MANIFESTO TQ SUL PATRIMONIO STORICO E ARTISTICO DELLA NAZIONE ITALIANA
Il gruppo TQ, composto da scrittori, critici, editori, operatori culturali, freelance e giornalisti di età compresa fra i trenta e i quarant'anni (da cui il nome del movimento), nasce a Roma nell'aprile 2011. Nel manifesto si legge che “TQ si è raccolta non attorno a istanze estetiche, bensì politiche e sociali. Questo non è, infatti, un movimento artistico o letterario nel senso novecentesco del termine, ma un gruppo di intellettuali e lavoratori della conoscenza che ha l’ambizione di intervenire nel cuore della società italiana e nel tessuto ormai consunto delle sue relazioni materiali”. Dopo un'iniziale fiammata seguita con qualche attenzione dalla stampa mainstream, il movimento si esaurisce, lasciando comunque alcuni documenti importanti come i due che presentiamo, uno dedicato al patrimonio storico-artistico dell'Italia, l'altro all'editoria.
MANIFESTO TQ SUL PATRIMONIO STORICO E ARTISTICO
DELLA NAZIONE ITALIANA
Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia.
Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto 7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale) e privatizzandone gli eventuali utili.
Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di tutela deve rimanere nazionale e statale, e non può essere regionalizzato o localizzato.
Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè, è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del patrimonio stesso.
Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di tutela che obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al patrimonio.
Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta. Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di un codice etico – e innanzitutto di una severa moratoria – per le mostre appare dunque urgentissima.
Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale, né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni culturali”.
Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere, cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a pagamento.
Nono. È necessario restituire dignità e utilità intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso, tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il novanta per cento degli articoli che trattano di storia dell’arte si occupa di mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto.
Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria nazione” (la citazione è da Roberto Longhi).
Chi davvero ha a cuore il futuro delle opere d’arte, e della natura e della storia che le hanno generate – cioè chi ha a cuore il futuro del nostro Paese , deve lottare perché le prossime generazioni escano dall’analfabetismo figurativo che ha afflitto quelle precedenti, e che ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica.
Quoto in pieno, chiedo se posso condividerlo anche sul mio sito.
Certo Monica. Non è necessaria l'autorizzazione :)
"il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia."
Qui viene smentita la funzione del terziario tout court. In un mondo che l'etica protestante definisce funzione del movimento di denaro, il patrimonio artistico non può essere l'eccezione che conferma la regola. Trovo molto difficile sostenere queste posizioni anticapitaliste, dato che siamo una costola dell'Impero. Sostenere questo valore significa rendere insignifcante il denaro, cosa non semplice.
Una posizione più "modernista" consiste nel rilevare il valore anche monetario del turismo culturale.
D'altronde le opere in questione furono ordinate da magnifici committenti, con notevole dispendio di denari. Quindi è solo una questione di soldi, già dall'inizio. A meno che non si parli di dolmen, dove il discorso si fa un po' più complicato.
“Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali”
A questo stanno già pensando i tagli, e anche la scardità di domanda: nella mia città ha recentemente chiuso un corso in conservazione dei beni culturali.
Direi che anche per la conservazione e la fruizione del patrimonio culturale (in tutto il mondo si chiama patrimonio, solo noi lo indichiamo con l’espressione discutibile e impropria di “beni culturali”) occorra principalmente restituire maggiore capacità di spesa allo Stato.
Dimenticavo: mi sento di condividere la posizione di Tonguessy e aggiungo: anche la vita culturale ha bisogno di essere domandata e offerta, per non indebolirne la posizione nell’immaginario. La cultura, e con essa la percezione del bello, deve essere una continua conquista. Non può essere un regalo. Lasciano il tempo che trovano le campagne che invitano pateticamente a visitare musei o siti archeologici vuoti, minacciando magari di trasferirli altrove.
Bene. Mi sembra che sia emersa una osservazione importante (Tonguessy e Gianluigi) della quale potremmo tener conto, articolandola in modo analitico, in un eventuale documento dell'ARS.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Giampiero.
Grazie a tutti, mi fa piacere che questo manifesto abbia destato interesse. Per replicare alle perplessità espresse in alcuni commenti, che non condivido pur trovandole sensate, partirei dall'ultimo punto del documento, il decimo: "Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola". Se è di primaria importanza incentivare l'accesso ai beni culturali da parte degli studenti, allora non si può che smentire la funzione del terziario, per usare le parole di Tonguessy, e sottrarre decisamente, anzi SOVRANAMENTE, il patrimonio artistico italiano alla morsa del capitalismo. La cultura e l'istruzione non sono una merce: è lo stesso principio che affermiamo nel documento ARS Scuola approvato dall'assemblea nazionale. Per inciso, ricordo che una delle nostre proposte concerne il "riconoscimento del diritto civile alla formazione ciclica degli adulti, che lo Stato ha il dovere di rendere operativo". Dunque nella prospettiva ARS il termine "scuola" assume una valenza piuttosto ampia: "studenti", per noi, sono anche gli adulti.
Condivido, con una sola eccezione; pensare che l'arte in se sia soltanto espressione del "bello" è aberrante, improprio e mortificante. In assoluto l'arte (tutta e quindi la cultura nel suo complesso) è espressione interiore di una percezione e il bello e il brutto è solo un incidente di percorso causato dal grado di capacità intelletuale soggettiva. A me non piace Wagner; raramente vi scorgo "bellezza"… ciò potrà dar fatidio a qualcuno, ma il mio giudizio non toglie nulla alla sua arte, semmai la rafforza. L'arte va difesa con ogni mezzo perchè è memoria, continuità, consapevolezza, testimonianza, fonte iniziatica, sapienza, conoscenza, ma anche raccordo con il sapere e la sapienza dell'oggi. Grandi saggi e grandi filosofi ci insegnano che tutto ciò che siamo oggi lo dobbiamo all'arte, sia essa arte pittorica, astronomica, filosofica, musicale o altro. La radice ariana AR significa andare, muoversi, progredire. Da questa radice si diparte una serie di sensi tutti connessi tra loro come Artios= perfetto, compiuto; Arya = eccellente, nobile…; Arthmos = legame, empatia, amicitia…; Arethe = virtù… ma anche artigiano, articolazione, artato, artefatto, aritmetica…
Lo svilente quadro che oggi si dà all'Arte in generale mi pare confuso poichè impone ad essa un destino fatto di mode e di mercati oltre che di "capricci" d'artista. E' una decadenza morale e intellettuale da cui si esclude soltanto il riconoscimento all'artista mentre il mercato fiorisce e ne gode. Nel peggiore dei casi, quello italiano, appunto, l'arte di tradizione appare perlopiù inflazionata a causa dell'abbondanza e dell'estrema confidenza che popolo e governanti hanno nei suoi confronti. E' questo il punto dolente. Noi dovremmo essere educati all'arte, competere per l'arte, vivere di arte, produrre arte per produrre cultura. Sarà poila cultura a produrre target e dunque mercato.
Scrive Giampiero:
"La cultura e l'istruzione non sono una merce"
Il discorso si fa complicato, quando lo si applica ai notevoli tesori architettonici che popolano il suolo italiano. Difficile sostenere che tali tesori siano frutto di casualità o di "volontariato", molto semplice invece dimostrare che sono frutto di investimenti resi possibili dalla mancanza di esazioni da parte di uno Stato centrale. Tali tesori sono parte integrante della cultura italiana. E hanno bisogno di ingenti investimenti di manutenzione e restauro. Ma uno Stato-azienda ha ben altre priorità. Ben diversamente stavano le cose nell'età dei Comuni, dove si faceva a gara a dimostrare la propria forza tramite l'architettura (tra le altre cose). Adesso la dimostrazione di questo tipo non è più richiesta.
Se vogliamo cercare la giusta definizione: la cultura non è una merce, ma un bene. Purtroppo tutti i beni (vedi l'acqua) sono o stanno per diventare merci, e questa è la filosofia di base di ogni Stato-azienda. Comunque la si veda non c'è molto da stare allegri.
Certo, sottrarre la cultura dalla morsa del capitalismo è una visione stupenda (che peraltro inseguo da almeno quarant'anni), ma temo che problemi come la disoccupazione abbiano maggiore priorità. Perchè si discute di filosofia a pancia piena, a pancia vuota riesce male.
Scusate la franchezza….
Il patrimonio culturale deve produrre reddito, e quindi occupazione, oltre che fungere da catalizzatore per la cultura. Lo Stato dovrebbe essere ovviamente libero di aumentare le voci di spesa relative alla conservazione e all'accessibilità del patrimonio, in base alle necessità. Non ci trovo nulla di immorale.
Diverso è invece il caso del capitale che cerca di valorizzarsi, come nel recente caso del restauro del Colosseo, svilendo e piegando un simbolo stesso della cultura italiana alle esigenze di profitto.
Sarà per un mio limite, ma ritengo che la fruizione di un "bene culturale" debba essere domandata e offerta, con relativa produzione di reddito. E' nella natura stessa di tutti i beni produrre reddito. Non mi si accuserà di simonia, a meno che non si decida di fondare la nuova religione dei beni culturali.
Ricordiamoci poi che comunque c'è un biglietto di ingresso da pagare. Se così non è, aumentano le tasse, il che è la stessa cosa.
Sono d'accordo che la scuola debba essere il fronte più importante per l'educazione al patrimonio culturale.
@Roberto: "L'arte va difesa con ogni mezzo perchè è memoria, continuità, consapevolezza, testimonianza, fonte iniziatica, sapienza, conoscenza, ma anche raccordo con il sapere e la sapienza dell'oggi" – sottoscrivo parola per parola. Mi permetto di aggiungere un'osservazione sul vocabolo latino "ars, artis", che potrebbe avere un'origine semitica anziché indoeuropea (Semerano, Dizionario latino, ed. Hoepli, p. 345) dalla radice HAR-, "abilità magica".
@ Tonguessy: "Certo, sottrarre la cultura dalla morsa del capitalismo è una visione stupenda" – e allora crediamoci! Anche le società pre- e anti-capitaliste hanno prodotto posti di lavoro e ricchezza.
@Gianluigi: nulla in contrario al biglietto d'ingresso, purché il prezzo sia accessibile a tutti. Nella scuola statale, del resto, si pagano tasse e libri.
I beni culturali producono reddito in quanto domandati. E’ il profitto privato che va tenuto lontano. Se invece il reddito ricavato è a beneficio della collettività la musica cambia. Sbaglio forse?
Sì Gianluigi, il punto due del manifesto è molto esplicito in tal senso e, per quanto mi riguarda, condivisibile in toto.
Certo, è chiaro. Condivido in toto anche io. Il punto è sull’inutile pleonasmo: “occorre anche dire che, dunque, il suo [del patrimonio] fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia.” Come se il reddito derivato dalla gestione (statale) dei beni culturali apparisse cosa vile rispetto alla funzione civile e costituzionale.