Pensare, odiare, colpire: la parabola americana dei giustizieri postmoderni
di INSIDE OVER (Francesca Salvatore)
C’è qualcosa di profondamente americano nel modo in cui si muore a Washington. Non per una rapina, non per caso. Ma per un gesto politico, teatrale, carico di rabbia e simbolismo. Due diplomatici israeliani cadono sotto i colpi di un uomo che non conoscevano, ma che li ha scelti come bersagli del suo manifesto personale. Un attentato che brucia di fanatismo, ma che racconta molto anche dell’America che lo ha generato. Due funzionari dell’ambasciata israeliana negli Stati Uniti sono stati assassinati a Washington, durante un evento organizzato al Capital Jewish Museum — uno dei principali centri culturali dell’ebraismo americano. Le vittime, una coppia legata sentimentalmente e prossima al fidanzamento, sono state colpite a bruciapelo da Elias Rodriguez, un uomo poi fermato sul posto dalle forze dell’ordine. Le autorità hanno escluso la presenza di ulteriori minacce attive nella capitale dopo l’arresto dell’aggressore.

Così ancora una volta negli Stati Uniti torna lo spettro che si ripresenta con volti diversi ma identica postura tragica: il giustiziere solitario. Un archetipo sempre vivo, sempre pronto a emergere dal buio della cronaca per farsi mito, soprattutto quando la sua rabbia si fonde con una causa pubblica, un’ideologia, una scintilla di presunta giustizia. Come Luigi Mangione, come Timothy McVeigh che a Oklahoma City nel 1995 (ex militare, veterano della Guerra del Golfo), fece esplodere un edificio federale causando 168 morti. Motivazione? Vendetta contro il governo federale, visto come oppressore dopo le stragi di Waco e Ruby Ridge. O Ted Kaczynski – alias “Unabomber”, il matematico geniale, diventato terrorista solitario. Per 17 anni spedì pacchi bomba contro ciò che considerava i simboli della modernità corrotta seguendo il suo manifesto anti-industriale e odio per il progresso tecnologico.
Il gesto di Rodriguez– brutale, indifendibile – ha fatto emergere il suo personale manifesto. Un blogger americano ha pubblicato l’ultima lettera scritta dall’attentatore. In un testo lungo, appassionato e carico di ideologia, Rodriguez, un radicale di sinistra di Chicago, ha affermato che la condotta di Israele nella Striscia di Gaza e, in particolare, il sostegno americano alle operazioni israeliane, lo avevano spinto a commettere l’attacco terroristico.
Prima di sparare, Rodriguez ha lasciato parole. Non slogan urlati nel vuoto, ma un testo che scivola tra la filosofia morale e l’autoassoluzione ideologica. Una riflessione fredda, lucida, quasi accademica — e proprio per questo più inquietante. “La disumanità si è da tempo dimostrata incredibilmente comune, banale, prosaicamente umana…”. Rodriguez non si presenta come un fanatico cieco, ma come un uomo che pensa, legge, giudica. Cita Margine Protettivo (l’operazione militare israeliana del 2014 a Gaza) come punto di svolta nella sua coscienza politica. Ma ciò che traspare è l’arroganza intellettuale di chi crede che il pensiero giustifichi il sangue. Non è nuovo, questo stile. È lo stesso di Unabomber, che scriveva manifesti contro la tecnologia prima di spedire bombe. È la voce tragica di chi confonde la comprensione della violenza con la legittimazione della violenza. Rodriguez afferma che oggi “molti americani” potrebbero capire il suo gesto. Ma è proprio questo il nodo più pericoloso: la trasformazione del dolore (per Gaza, per i civili, per la Storia) in arma, e l’assassinio come atto leggibile, quasi razionale.

Sebbene l’attentato sia stato immediatamente politicizzato, come è normale che fosse, ciò che inquieta non è solo il fatto in sé, bensì l’eco che genera. Perché negli strati più profondi dell’America, laddove le armi sono un’estensione del sé e la solitudine si confonde con la missione, certi individui diventano simboli. Vittime dell’alienazione, ma anche piccoli idoli passeggeri per chi cerca senso in un mondo scomposto. Tornano a Mangione, Rodriguez e il killer del CEO di Healthcare, pur separati da contesti e ideologie differenti, condividono una sorprendente serie di tratti comuni che li rendono incarnazioni contemporanee dello stesso archetipo: il giustiziere solitario, colto, disturbato e intenzionato a colpire il sistema con un gesto eclatante.
Entrambi razionalizzano le proprie azioni attraverso una lente morale: Rodriguez parla della “banalità della disumanità” (non ha di certo scelto a caso il lemma) e si appella al genocidio in Palestina per legittimare il suo atto, mentre Mangione afferma che “questi parassiti se lo meritavano“, riferendosi al mondo delle assicurazioni. In entrambi i casi, la violenza è presentata non come un delirio, ma come una scelta etica, necessaria, quasi inevitabile. Rodriguez racconta un percorso di presa di coscienza, che lo ha portato a maturare il gesto nel tempo, a partire dal 2014. Mangione si racconta come un laureato brillante, esperto di sistemi sanitari, un “rivoluzionario della salute”. Entrambi costruiscono un’identità di “uomini pensanti”, visionari, motivati da una causa. Rodriguez spera che “molti americani” comprendano il suo gesto; Mangione pianifica un omicidio in modo da massimizzare l’eco mediatica. Nessuno dei due agisce nel silenzio: entrambi vogliono che il loro gesto diventi un messaggio. La morte diventa comunicazione.

I loro atti suscitano condanne, ma anche un’inquietante comprensione da parte di una fetta del pubblico. Rodriguez diventa simbolo per chi denuncia il genocidio a Gaza; Mangione viene in parte celebrato in certi ambienti della sinistra radicale americana. Entrambi catalizzano una reazione ambivalente, sospesa tra sdegno e simpatia ideologica. Sia Rodriguez che Mangione sono figure complesse, lucide, ma interiormente tormentate. Non semplici folli, ma persone colte, inserite, che scelgono consapevolmente la deriva estrema. La loro violenza non nasce dal nulla, ma da una tensione crescente tra visione del mondo, disturbo e impotenza.
C’è qualcosa di Joker in tutto questo. Non il pagliaccio da cinecomic, ma il personaggio tragico che, davanti all’indifferenza, sceglie l’esplosione. Come Arthur Fleck, anche Elias Rodriguez sembra gridare: “Guardatemi, esisto, e soffro come voi”. Il problema è che questi uomini non sono soli. Dietro di loro ci sono forum, post, retweet. C’è una America che li coccola e li consola, anche solo con un “non aveva tutti i torti“.
L’America convive da sempre con i suoi demoni: razzismo strutturale, antisemitismo, suprematismo bianco — . Ma il problema più pericoloso resta la miscela esplosiva tra isolamento sociale, alienazione personale e militanze ideologiche. È lì che nasce la nuova forma di giustizia fai-da-te: solitaria, armata, apparentemente lucida. Individui che si costruiscono una causa e si convincono che solo la violenza possa renderla visibile. E in un Paese dove le armi sono accessibili e la solitudine è endemica, questa combinazione è letale. Detta in altro modo, Mangione, Rodriguez, i pazzi del 6 gennaio avrebbero sparato comunque, prima o poi, indipendentemente dalla causa.
Il gesto, ovviamente, non porta giustizia, né pace. È solo la replica di un dramma collettivo, un teatro in cui la violenza diventa comunicazione estrema. Il “giustiziere” moderno, che sia di estrema destra, anarchico o sinistrorso difensore di una causa sacra, è figlio della stessa radice: quella di un Paese che da sempre coltiva la retorica dell’individuo contro il mondo.
Ma quando un uomo imbraccia un’arma in nome di una bandiera – qualunque essa sia – ciò che resta non è mai una verità, ma solo un vuoto più profondo.
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