Honduras: ingerenze, narcotraffico e il fallimento di un cambiamento politico
di LA FIONDA (Nazareno Galié)

Era il 15 febbraio del 2022: l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández (d’ora innanzi JOH) era un uomo finito. Mi trovavo a Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras; ricordo molto bene la luminosità di quella giornata, che definiva i contorni delle strade e degli edifici di quella metropoli serpentiforme. Una giornata relativamente tranquilla, in un Paese a lungo sofferente a causa di una condizione economica disastrata, caratterizzata dal sottosviluppo e dalla dipendenza. Nonostante fosse stato appena rimosso dal potere, JOH era abbastanza tranquillo. Si parlava insistentemente di una sua eventuale fuga. Le accuse contro di lui erano, in effetti, contundenti. Senonché, con un’accelerazione inaspettata, il caudillo deposto veniva catturato dalla polizia militare. Si trovava nella sua mansione, un’abitazione lussuosa a paragone con le povere e umili abitazioni di Tegucigalpa, un Paese in cui quasi metà della popolazione vive lambendo la soglia della povertà assoluta. Già nel pomeriggio, JOH veniva mostrato alla stampa con i polsi incatenati. Era trattato come se fosse un animale da circo. Era la caduta di un politico ambizioso, che aveva raggiunto la cuspide del potere e della ricchezza in Centroamerica. Era un uomo su cui tramontava il sole.
Personalmente, non ritenevo che fosse un momento di festa, nonostante il fatto che quella cattura allievasse il dolore causato dal bisogno di giustizia di una popolazione a lungo repressa. Nondimeno, l’ordine d’arresto proveniva dagli Stati Uniti e concordavo pienamente con quanto disse, qualche giorno dopo, il presidente messicano Obrador. Secondo quest’ultimo, leader del movimento popolare Morena e fiero difensore dell’indipendenza messicana dalle politiche imperiali, lo spettacolo mediatico dell’arresto di JOH rappresentava una messinscena indecente, in quanto rispondeva a una logica di ingerenza che indeboliva la dignità e la sovranità dell’Honduras, già da molto tempo ferita.
Eppure, quel giorno, per le ragioni che presto diremo, Tegucigalpa era in festa e celebrava quel momento dall’alto valore simbolico con grande entusiasmo. Migliaia di persone si riversavano in piazza e si aveva l’impressione che un intero Paese si fosse liberato da un peso. Per chi non ne conoscesse la storia, era certo incomprensibile. Tuttavia, gli honduregni avevano più di una ragione per festeggiare.
D’altronde, il destino di colui che per più di dieci anni aveva governato spietatamente l’Honduras sembrava segnato per sempre. Qualche mese dopo (il 21 aprile dello stesso anno), obbedendo all’ordine di estradizione statunitense, le autorità honduregne consegnavano JOH ai nordamericani. Sarebbe stato rinchiuso in una cella di pochi metri quadrati: simbolo plastico della precarietà delle vicende umane, materia per un poema sulla transitorietà del potere.
Subito dopo, contro di lui iniziò un atteso processo. Il fatto che fosse implicato nel narcotraffico era abbastanza noto e il risultato scontato. Infatti, JOH venne condannato (nel 2024) da un tribunale distrettuale a quasi 50 anni di prigione. Era chiaro che non ne sarebbe uscito vivo. La fine della pena era prevista per il 2060.
Con tutte le sue contraddizioni, la giustizia americana era considerata irreprensibile, soprattutto nei confronti di chi si era macchiato di determinati delitti. Per JOH, che aveva favorito il narcotraffico oltremisura, si trattava di una storia chiusa. Ne aveva beneficiato personalmente, trasformando il Paese in un narcostato. Per anni aveva fatto da intermediario tra i fornitori sudamericani e i cartelli messicani, sfruttando la posizione strategica del Paese centroamericano, un corridoio inevitabile nella comunicazione terrestre tra il Nord e il Sud America. Lo aveva fatto scientemente, accumulando immense ricchezze. Inoltre, quei soldi avevano aumentato la presa del suo partito (Partido Nacional) sull’intero Paese. Anche tanti altri dirigenti nazionalisti erano stati implicati in questi oscuri affari, tra cui il fratello dell’ex presidente.
Nondimeno, in Honduras, la gioia per l’arresto di JOH non era legata soltanto al fatto che si fosse consegnato alla giustizia un narcotrafficante. JOH aveva governato la disperazione dell’Honduras per quasi dieci anni, andando al potere pochi anni dopo il colpo di Stato che nel 2009 aveva rimosso illegalmente dalla presidenza, sotto la pressione degli Stati Uniti e con la complicità delle oligarchie locali, Manuel Zelaya, un politico proveniente dal liberalismo e attento alle istanze popolari. Sicuramente, nella rimozione di Zelaya, favorita allora da Barack Obama con una sorta di silenzio-assenso che sembrò più di una benedizione, aveva pesato l’avvicinamento del politico honduregno ai governi anti-imperialisti della regione: in primis Cuba, Venezuela e Nicaragua. L’Honduras aveva da sempre rappresentato una “pedina” importante per la geopolitica statunitense nella regione. Al di là della posizione strategica, cui si è accennato, il Paese aveva costituito un importante retroterra nelle operazioni condotte dagli Usa e dalla CIA a cavallo degli anni ’80 contro le rivoluzioni in Nicaragua, Salvador e Guatemala. Lì furono addestrati e reclutati i Contras: spietati gruppi paramilitari votati alla controinsorgenza. Per inciso, questi ultimi furono implicati in una serie di scandali legati al narcotraffico, in quanto i Contras furono finanziati dalla CIA attraverso uno scambio documentato tra droga e armi. La vicenda fu raccontata dal giornalista premio Pulitzer Gary Webb, nel libro Dark Alliance. Webb, inopinatamente derubricato come suicidio, fu trovato ucciso con due colpi in testa.
Come accennato, a Zelaya non vennero perdonate varie cose, tra cui il fatto di aver promosso una timida riforma agraria e l’aumento del salario minimo: misure necessarie in uno dei Paesi più poveri delle Americhe.
Si arriva così alla presidenza di JOH che, dopo una serie di peripezie istituzionali e inganni politici che sarebbe troppo lungo raccontare, a partire dal 2014 governò non del tutto legalmente il Paese. In questo periodo l’Honduras vide l’aumento esponenziale della conflittualità sociale, che il mandatario fece reprimere nel sangue. Era consueto che, durante le proteste, i manifestanti che chiedevano più diritti sociali fossero massacrati. Furono implementate politiche neoliberiste che impoverirono ancora di più i settori popolari. Inoltre, il delicato ecosistema honduregno fu compromesso da una politica economica estrattivista che non si curò delle innumerevoli esternalità negative prodotte dall’inquinamento e dalla deforestazione. Molti leader sociali, la più nota fu Berta Cáceres, vennero assassinati da veri e propri squadroni della morte, la cui vicinanza sia ad ambienti padronali che governativi era abbastanza insinuata.
Nonostante l’aumento della pressione sociale, JOH si fece rieleggere, con tanti sospetti di frode, nel 2016, violando implicitamente la Costituzione, la quale prevedeva — come per molti Paesi dell’area — soltanto un mandato. Inoltre, l’Honduras registrò, principalmente a causa del narcotraffico di cui, come accennato, JOH era considerato l’agente principale, un’esplosione della violenza criminale, diventando in poco tempo uno dei Paesi più insicuri del mondo. Primo nelle classifiche internazionali, l’Honduras registrava spesso in quegli anni un tasso di omicidi superiore a quello dei Paesi in guerra, come la Libia, la Siria e l’Afghanistan.
Quella violenza era promossa soprattutto dalle “maras”, organizzazioni e bande criminali che si contendevano il controllo del territorio con il traffico di droga e le estorsioni. Si tratta di un fenomeno tipico dell’America Centrale, le cui origini risalgono agli anni ’80. In questo contesto, occorre ricordare un episodio che contrassegnò l’arresto di JOH. È noto che le maras, come molte mafie, posseggano dei veri e propri codici iniziatici. Quel 15 febbraio JOH sembrò mimarli, davanti alle telecamere, nel momento in cui venne arrestato: nonostante le catene, riuscì a fare degli strani segni con le mani. Alcuni criminologi credettero di poterne decriptare il significato. Secondo loro, JOH stava comunicando una specie di fermezza: non avrebbe parlato. Anche se per tutti si trattava di un uomo finito.
Quel giorno, come si è detto, gli honduregni scesero nelle piazze per una festa comunitaria dal forte sapore di rivincita. Per loro sembrava aprirsi una nuova era, anche se difficile e piena di incognite.
Qualche mese prima, nel novembre del 2021, il Partido Nacional di JOH aveva perso le elezioni ed era stata eletta Xiomara Castro. Sposa di Manuel Zelaya, il presidente rimosso dai golpisti, era stata candidata da un partito popolare, LIBRE — cioè Libertà e Rifondazione — nato dalle proteste e dalle manifestazioni esplose durante la dittatura cachureca (“cachurecos” è il nome con il quale in Honduras vengono chiamati i nazionalisti). Sarebbe stato duro fare uscire dalla crisi un Paese distrutto e martoriato dal narcotraffico e dalla dipendenza economica. Inoltre, la politica di JOH prevedeva lo smembramento del Paese in zone economiche speciali (ZEDES: Zonas de empleo y desarollo económico), con giurisdizione propria, di fatto svendute al capitale straniero. Si trattava di balcanizzare il Paese, che sarebbe stato privato delle aree più ricche di risorse naturali, in cui non sarebbero valsi i vincoli ambientali e la legislazione sul lavoro. Un progetto auto-colonialista che avrebbe arricchito le élite al potere e gli investitori internazionali, in primis statunitensi. In questa situazione, non è un caso che la maggioranza della popolazione honduregna vedesse la propria salvezza soltanto nell’emigrazione. In quegli anni si parlava molto delle cosiddette “caravane”, cioè le lunghe traversate che migliaia di honduregni effettuavano verso gli Usa alla ricerca di lavoro e per sfuggire alla violenza delle maras.
Nondimeno, il giorno delle elezioni che videro la vittoria di Xiomara Castro, Tegucigalpa si era tinta di rosso (il colore di LIBRE e, ovviamente, del socialismo) e la stragrande maggioranza del popolo, vittimizzato dal neoliberismo, si era ritrovata nelle strade con la speranza di una primavera che aspettava da troppi anni.
Sono passati quattro anni da quel giorno e, in effetti, la primavera è di nuovo tornata: non per il popolo honduregno, ma per JOH. Accusato di aver fatto transitare negli Stati Uniti più cocaina del Chapo Guzmán e forse di Pablo Escobar, l’ex presidente-dittatore honduregno è stato beneficiato dell’attenzione di Donald Trump. A fine novembre, l’imprevedibile presidente americano ha detto di voler concedere la grazia al noto narcotrafficante. Negli stessi giorni in cui minacciava (come sta continuando a fare) un intero popolo, quello venezuelano, per lo stesso delitto, benché non provato, a carico di Nicolás Maduro.
Il 2 dicembre di quest’anno, JOH è stato rilasciato ed è tornato in piena libertà. Un’ipocrisia talmente evidente, una contraddizione così lampante, che tutto il sistema mediatico mainstream, se non fosse così corrotto, avrebbe di certo denunciato.
La scorsa domenica si è, inoltre, votato in Honduras e il partito di Xiomara (LIBRE) non è riuscito a vincere per una seconda volta. Sembra che sarà eletto Tito Asfura (gli spogli sono incredibilmente ancora in corso, aumentando a dismisura i sospetti per eventuali brogli), già sindaco di Tegucigalpa e braccio destro di Juan Orlando Hernández. Un personaggio mediocre e privo di spessore politico e culturale.
Le cause della sconfitta di LIBRE sono molteplici e non tutte evidenti. Al netto dei brogli, che a questo punto sono quasi certi, sicuramente ha inciso la lentezza e, a tratti, l’incertezza delle trasformazioni promosse da Xiomara. Va detto che non era facile e che le resistenze interne che ha incontrato sono state immense. Le stesse maras sono state probabilmente mobilitate per intensificare la sensazione di insicurezza della popolazione, attraverso dinamiche non troppo dissimili da quelle della Strategia della tensione italiana. Sono ricominciati gli omicidi su larga scala. E la presidente è stata spesso costretta a proclamare lo stato d’eccezione. Inoltre, la pervasività del capitale straniero, che controlla il sistema mediatico, ha lavorato continuamente per ostacolare quelle riforme sociali di cui il Paese centroamericano aveva enorme bisogno.
La candidata di LIBRE, Rixi Moncada — Xiomara, a differenza di JOH, non si è ricandidata e nemmeno ha scatenato la polizia contro la piazza come fece quest’ultimo nel 2016, causando decine di morti — non è certo riuscita a intercettare il sentimento del popolo honduregno. LIBRE non è mai stata in grado di consolidare una vera e propria egemonia. La candidatura dell’ineffabile Nasralla, politico di lungo corso e commentatore televisivo delle partite di calcio della selezione honduregna, ha diviso i voti della sinistra con un programma decisamente liberista, pur mascherato dai luoghi comuni del più becero populismo attuale.
Senonché, è stato decisivo, insieme alle solite estorsioni e minacce delle maras, l’intervento a gamba tesa di Trump, che nelle ultime settimane si è ricordato dell’Honduras. Anche se — è lecito pensarlo — su suggerimento di qualcuno che segue la politica estera di un presidente che probabilmente non è in grado di collocare il Paese centroamericano sulla mappa geografica. Innanzitutto, Trump ha definito l’Honduras come un Paese “bello”. Il colmo dell’ipocrisia se si pensa a come il magnate abbia costruito la propria carriera politica promettendo la deportazione violenta dei latinos in generale e degli honduregni in particolare. Questi ultimi, come abbiamo visto, sono stati costretti ad emigrare anche a causa delle politiche economiche imposte da Washington nel periodo di JOH.
Trump ha, infatti, apertamente promesso di collaborare e finanziare (come aveva fatto poco tempo fa con il ridicolo Milei in Argentina) un eventuale governo nazionalista, con a capo Asfura. Un personaggio dozzinale che ama farsi chiamare “Papi a la orden”, cioè “papi a disposizione”.
Inoltre, l’uomo forte del regime di Washington ha utilizzato la stessa retorica che sta usando contro il Venezuela, accusando Rixi Moncada di narco-chavismo, o narco-castrismo. Di fatto, considerando la liberazione del narcotrafficante JOH da parte di Trump, sembra uno scherzo.
Certo, se tutto ciò, da un lato, ha dimostrato per l’ennesima volta le capacità egemoniche e di manipolazione mediatica dell’impero in America Latina, dall’altro ha dato un insegnamento chiaro: la violenza e la pirateria internazionale pagano. Se JOH fosse stato processato in Honduras e se su di lui fosse calata la mannaia della giustizia honduregna, le cose sarebbero forse andate diversamente. Data la pochezza di Tito Asfura, sarà di fatto JOH a governare. L’analisi di Obrador, infatti, era corretta. Nulla di buono poteva nascere da un’ingerenza così palese: non è possibile delegare ad altri la risoluzione dei propri problemi, specialmente se questi altri ne sono la causa efficiente.
Questi sono alcuni dei giorni più tristi per il Paese centroamericano.





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