La caduta degli Dei
da LA FIONDA (Silvano Poli)

USA, eccezionalismo e altri pezzi sparsi
“Ma che ti è successo Stati Uniti d’America? Una volta eri ganzo”. Questa citazione parzialmente modificata è tratta dall’episodio “Bart to the Future” de I Simpson. A qualcuno potrà sembrare inconsueto iniziare un’analisi politica con una frase di un cartone animato che vede come protagonista una scapestrata famiglia dell’America profonda. Ma per chiunque sia capace di guardare più là del suo naso, è ben noto che I Simpson, oltre ad essere la serie televisiva più longeva e premiata della storia, hanno rappresentato uno strumento di soft power tra i più pervasivi degli ultimi 40 anni. Dissacranti e pronti a mettere alla berlina le idiosincrasie degli USA (almeno durante la loro golden age), il cartone ha raccontato la working class e la vita di provincia di un’America al suo apogeo. Ha illustrato la way of life dell’operaio medio di uno stato centrale in maniera esilarante e cinica. Quel che non viene spesso considerato è che poteva farlo perché non c’erano nemici all’orizzonte. Insomma, gli USA si fabbricavano in caso anche la satira più sboccata e irriverente, perché non c’era nessun’altro che potesse azzardarsi a deridere il poliziotto del pianeta. Ogni tanto si andava un po’ troppo oltre, come nel rappresentare troppo positivamente l’Albania comunista o troppo negativamente la corruzione a Washington, rischiando la sospensione da parte dei vertici della Fox. Ma trattava di stop momentanei, specialmente durante la Homer-mania degli anni ’90 e primi 2000. Grazie allo straordinario successo, nella realtà come negli episodi, a prevalere era sempre classico finale felice in stile Disney (che non a caso i Simpson se li è comprati).
Nell’episodio da cui è tratta la citazione iniziale ci troviamo nel 2030 (non manca molto) e Lisa è appena state eletta prima presidente donna degli USA: l’eredità che riceve è un Paese al collasso, spaccato da guerre intestine e indebitato fino al collo. Solo nel finale della puntata suo fratello Bart interviene in una rovinosa riunione con i Capi di Stato dei paesi creditori. Con i suoi modi sciatti, ma al tempo stesso magnetici, Bart in versione hippie risolve la situazione e convince tutti, soprattutto, la Repubblica popolare ad attendere ancora per la restituzione del debito, invitandola ad avere un atteggiamento più rilassato. Da qui l’iconica battuta “che ti è successo Cina? Una volta eri ganza”. Se facciamo a meno del simpatico siparietto di Bart figlio dei fiori è facile notare che I Simpson hanno onorato ancora una volta il loro ruolo di Nostradamus del XXI secolo. Anzi, se analizziamo la situazione attuale con occhio clinico ci rendiamo conto che stavolta sono stati anche troppo ottimisti. Alcuni storceranno il naso a leggere queste parole, si parlerà del solito speranzoso catastrofismo antiamericano: tuttavia, la verità è che oggi gli Stati Uniti sono un Paese al collasso, se non in rovina. Quanto preannunciato dal celeberrimo teorico Slavoj Žižek nel suo ultimo libro, ossia lo scivolamento degli USA di Trump al rango di potenza locale in stile BRICS, non è una tendenza imminente, ma è già la realtà. E quel che è peggio (o meglio) e che gli USA dei prossimi 50 anni potrebbero non essere neppure quello.
Non è chiaro da dove sia più semplice iniziare a fare la conta dei danni. Ma se il politologo W. Lippman aveva anche solo un po’ di ragione a definire la politica estera «lo scudo della Repubblica » conviene iniziare dalla situazione in giro per il mondo. A mettere insieme le notizie non è possibile non constatare come ogni secondo di più il mondo stia sfuggendo dalle mani della ei fu unica super potenza globale. Per citare un po’ di fatti sparsi possiamo cominciare a ricordare come poco più di un mese fa il presidente Trump abbia esposto come un grande successo la tregua raggiunta con gli Yemeniti Houthi. Poco più di due decenni fa gli USA potevano permettersi di portare prove artefatte all’ONU per dare il via ad un’operazione Boots on the Ground ad oltre 10mila km da casa e che si sarebbe espansa su un territorio totale grande più dell’Europa occidentale. Si trattava del tipo di impresa che, al netto del giudizio morale di tutti noi, solo gli USA potevano permettersi di intraprendere: per spesa, logistica, coordinamento e sforzo, all’inizio del XXI secolo per qualsiasi altro Paese era assolutamente impensabile. Oggi il trionfo del Presidente del MAGA è una tregua generosamente concessa da un partito milizia che controlla ca 1/3 del territorio di un Paese dell’estremo sud della penisola arabica. Come se ciò non bastasse, si tratta di una tregua ricercata e dolente: ricercata perché dopo mesi di bombardamenti la marina US non è riuscita minimamente a limitare le incursioni di missili e droni da parte degli Houthi nel mar Rosso; dolorosa perché gli Houthi sono riusciti a strappare una tregua esclusiva con conseguente abbandono di Israele su quel fronte.
Proprio lo storico protettorato sionista è il vero grande smacco della politica estera USA. Dopo l’attacco notturno ai siti iraniani della scorsa settimana appare chiaro che gli USA (e con loro tutto il cd. mondo occidentale) sono solo un ostaggio di Netanyahu e del suo governo. Le continue giravolte a seguito del primo attacco israeliano sono una prova lampante di questa sudditanza. Per la prima volta dalla loro fondazione nel XVIII secolo, gli USA si sono ritrovati nella stessa situazione che da 80 anni fanno vivere al resto del mondo: vedersi catapultati in una guerra decisa da qualcun’altro e che, in teoria, avrebbero voluto evitare. L’attacco israeliano è stato prima di tutto il tentativo di castrare subito la diplomazia di Washington che, seppur con risultati contrastanti, stava portando avanti un canale di discussione con gli ambasciatori dell’Ayatollah. I continui riposizionamenti – “non eravamo informati”; “eravamo informati ma lo abbiamo sconsigliato”; “non abbiamo voluto intervenire”; “l’Iran avrebbe fatto meglio ad accettare le nostre proposte”; “scenderemo in guerra al fianco di Israele” con tanto di bombardamento – sono uno dei più maldestri tentativi di mascherare uno stato di assoluta impotenza. Come ben sappiamo nel Belpaese, se settimane di lavoro della tua diplomazia vanno in fumo nel giro di una notte a causa dell’azione di un tuo “alleato”, più che parlare di azioni congiunte quello che ti conviene fare è andare a riprendere le lezioni parigine di A. Kojève sul concetto di servo e Padrone in Hegel. Non è chiaro se sia stato Trump, timoroso di non trovarsi al tavolo dei vincitori, o se le agenzie che hanno preso il posto degli arcani imperii del XXI secolo: importa poco. Agli atti rimane che gli USA non hanno potuto rifiutarsi di sganciare le speciali bombe anti-bunker B-2 contro i laboratori sotterranei dell’Iran. Allo stesso modo, nonostante la presunta sgridata presidenziale, Netanyahu non ha avuto alcuna remora a violare il primo cessate il fuoco unilateralmente proclamato e se oggi i missili tra Tel Aviv e Teheran hanno smesso di volare è per volontà d’Israele, non di certo per opera di Trump. Per molti versi, le ultime settimane mediorientali rappresentano l’evirazione del soft power e del potenziale di minaccia a stelle e strisce. Si tratta di un’affermazione storica, dalla quale non si torna quasi mai indietro: dopotutto, proprio come la fiducia, il potere si guadagna a gocce e si perde a litri ed una volta incrinata quell’aurea di inscalfibile controllo non è quasi mai possibile instillare di nuovo quell’idea negli altri. Il soft power, dopotutto, proprio come il carisma weberiano, vive nell’incanto degli occhi di guarda.
Questo stato di debolezza si riflette sulla politica interna. A differenza di quei commentatori che vengono risucchiati dal fascino della geopolitica ogni volta che cade un proiettile, ritengo che la crisi statunitense si stia consumando soprattutto a livello domestico. Giustamente “distratti” dalle bombe contro Teheran stiamo perdendo contatto con le notizie interne. La scorsa settimana V. Boelter, cinquantasettenne operaio di Minneapolis, si è travestito da poliziotto e ha iniziato a spuntare una lista di ca. 50 politici democratici che dovevano essere eliminati. Quattro giorni fa è stato arrestato all’inizio dell’opera, dopo aver ucciso una politica locale ed il marito ed aver ferito un senatore dello stato e sua moglie. Tutto questo mentre i nostri giornali e le nostre televisioni si stavano solo lentamente depurando dalle immagini di una Los Angeles messa a ferro e fuoco dalle proteste e dall’invio della guardia nazionale, dell’esercito e dei marines. Ma se le rivolte violente nella progressista L.A. sono un fenomeno ciclico già dagli anni ‘90 del secolo scorso, possiamo considerare gli episodi come quello di Minneapolis sintomatici di uno scollamento che ormai intacca anche le zone dell’America profonda – come la regione dei grandi Laghi. Boelter ha lasciato un messaggio mentre era in fuga, si è innanzitutto scusato con i suoi parenti e amici per i problemi che avrebbe creato loro e ha fatto riferimento ai suoi guai. Ha parlato della disperazione di avere 5 figli e non riuscire a mantenerli nonostante diversi lavori; dell’avere quasi 60 anni e vivere in una stanza di un appartamento condiviso con giovani studenti. Gli USA, ed in particolare i suoi stati centrali, sono un territorio dove la violenza è presente in modi e quantità che per noi europei sono impensabili. E tuttavia, dai serial killer alla violenza razzista, la pulsione è sempre stata direzionata lontano dalla “politica che ha a che fare con la classe”. Come mostrato da M. Kazin nelle sue molte opere sul discorso politico americano, la violenza degli USA è orizzontale e le spiegazioni si tagliano con l’accetta non con il bisturi delle classi. Eppure, sebbene in maniera rozza, maniche e semplicistica, Boelter ha individuato nei politici dei nemici, colpevoli di avergli rubato il rispetto di sé, la sua identità di padre, il suo godimento di uomo e lavoratore. Un altro ingrediente che riesca di esacerbare questa situazione è l’imminente fine della sessione 2024/2025 della Corte Suprema degli Stati Uniti e che, dunque, questa sono le settimane in cui aspettarsi le sentenze più rilevanti per la giurisprudenza e per la società americana. I punti concernono tutte quelle decisioni assunte dalla Corte al di fuori del suo docket ordinario, senza discussione orale, prive di motivazioni e che vengono decisi sulla base di procedure d’urgenza rispetto a decisioni delle Corti ordinarie. Un tema che l’amministrazione Trump ha esacerbato e di cui è certo avremo modo di discutere a breve.
Così la violenza interna, attuale e prossima, non può non miscelarsi con la situazione economica, la vera bestia nera del 2025 USA. Dopo un inizio di anno segnato dal nuovo gioco trumpiano Dazi si/Dazi no, negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno raggiunto un debito del 120% rispetto al PIL (35720,71 miliardi di dollari), dunque in proporzione anche più grande del debito raggiunto alla fine dello sforzo bellico nel 1945. Il rischio di default – l’incapacità di ripagare il proprio debito pubblico nei tempi e nei modi previsti – per gli Stati Uniti resta ancora un’eventualità a dir poco remota. Eppure, da tempo il conflitto interno all’oligarchia americana – tra la fazione degli speculatori moderati democratici e quella della rampante Paypal Mafia repubblicana – produce crepe sulla struttura economica americana che rischiano di divenire fratture insanabili. Lo scorso mese l’agenzia di rating Moody’s ha declassato la valutazione sul debito statunitense. Nello stesso periodo, l’imperatore del mondo finanziario, il CEO di BlackRock L. Fink, ha scritto una lettera agli investitori spiegando il concreto rischio di vedere il dollaro trasformarsi in una moneta qualunque, perdendo lo “status di grande moneta di riserva dell’economia mondiale”. Immediatamente, gli ha fatto eco il guru della finanza R. Dalio che si era detto “preoccupato come mai prima”. Ultimo ad unirsi al coro J. Dimon, a capo della JP Morgan, che ha dichiarato che non sa se ci vorranno “6 anni o 6 mesi, ma la crisi del dollaro arriverà” – un auspicio inquietante per uno dei maggiori finanziatori del debito pubblico statunitense. È chiaro che queste non sono semplici dichiarazioni, ma il tipo di fendenti che in un conflitto tra oligarchie finanziarie serve a far sanguinare i nemici. E tuttavia, per un’economia come quella americana, centrata proprio sulla capitalizzazione e le fluttuazioni, il pericolo più grande è sempre quello della “profezia che si auto avvera”: il rischio è che, a furia di parlarne e di usare la dissoluzione socioeconomica degli USA come arma di ricatto, questa si realizza in modo cruento nello stupore dei passanti.
Il tracollo degli USA è un evento fantasticato dal pubblico più variegato che esista da moltissimo tempo. Dalle frange dell’estrema sinistra a quelle dell’estrema destra europea, l’antiamericanismo è stato un valore ostentato per differenziarsi da pusillanimi e liberali. Se, ad esempio, voleste trovare un modo per unire un populista di destra ed un combattente fondamentalista islamico la soluzione sarebbe probabilmente fargli urlare “Morte all’America”. Tra di noi non esiste italiano, ed anche europeo, che non abbia guardato almeno una volta un turista con la maglia a stelle e strisce dinanzi un monumento, un cliente urlare sguaiato in un ristorante del centro di una città d’arte, o persino il protagonista di una serie TV ambientata in qualche città lontana, pensando con malcelato disprezzo “che barbari!”, “che popolo assurdo” ecc.: l’odio per gli USA, almeno in certi ambiti, è stato uno strano perverso collante per opposti. Eppure, oggi che il loro tracollo sembra per la prima volta una concreta possibilità della storia, e non solo una speranza vaneggiata e insensata, non sappiamo come sentirci. Siamo davvero certi che ciò che verrà dopo sarà meglio? Saremo più sicuri una volta che gli Yankee smetteranno di esportare democrazia? Per certi versi, l’eccezionalismo USA era l’ultima vera narrazione metapolitica rimasta. Nell’ingenuità di una Nazione in cui quasi un cittadino su due crede che la terra sia piatta si è davvero incarnata l’idea che si potesse redimere il mondo in attesa dell’Armageddon ed edificare la città sulla collina in vista dello Shabbat perpetuo. Se l’Europa del XIX e primo XX secolo è stata l’epicentro della terza secolarizzazione, gli USA sono stati il centro della quarta. Una secolarizzazione che, paradossalmente, ha visto un legame molto più stretto con la religione e le sue esperienze spirituali rispetto al razionalismo e all’empirismo europeo. Se il materialismo (in ogni colorazione politica) era sdegnoso nella sua negazione, la secolarizzazione americana è stata certamente più “inclusiva”, accettando, trasformando e, ovviamente, mercificando tutto ciò che è spirituale: lo dimostra il successo di Scientology, o delle innumerevoli dottrine new age, così come le appropriazioni culturali di tutto ciò che era animismo di altre culture e le innumerevoli proliferazioni recenti di misticismo da Instagram. Con gli USA il religioso si è trasformato in forme più esperienziali (nel peggior senso del termine, quello dell’experience aziendalista), individualiste, indipendenti da contenuti definiti e dai confini delle religioni storiche: il tutto in pieno accordo con il tipo di individuo di cui il modello di produzione capitalista statunitense necessitava. Sicuramente tutto questo è da molto tempo diventato invivibile, e ancora oggi non siamo pronti a combatterlo (specie a sinistra). Tuttavia, non sapendo cosa verrà dopo è certo lecito provare almeno un po’ di timore. La caduta dall’Olimpo del potere non sarà indolore per nessuno dei fedeli che erigevano i tempi sotto il monte, o in questo caso, dall’altra parte dell’Oceano. È certo che questa per l’Europa, perlomeno per quell’Europa che deve rappresentare la parte migliore della tradizione razionalista, ecumenica ed emancipatoria, rappresenta l’ultima chiamata per plasmare un nuovo secolo, per secolarizzare nel mero senso etimologico e, forse, salvarci tutti dalle crisi politiche, ambientali e umane che si profilano all’orizzonte.
Parafrasando un’altra frase celebre: “non sappiamo con cosa sarà realizzata la secolarizzazione del mondo post egemonia USA, ma sappiamo che la sesta sarà realizzata con pietre e bastoni”.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/07/02/la-caduta-degli-dei/





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