Quando la guerra diventa un pretesto, la pace è solo un intralcio
da LA FIONDA (Giuseppe Gagliano)

Nel cuore della crisi ucraina, mentre spiragli diplomatici iniziano timidamente ad aprirsi — tra aperture di Donald Trump, silenzi operativi del Cremlino e stanchezza delle cancellerie europee — a Bruxelles e in alcune capitali dell’Unione si insiste ancora con la retorica della “minaccia russa”. Un tamburo che batte ininterrottamente da febbraio 2022 e che oggi appare sempre più fuori sincrono con la realtà strategica del conflitto.
Non si tratta di un errore di valutazione. Si tratta di una scelta deliberata.
La narrazione bellicista non serve più a difendere Kiev, ma a legittimare un altro progetto: quello della trasformazione dell’Unione Europea in una struttura federale autoritaria, imposta in nome dell’emergenza e senza consenso democratico.
Una strategia pericolosa, tecnocratica e dissimulata, che sfrutta la guerra per disinnescare ogni resistenza interna agli Stati e accelerare la concentrazione del potere nelle mani di istituzioni non elette. Una manovra a tenaglia, condotta in simbiosi con il Partito Democratico americano e il complesso transatlantico delle élite liberali, che negli ultimi dieci anni ha fatto della crisi lo strumento privilegiato di governo.
Gli Stati Uniti tornano alla realpolitik. L’Europa insiste con l’ideologia
La prima contraddizione salta agli occhi: negli Stati Uniti la dottrina cambia. Il “realismo” strategico è tornato a imporsi. Donald Trump, candidato favorito per le presidenziali 2024, ha già fatto capire che intende smontare l’architettura neocon della guerra per procura in Ucraina. I canali con Mosca sono stati riaperti. La valutazione è semplice: la guerra ha fallito i suoi obiettivi, ha rafforzato la Cina, isolato Washington nei Sud globali e mandato l’Ucraina al collasso economico e militare.
Ma mentre Washington prepara la ritirata, l’Europa continua a marciare. Non per scelta strategica, ma per vincolo ideologico. Francia, Germania, Olanda e i Paesi baltici restano ancorati a una narrazione che non corrisponde più a nulla: quella di una Russia aggressiva pronta a invadere il continente. E mentre le economie europee arrancano — colpite da inflazione, deindustrializzazione, crisi energetica e crescente dipendenza dagli USA — le classi dirigenti non recedono.
Perché? Perché non possono. Perché la narrazione bellica è diventata la condizione di sopravvivenza politica di élite in crisi di legittimità, assediate dal malcontento sociale e isolate nei sondaggi.
Vassalli di Washington: la lunga fedeltà al Partito Democratico
La spiegazione più immediata risiede nei legami organici tra gran parte delle cancellerie europee e il Partito Democratico statunitense. Da Macron a Scholz, passando per Sanchez e Von der Leyen, la quasi totalità dei vertici UE ha scommesso sull’establishment liberal americano, costruendo un asse ideologico, economico e strategico che oggi li rende ostaggi.
Trump, considerato una deviazione da estirpare, è temuto più della stessa Russia. Il timore è che, se rieletto, demolisca l’impalcatura che tiene in piedi la leadership europea: scioglimento dell’USAID, ridefinizione del ruolo NATO, uscita dagli impegni multilaterali, nuova apertura verso Mosca.
Per questo, in attesa del “ritorno” democratico nel 2028 o 2029, le élite europee insistono nella prosecuzione della guerra, nonostante tutto, pur di mantenere vivo il progetto neocon. Una guerra per interposta persona, condotta ormai contro il tempo, contro la realtà e — soprattutto — contro gli interessi dei popoli europei.
Il nemico è utile: la paura come strumento di governo
Ma c’è anche una seconda ragione. Ancora più torbida. La guerra serve per governare. La minaccia dell’invasione russa — del tutto infondata se si guarda alla demografia, alla logistica militare e alla postura strategica di Mosca — viene agitata per creare uno stato di eccezione permanente.
Un’ansia collettiva che giustifica ogni cosa: repressione del dissenso, censure mediatiche, criminalizzazione dell’opposizione, concentrazione di poteri. La paura è il nuovo ordine. È l’arma con cui si evitano elezioni anticipate, si impongono riforme impopolari, si cementano alleanze transatlantiche in frantumi.
Dietro lo schermo del riarmo, si cela un’accelerazione autoritaria delle dinamiche europee: meno Stato nazionale, più Bruxelles. Meno controllo parlamentare, più tecnocrazia. Meno cittadini, più regolamenti.
L’Eurozona come leva del dominio
Dal 2008 a oggi, ogni crisi è stata sfruttata per rafforzare la dipendenza degli Stati dalla BCE e dalla Commissione. Il Quantitative Easing, il Next Generation EU, i fondi per il riarmo: tutte misure presentate come soluzioni d’emergenza, in realtà strumenti di condizionamento finanziario.
Attraverso il debito — oggi di fatto mutualizzato — e la sospensione sistematica dei vincoli di bilancio, si è imposto un nuovo modello di governance: gli Stati amministrano, Bruxelles decide. E i trattati, invece che garantire un equilibrio tra sovranità e cooperazione, sono diventati il grimaldello per esautorare i Parlamenti.
La guerra, cavallo di Troia dell’integrazione forzata
Il conflitto in Ucraina ha fornito il pretesto ideale per consolidare il processo. Comandi militari centralizzati, industria della difesa comune, appalti europei, investimenti diretti dalla Commissione: il federalismo militare è già realtà, anche se nessun cittadino lo ha mai votato.
Sotto la guida di Ursula von der Leyen — formalmente priva di competenze in materia di difesa — la Commissione ha assunto ruoli sempre più invasivi, espropriando gli Stati del controllo sulla sicurezza nazionale. Si è creata una “cabina di regia” bellica a Bruxelles che opera al di fuori del controllo democratico.
Il risultato è un colpo di Stato silenzioso, una mutazione istituzionale progressiva, in cui il diritto viene riscritto in nome dell’urgenza e la democrazia svuotata dall’interno.
Il popolo come ostacolo
A questo disegno manca solo un tassello: il consenso. Ma l’ostacolo non si affronta. Si aggira.
Dalla Moldavia alla Slovacchia, passando per le elezioni europee e le consultazioni referendarie, si moltiplicano gli episodi di manipolazione elettorale, esclusione degli oppositori, campagne mediatiche pilotate, uso strumentale di ONG e fondazioni pro-EU per condizionare l’opinione pubblica.
Il giornalista Thomas Fazi ha documentato come la Commissione europea finanzi sistematicamente media, enti e associazioni che condividano la sua agenda federalista. Una propaganda di sistema, pagata con soldi pubblici, che cancella il dibattito e diffama il dissenso.
In nome della pace, si prepara la guerra. In nome della democrazia, si zittisce il voto
La posta in gioco non è l’Ucraina. È l’Europa.
Dietro la retorica della solidarietà, si sta imponendo una nuova architettura del potere: più verticistica, più militarizzata, meno democratica. I cittadini contano sempre meno. Le decisioni arrivano sempre più da organismi che non rispondono a nessuno.
Così, mentre le famiglie affrontano l’inflazione e la recessione, mentre le industrie chiudono, mentre le forniture energetiche dipendono da Washington, l’élite europea gioca alla geopolitica col fuoco.
E la domanda, oggi, non è più chi vince tra Kiev e Mosca. Ma chi decide davvero il destino dei popoli europei.





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