Call center
C'erano una volta gli stati-cuscinetto, che servivano a evitare conflitti aperti tra due potenze contendenti. La Polonia a cavallo tra le due guerre, ad esempio, doveva assorbire le tensioni tra Germania e Unione Sovietica. Oppure il Beilikato dei Dulqadiridi tra Impero ottomano e Sultanato mamelucco tra XIV e XV secolo, ci informa con la sua solita precisione Wiki [1].
La globalizzazione ha poi reso i conflitti tra potenze una questione più commerciale che militare. Ed è proprio sul versante commerciale che si sono venute a creare le condizioni per la nascita di nuove strutture-cuscinetto: i call center.
Ciò che il secolo scorso la Polonia aveva il compito di mitigare è passato nelle mani, o meglio nelle orecchie, degli operatori-cuscinetto che hanno il compito istituzionale di evitare che inferociti consumatori possano arrivare alla giugulare degli Amministratori Delegati pagati per incrementare i profitti di quelle multinazionali che causano problemi e disservizi.
Nella Belle Epoque della Great Globalization e ormai immersi nel corrosivo ed omologante fluido neoliberista lo scontro epico non è più tra Stati (semmai gli “Stati canaglia” vengono invasi), e forse non è neanche più tra classi (visto come tale fluido ha rimescolato le preesistenti definizioni ed appartenenze) ma tra privati. La fede riformista nell'individuo ha frantumato i rapporti tra cittadini e Nazioni (la prova sta nel costante declino di affluenza alle urne), mettendo in priorità assoluta le questioni personali e scoraggiando ogni rivendicazione di classe o sociale. La proprietà privata, base di ogni contrattazione e ragionamento nel mondo postmoderno, pretende di assicurare ad ogni individuo quel benessere e prosperità che l'ineguale sviluppo mina costantemente. Questa tensione tra ciò che viene offerto e ciò che viene mantenuto crea costanti aspettative prima e conflitti dopo tra cittadini e gruppi di potere. E come ogni tensione che si rispetti va scaricata da qualche parte, evitando accuratamente ogni possibilità che i piani alti possano subire qualche disagio.
I lavoratori-cuscinetto incaricati di spuntare le armi acuminate di chi è insoddisfatto del servizio da una parte, e di convincere possibili clienti della bontà della vantaggiosa offerta dall'altra, sono gli operatori dei call-center. La novità sta nel fatto che oltre ad essere i più bistrattati sono anche i meno pagati: nelle circa 30 società che gestiscono call center in Sicilia (occupando oltre 16mila operatori telefonici sui 30mila nazionali) i contratti più diffusi sono di 3 mesi e non superano i 300 euro mensili.[2] Visto come finì la Polonia, non c’è da meravigliarsi che questo sia solo l’inizio. Sulla scia di questa pressione al ribasso si inserisce il nuovo contratto siglato da UGL e Associazione dei consulenti del lavoro, “associazione nata pochi mesi or sono con, probabilmente, il solo scopo di stipulare un accordo al ribasso sui lavoratori a progetto unitamente a un sindacato non rappresentativo del settore …. un’intesa che permette di sottopagare e sfruttare giovani in cerca di lavoro utilizzandoli nei call-center outbound” afferma Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil. [3]
Aprire delle sedi al Sud significa assumere in aree depresse, avere minori oneri contributivi utilizzando gli incentivi statali e comunitari, oppure giovandosi delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato in caso di assunzioni di lavoratori svantaggiati coinvolti in procedure di cassa integrazione o di mobilità. [4]
La conseguenza è che tutto finisce per drogare il settore, riuscendo ad arrivare al dumping (vendere cioè ad un prezzo finale inferiore al costo di produzione). Questa è l'analisi del bando di gara da 50 milioni di euro (spalmati sui prossimi tre anni con opzione per i due successivi), «la cui base d’asta non copre nemmeno i costi industriali» secondo Alberto Zunino de Pignier, direttore generale di Assocontact, l’associazione delle imprese di Contact Center: «il prezzo complessivo a base d’asta, i volumi e le durate consentono di calcolare il valore per minuto di interazione e per ora lavoro, rispettivamente circa 0,30euro/minuto e 13,5 euro/ora. Cifre che non coprono nemmeno il costo orario di un terzo livello del contratto delle telecomunicazioni, il livello minimo previsto per queste attività».
Prende vita così un meccanismo infernale che – amplificato dalla crisi che ha ridotto il budget destinato al customer care da parte delle grandi aziende – finisce per innescare un circolo vizioso che penalizza soprattutto gli ultimi della filiera: i centralinisti. Sempre più malpagati . E sempre più qualificati; tendenzialmente laureati, giovani, poliglotti e soprattutto meridionali. Il perfetto capro espiatorio delle attuali politiche del lavoro: con il miraggio di un posto di lavoro di prestigio si laureano sacrificando anni di vita per poi approdare a dei contratti a termine sottopagati a causa dell'eccessiva concorrenza in ambienti dove l'unica speranza è il rinnovo contrattuale.
Ma non è finita. La storia prosegue con il lento ma inesorabile trasferimento delle sedi dei call center verso località estere, economicamente più convenienti; ad oggi sarebbero circa 12.000 i posti di lavoro persi. Le destinazioni sono soprattutto l’Albania, la Romania, la Croazia, la Tunisia e l’Argentina, dove gli aspiranti operatori vengono scelti in base alla conoscenza dell’italiano; tali Paesi sono contraddistinti da tutele sindacali minime o inesistenti e da bassissimi salari; lo stipendio medio per un operatore in Albania sarebbe di soli 80 euro al mese.[2]
Le cose starebbero quindi così: non esiste la possibilità di investire risorse nei servizi da parte di operatori di telefonia, gestori energetici, banche, compagnie di assicurazioni e telecomunicazioni (ovvero tutte le grandi aziende del terziario che hanno un bisogno di un sistema di “attenzione al cliente” capillare e ventiquattro ore al giorno) se non quando lo Stato offre adeguati incentivi. Il costo di un salario “normale” (al netto degli incentivi statali) è impensabile per i lavoratori-cuscinetto dei call center. Questo pone delle serie domande sulla distribuzione dei redditi all'interno del terziario, con i “too big to fail” da una parte che incassano sussidi miliardari da parte degli Stati, ed i “too small to care” che si vedono sottrarre progressivamente quel poco che avevano ottenuto, e che nessuno Stato vuole adeguatamente tutelare. Siamo passati così dai “troppo grossi per fallire” ai “troppo piccoli per interessarsene”, dove la dimensione è evidentemente determinata dai soldi incassati e dall'interesse che suscita nei piani alti.
L'alternativa alla progressiva riduzione dei costi di gestione (riduzione che sfiora il dumping) dei servizi offerti agli utenti da parte delle succitate compagnie è la delocalizzazione. Un'alternativa neoliberista ad un problema innescato da politiche neoliberiste, in perfetta circolarità argomentativa.
Ecco cosa significa in pratica la libera circolazione di capitali e merci: si tratta di mettere generazioni che per decenni hanno lottato e ottenuto risultati contro generazioni che si sono appena affacciate nel mondo delle lotte sindacali, il tutto per garantire il massimo profitto per le elites che gestiscono gli investimenti e lasciare lentamente affondare i popoli nelle sabbie mobili della conflittualità inter pares.
[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Stato_cuscinetto
[2]http://www.concettaraia.com/dettagli_articolo.asp?id=315 [3]http://www.corrierecomunicazioni.it/tlc/22636_azzola-slc-cgil-call-center-accordo-assocal-ugl-una-bomba.htm
[4]http://www.corriere.it/economia/12_maggio_10/savelli-gare-massimo-ribasso-call-center-enel_ce6d51e2-9a2b-11e1-85ab-3c2c8bfb44fd.shtml
Testimonianza personale: due giorni fa mi sono rivolto al 155 della Wind e mi ha risposto un'operatrice dalla… Romania!!! Molto gentile e parlante un ottimo italiano, non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto la pagassero e, soprattutto, se fosse proprio il caso di delocalizzare anche i call-center. Tonguessy ci spiega con la consueta precisione che sì, è proprio il caso in un mondo in cui i diritti dei lavoratori sono una bestemmia.
Anche io confermo, seppur parzialmente. Il laptop, acquistato in grande catena di distribuzione perché il nostro solito rivenditore ha già fatto bancarotta, mi si era guastato in garanzia. Banale sostituzione di ventola, è necessario spedirlo.
Il call center era italiano ma il laptop è stato spedito, se non ricordo male, in Ungheria. Avrebbe potuto farlo qualsiasi tecnico locale. Senza parole.