione parziale al rischio di ripresa del conflitto.
Controllare zone chiave rende più facile difendersi e meno probabile un attacco futuro, riducendo la paura di un tradimento degli accordi di pace.
Il combattimento inoltre è un mezzo relativamente inefficiente per trasmettere informazioni.
La “nebbia di guerra” rende spesso ambigui i suoi esiti e i politici sono motivati a nasconderne le risultanze, minimizzando le perdite per non incoraggiare l’avversario.
I leader politici infatti spesso evitano di cedere dopo una sconfitta per non sembrare deboli, anche sul fronte interno.
Questo timore può spingerli a ignorare le informazioni dal campo, andando contro la teoria che le battaglie portino a compromessi rapidi.
Una teoria sviluppata da Hein Goemans afferma che i leader degli stati con sistemi politici repressivi temono di affrontare punizioni personali severe (come esilio, prigione o morte) in caso di sconfitta militare moderata o grave, al contrario dei politici democratici.
Ciò talvolta porta al Gamble for Resurrection: quando perdono le guerre questi leader possono agire in contrasto con le previsioni basate sulle informazioni.
Invece di offrire concessioni potrebbero aumentare i loro obiettivi con strategie rischiose.
Il caso di scuola è nella Seconda Guerra Mondiale il Giappone che rifiutò di negoziare dopo pesanti sconfitte, per non apparire vulnerabile.
Questa scelta prolungò il conflitto, nonostante le evidenze di una situazione disperata.
Ma l’ipotesi che l’escalation delle vittime aumenti la probabilità di concessioni, specialmente nelle democrazie, non ha nemmeno essa chiari riscontri.
A volte, l’opinione pubblica democratica è più contraria a fare concessioni rispetto ai suoi leader eletti.
Così la Guerra di Corea (’50-53) vide gli USA cambiare più volte i propri obiettivi, dal salvataggio del Sud fino alla distruzione del Nord e l’unificazione del paese, per poi dover far accettare, anche alla propria opinione pubblica anticomunista, una tregua di stallo.
Se quindi la vittoria assoluta è allettante perché elimina ogni minaccia futura, spesso è troppo costosa o improbabile.
Per questo molte guerre si chiudono con compromessi, dove bisogna bilanciare le informazioni dal campo, la fiducia negli accordi e i costi del conflitto.
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