Nichilismo, alienazione e liberazione nella modernità
di GEOPOLITIKA.RU (Santiago Mondejár)

Nel mondo odierno, dove la specializzazione spesso diventa una sorta di feticismo degli esperti che non riescono a cogliere le molteplici connessioni tra i sistemi di conoscenza e i modi di conoscere, c’è un rischio crescente che la sola padronanza venga scambiata per un vero progresso. Sebbene una conoscenza approfondita e competenze mirate siano essenziali per affinare e far progredire i campi esistenti, alcune delle idee più trasformative non nascono da esperti con una visione ristretta, ma da coloro che affrontano i problemi dall’esterno: la creatività spesso nasce alle intersezioni, dove visioni innovative sfidano le convenzioni e l’ingegno non è vincolato dai limiti imposti dalle camicie di forza degli specialisti.
Man mano che le società diventano sempre più compartimentate, vale la pena riflettere se possiamo davvero sfuggire all’alienazione quando il nostro stesso essere è ridotto a ciò che facciamo piuttosto che a ciò che siamo. Eppure, è solo osando attraversare i confini, avventurandoci oltre i limiti del conosciuto, che potremmo intravedere di nuovo ciò che ci è familiare, attraverso un’apertura che rivela ciò che fino ad allora era nascosto.
Questa necessità di trascendere i confini disciplinari riecheggia l’opera filosofica di Martin Heidegger, in particolare negli anni tumultuosi che circondano la seconda guerra mondiale, e si confronta con la modernità come un’era definita dal compimento del nichilismo. In questo ambito, Heidegger rivolge la sua attenzione alla figura del lavoratore (Arbeiter), non solo come designazione sociologica o economica, ma come Gestalt paradigmatica della soggettività che racchiude il destino ontologico dell’epoca moderna.
Ispirato da Der Arbeiter: Herrschaft und Gestalt (1932) di Ernst Jünger, Heidegger assimila e interroga questa nozione nelle sue lezioni e nei suoi manoscritti del 1939-1940 (ad esempio, Sull’essenza della verità e i volumi su Nietzsche), collocandola nella sua fase di transizione verso Beiträge zur Philosophie e nelle sue successive riflessioni sull’ (Ereignis) (Heidegger, 2012; Heidegger, 1999).
Lungi dall’essere un trattato sociologico sul lavoro, le meditazioni di Heidegger sul lavoratore fungono da diagnosi per rivelare il “carattere lavorativo totale” (totale Arbeitscharakter) degli esseri, in cui l’esistenza umana è sottomessa ai dettami della produzione, del calcolo e del dominio tecnologico. Questa critica trova una provocatoria eco nei pensatori successivi che mettono in luce le ramificazioni socio-politiche ed etiche di questa stessa condizione.
Herbert Marcuse, in One-Dimensional Man (1964), ripensa l’alienazione come una forma di conforto: una modalità placata e amministrata di non libertà, in cui l’umanità interiorizza la logica della produzione e del consumo come propria felicità. Enrique Dussel, voce fondamentale della filosofia latinoamericana della liberazione, radicalizza ulteriormente questa critica, mettendo a nudo il nucleo metafisico ed etico del capitalismo attraverso la sua dissezione della plusvalía (plusvalenza) (Dussel, 2013; Dussel, 2008). Per Dussel, la violenza nascosta dell’estrazione del surplus – ancorata alla colonialità e alla sottomissione globale – costituisce una frattura etica che sostiene la dispensa nichilistica della modernità.
Attraverso Heidegger, Marcuse e Dussel possiamo svelare la molteplice consumazione del nichilismo: ontologico (Heidegger), psicologico (Marcuse) ed etico-materiale (Dussel). Il lavoratore, il consumatore e il lavoratore colonizzato incarnano congiuntamente la verità epocale dell’Essere ridotto a utilità e della vita ridotta a valore. Tuttavia, attraverso questa confluenza, emerge anche una potenzialità: la liberazione come riaccensione della dignità umana e dell’Essere al di là della totalità del capitale, una rivendicazione che riecheggia l’eudaimonia di Aristotele come prassi orientata al bene comune, piuttosto che come mero telos strumentale.
Il dialogo di Heidegger con Der Arbeiter di Jünger si svolge durante la sua riflessione sulla prognosi del nichilismo di Nietzsche e sul dénouement della metafisica occidentale. Jünger propone il lavoratore non come un proletario marxista, ma come una potenza elementare che incarna la “mobilitazione totale” dell’era delle macchine (Jünger, 1932, p. 38). Il lavoratore prefigura la fase del nichilismo attivo, in cui tutti i valori sacri vengono distrutti e soppiantati dalla funzionalità pura della produzione.
Heidegger riconosce la perspicacia di Jünger, ma la trasfigura ontologicamente. Il lavoratore, egli afferma, “non è un uomo qualsiasi, né tantomeno un tipo di uomo. Piuttosto, come tipo, è solo una forma di soggettività, la cui essenza consiste nella certezza del calcolo” (Heidegger, 2012, p. 187). Così, il lavoratore rivela l’apoteosi della techne come volontà di potenza: la trasmutazione dell’Essere in un recinto di produzione.
Ciononostante, Heidegger rimprovera a Jünger di aver trascurato di interrogare il fondamento dell’Essere tout court: Jünger “ottiene solo questo: indicare l’essere mostrando gli esseri, senza interrogare questo essere” (Heidegger, 1999, p. 252). Per Heidegger, questa lacuna oscura esigenze più profonde: il lavoratore non è semplicemente un attore sociologico, ma l’imprimatur metafisico del nichilismo, il soggetto che incarna la riduzione del mondo a riserva permanente. Le sue riflessioni in questa epoca liminale prefigurano le sue contemplazioni più mature in La questione della tecnica (1954), in cui Gestell (intelaiatura) denomina la modalità consumata di disvelamento attraverso la quale l’Essere è assoggettato alla produzione e al comando (Heidegger, 2001).
In questo modo, il lavoratore emerge come un tipo epocale – non solo una rubrica del lavoro, ma la figura sotto la quale si manifestano la soggettività moderna, la sovranità tecnologica e l’enframing nichilistico, evocando un dispositif foucaultiano di potere che disciplina l’esistenza in una disponibilità perpetua.
L’esegesi di Heidegger smaschera la modernità come il mondo del lavoro, in cui l’esistenza tout court si trasforma in una funzione della produzione. L’essere “accade come potere di fare” (Heidegger, 2012, p. 191). All’interno di questa dispensazione, gli esseri non si dichiarano più nella loro intrinseca aletheia, ma sono incorniciati (Gestell) come Bestand, risorse pronte per l’ottimizzazione e l’esaurimento (Heidegger, 2001; Heidegger, 2012). Il lavoratore incarna questa incorniciatura: il “servitore incondizionato” si trasforma in “padrone senza limiti”, allo stesso tempo sovrano e schiavo dell’oikonomia tecnologica.
Le critiche di Marcuse in L’uomo unidimensionale approfondiscono questa intuizione a livello di psicologia sociale. L’alienazione non persiste come miseria allo stato puro, ma come gratificazione amministrata. Il lavoratore moderno, cullato dalla pienezza consumistica, assimila gli imperativi della produzione come autorealizzazione. Ciò che Heidegger definisce “certezza del calcolo” si trasforma nella “coscienza felice” di Marcuse, ovvero la convinzione che il regime sia giudizioso nella misura in cui “fornisce i beni” (Marcuse, 1964, p. 5).
La nozione di razionalità tecnologica di Marcuse – l’abbassamento della ragione a strumentalità ed egemonia – riecheggia quindi il Gestell di Heidegger, prefigurando al contempo l’accusa di Dussel al ragionamento capitalista (Marcuse, 1964; Stanley, 2024). Attraverso questa mediazione, Marcuse funge da fulcro che unisce l’ontologia di Heidegger all’economia politica di Dussel: l’architettura dell’intelaiatura si fonde con quella dello sfruttamento, e l’adattamento soggettivo con la connivenza nel dispotismo sistemico. L’umanità non incontra più l’Essere an sich, ma amministra l’esistenza come una litania di lavori e diversivi ottimizzabili. In entrambi i sapienti si verifica il paradosso: la servitù si maschera da autonomia, l’intelaiatura da veridicità — una perversione che Platone potrebbe denunciare come le ombre della caverna proiettate in grande sul palcoscenico globale.
Enrique Dussel (1934-2023) amplifica questa genealogia dell’alienazione attraverso la sua riconfigurazione della plusvalía di Marx — il plusvalore — come espediente economico e lacuna etica. Radicato nel calvario della depredazione coloniale della periferia latinoamericana, Dussel colloca l’alienazione capitalista all’interno di un edificio globale di dipendenza e coercizione (Dussel, 2013; Dussel, 2008).
Nella sua esegesi dei Grundrisse di Marx, Dussel nomina la plusvalía come la rivelazione cardinale di Marx: la superfluità del valore generato nella produzione al di là della sussistenza indispensabile del lavoratore. A differenza degli economisti classici (ad esempio Ricardo o Smith), che equiparavano il surplus al profitto, Dussel sottolinea che la plusvalía deriva dal Meharbeit, ovvero dal prolungamento forzato della giornata lavorativa oltre il tempo necessario per il reintegro del salario. Il capitale offre moneta e ingegnosità, ma solo il lavoro vivo – la potenza incarnata e generativa del lavoratore – produce un valore nuovo ex nihilo (Dussel, 2013).
Questa “fonte vivente di valore” (lebendige Quelle des Werts), sostiene Dussel, mette a nudo l’antinomia metafisica del capitale: esso si presenta come auto-valorizzante, ma dipende da un oltraggio ontologico, l’assimilazione della vitalità umana in un plenum astratto. In questo caso, l’analisi di Dussel è in sintonia con quella di Heidegger e Marcuse: in entrambi i casi, la soggettività umana è ridotta a potenza operativa all’interno di un sistema ermetico – l’inquadramento di Heidegger, la politica amministrata di Marcuse e l’economia mondiale dell’esazione di Dussel.
Dussel distingue inoltre la plusvalía assoluta da quella relativa: la prima allunga il tempo di lavoro attraverso la coercizione pura, la seconda (prevalente nel capitalismo avanzato) aumenta la produttività per contrarre il lavoro necessario senza estensione temporale. In entrambi i casi, l’accumulo di valore cresce a dismisura mentre il lavoro vivo viene ridotto, fino a quando, paradossalmente, “l’autovalorizzazione diventa più difficile nella misura in cui è già stata valorizzata” (Dussel, 2013, p. xx). Il regime rasenta un vicolo cieco metafisico: l’accumulazione illimitata che si scontra con la finitezza della vita.
Per Dussel, il concetto di plusvalía non denota una semplice disparità economica, ma un’abiezione ontologica. L’apparente razionalità del capitale nasconde quella che egli definisce la “negatività della povertà”, ovvero la condizione di Armut assoluta, o totale emarginazione, che è il presupposto della genesi del valore (Dussel, 2013). Il lavoratore, privato di ogni mezzo e legame, sopravvive come Nicht-Kapital, ovvero come lavoro posto come “nulla assoluto”.
Questa prognosi converge con la descrizione heideggeriana della modernità come riduzione dell’Essere a riserva calcolabile. Entrambi vedono nella produzione un processo di Entwirklichung, ovvero di derealizzazione in cui il corpo vivente (Leiblichkeit) diventa il luogo dell’astrazione. Tuttavia, Dussel spinge la critica oltre l’ontologia verso l’etica: la plusvalía non è un tropo economico imparziale, ma uno skandalon morale. La logica del capitale valuta il lavoratore “come capitale” — una forza generativa per la mera sopravvivenza — piuttosto che come un essere dotato di dignità, contravvenendo all’imperativo categorico di Kant nella sua forma più viscerale.
La “coscienza felice” di Marcuse si manifesta qui come il rivestimento ideologico di una lesione più profonda: la parvenza di parità del baratto salariale nasconde la brutalità del lavoro non retribuito; la compiacenza del Nord globale poggia sulla superfluità espropriata del Sud. Laddove Heidegger smaschera l’oblio dell’Essere e Marcuse la sottomissione del desiderio, Dussel rivela lo squilibrio planetario che rende possibile l’ordine.
Attraverso l’ottica di Dussel, il lavoratore di Heidegger assume una statura planetaria. Il Gestell della modernità trascende l’Europa, incarnandosi nell’architettura centro-periferia del capitalismo globale. L’inquadramento tecnologico della physis corrisponde all’inquadramento geopolitico del Sud: intere politiche sono rese come riserva permanente per la produzione transnazionale.
La “missione civilizzatrice” del capitale, che Marx delineava con ambivalenza, si svela nella critica di Dussel come una prassi biforcuta di incorporazione e cancellazione. Essa universalizza la produttività e la scientia, mentre sventra i mondi di vita ancestrali e gli oikoi comunitari. Questa traiettoria, sostiene Dussel – prefigurando Para una ética de la liberación latinoamericana (1973) e Twenty Theses on Politics (2008) – costituisce la quintessenza etica della colonialità: la trasfigurazione di popoli vitali in apparati di valorizzazione (Dussel, 2008; Dussel, 2013). In questa luce, l’ontologia del lavoro di Heidegger e la dottrina della vita amministrata di Marcuse trovano una concretizzazione empirica negli apparati della rapina imperiale e della servitù globale, richiamando il lamento di Arendt per la vita attiva pervertita in mero lavoro senza permanenza terrena.
Heidegger, Marcuse e Dussel convergono su un unico aperçu: il nichilismo della modernità non è umorismo astratto, ma una oikonomia totalizzante – ontologica, psicologica ed etica – che trasforma l’Essere, l’eros e il bios in produzione. Tuttavia, ciascuno di essi suggerisce anche una trascendenza sub specie aeternitatis.
Per Heidegger, la via sta nella Gelassenheit, il sereno distacco dalla Wille zur Macht. Per Marcuse, l’emancipazione richiede il Grande Rifiuto: la rivendicazione della fantasia critica contro la restrizione del ragionamento unidimensionale (Marcuse, 1964). Per Dussel, la manomissione inizia dall’esteriorità dei subalterni, il vantaggio di coloro che sono stati espulsi dal plenum del capitale. Mentre la Gelassenheit di Heidegger dispiega l’Essere oltre l’aritmetica, l’esteriorità di Dussel dispiega l’etica oltre la totalità: un fecondo chiasmo che converte l’ontologia in Verantwortung.
La liberazione fiorisce quando la dignità generativa del lavoro in eccesso – la fonte vivente del valore – viene ripresa non per accumularla, ma per la koinonia, l’efflorescenza comunitaria. Il “materialismo etico” di Dussel riformula l’interrogazione dell’Essere come un richiamo etico dall’Altro, imponendo la trasmutazione della produzione in praxis per la zoē. Mentre la critica di Heidegger culmina in un’apertura contemplativa, quella di Dussel culmina in un dovere tangibile. L’incarico non è solo quello di meditare sull’Essere, ma di emanciparlo: un invito che risuona con la giustizia rawlsiana come equità, ma influenzato dal prisma dell’agon periferico.
Il lavoratore di Heidegger, l’abitante unidimensionale di Marcuse e il lavoratore sfruttato di Dussel forgiamo una triadica phronesis contro il nichilismo della modernità. Ciascuno smaschera un aspetto distinto dello stesso telos: la vita ridotta all’utilità, la libertà alla funzione, l’Essere al quantum. Eppure la loro sintesi apre anche un varco verso l’anabasi.
Affrontando il Léthe dell’Essere (Heidegger), la narcotizzazione del desiderio (Marcuse) e l’occultamento etico degli indigenti (Dussel), la filosofia rianima il suo telos emancipatorio. La Gestalt del lavoratore si proclama non solo come apoteosi del nichilismo, ma anche come sua potenziale katabasis.
Il primo passo verso questa liberazione, come ammonisce Marcuse, è discernere il panopticon; come esorta Heidegger, soffrire l’Essere gelassen; e come insegna Dussel, ascoltare il klagē dell’Altro. Solo così l’umanità potrà riappropriarsi della physis del lavoro per un kosmos veramente umano: un’economia della temporalità orientata verso l’equità, la poiesis e l’eudaimonia al di là della mera valorizzazione.
Riferimenti
Dussel, E. (2008), “Twenty Theses on Politics”, Duke University Press.
Dussel, E. (2013), “Ethics of Liberation in the Age of Globalization and Exclusion”, Duke University Press.
Heidegger, M. (1999), “Nietzsche, Vol. IV: Nihilism”, traduzione di F. A. Capuzzi, HarperCollins.
Heidegger, M. (2001), “The Question Concerning Technology and Other Essays”, traduzione di W. Lovitt, Harper & Row.
Heidegger, M. (2012), “The Event”, traduzione di R. Rojcewicz, Indiana University Press.
Jünger, E. (1932), “Der Arbeiter: Herrschaft und Gestalt”, Hanseatische Verlagsanstalt.
Marcuse, H. (1964), “One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society”, Beacon Press.
Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/nichilismo-alienazione-e-liberazione-nella-modernita





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