Salari, scala mobile e produttività.
Discutendo di abbandono della moneta unica, spesso ci si ritrova a dover sottolineare pregi e difetti di ipotetiche vie di uscita che siano etichettate “di destra” o “di sinistra”.
Una delle caratteristiche che distingue la seconda dalla prima è sicuramente l'ipotesi di un ripristino di un qualche meccanismo di indicizzazione dei salari, che li mettesse al riparo da eventuali perdite, di potere d'acquisto, dovute ad un aumento incontrollato dei prezzi.
Spesso si fa riferimento a cosa accadde alla quota dei salari sul PIL dopo l'uscita, temporanea, della lira italiana dal sistema monetario europeo.
Grafico 1
Come è facile riscontrare, dal 1992, anno dello sganciamento, c'è stata una vistosa picchiata del suddetto indicatore, passando dal 45% a poco più del 41%, segnando una perdita di quasi 4 punti percentuali.
Ora, lo scopo di questo articolo, è quello di far luce sul presunto contributo della scala mobile al mantenimento ad un valore stabile di tale quota.
E' bene ricordare che tale meccanismo, noto anche come indennità di contingenza, venne introdotto nel 1975 rimanendo in vigore fino al 1992, subendo una maggiore modifica, nel 1984, con un taglio di 4 punti di indicizzazione per contenere la spirale inflazionistica, della quale venne ritenuto responsabile.
Tale assunto si basa sul presupposto che, se i salari aumentano più del livello della produttività, i datori di lavoro, per difendere i profitti, finirebbero per aumentare i prezzi, dando vita, appunto, un ciclo inflativo infinito.
Tornando al grafico 1, risulta evidente come la quota dei salari sul PIL sia rapidamente cresciuta dal 41% del 1960, all'oltre 51% del 1975, per poi declinare fino ad un minimo del 39% del 2000, per poi risalire ed assestarsi a poco meno del 43%.
Questo è un fatto che a molti potrebbe lasciare perplessi, dato il famigerato livello di inflazione che c'era negli anni '70, dove si riscontrano i livelli salariali più favorevoli ai lavoratori, sempre in rapporto al PIL.
Grafico 2
Una spiegazione è possibile darla analizzando il grafico 2, che mette in relazione la variazione percentuale dei salari nominali unitari con quella del deflatore del PIL, preso come indice di crescita di tutti i prezzi.
La prima cosa che salta all'occhio è quanto, nei primi due decenni esaminati, i salari unitari medi fossero cresciuti più dell'inflazione e come, raramente, essi fossero scesi al di sotto di tale livello nei tre successivi.
Questo fa supporre che, il calo della quota salari, ragionando in media, non sia certo dovuto ad una mancata indicizzazione degli stessi, se non per episodi rilevanti come quello del 1998, quando vi fu una flessione delle retribuzioni reali unitarie di circa il 4%.
[Nel caso ideale di un’indicizzazione al 100%, la linea arancione avrebbe sempre seguito un andamento sovrapponibile a quella verde tratteggiata.]
La causa di questo calo, però, possiamo trovarla esaminando il grafico 3, relativo alle componenti che vanno a determinare il costo del lavoro per unità di prodotto, espresse come PIL per lavoratore e salario unitario, espressi in termini reali, ed il numero totale degli occupati, tenendo conto dei valori equivalenti ai contratti a tempo pieno.
[Per facilitare la lettura dei dati, sono state aggiunte delle linee di tendenza, che vanno ad approssimarne l’andamento.]
Grafico 3
Il dato di rilievo emerge dal confronto tra la crescita dei salari reali unitari e quelli del PIL reale unitario, preso come indice di produttività. Servendoci delle linee di tendenza possiamo notare come l'andamento dei due indicatori sia molto ravvicinato nei primi due decenni in esame, seppur con salari cresciuti ad un ritmo relativamente maggiore, per poi divergere negli anni 80 e 90, con produttività mediamente cresciuta più dei salari, per poi procedere, a parti invertite, con salari unitari reali in moderata crescita e produttività unitaria in calo.
Questo significa che, tenendo presente l'andamento del grafico 1, in tutti i periodi in cui i salari unitari sono cresciuti meno della produttività per lavoratore, la quota salari sul PIL ha perso terreno.
Tornando, nel dettaglio, al periodo post svalutazione del 1992, possiamo verificare come le imprese, non riuscendo a ridurre i salari in modo significativo, abbiano prima fatto ricorso a massicci licenziamenti. Il risultato fu che la crescita dei salari rallentò e, nel 1995, divenne negativa di mezzo punto percentuale. Al contempo, la boccata d'ossigeno che diede la svalutazione alla nostra economia, fu a beneficio particolare delle imprese che poterono godere di quote maggiori di profitti.
Nel 1998 si verificò un evento simile, ma con salari reali unitari in picchiata e livello occupazionale in tenuta.
In entrambe le situazioni, si assistette, nella sostanza, a delle svalutazioni interne a danno dei lavoratori salariati.
Durante l'esperienza della moneta unica, presumibilmente a causa degli afflussi di capitale estero, si verifica un miglioramento del tasso di occupazione, un ritorno alla crescita dei salari ed, in misura minore, dei profitti delle imprese.
Tale situazione, però, subisce un grave colpo nel 2009, portando le imprese, nei tre anni successivi, a dover licenziare per cercare di ridurre il costo del lavoro, senza poter beneficiare dei guadagni in termini di competitività di prezzo dati dalla flessibilità del cambio e senza poter beneficiare del credito da parte delle banche.
In tutto questo, l'assenza di una indicizzazione dei salari, facendo riferimento ai valori medi dei salari reali unitari, pare ricoprire un ruolo davvero marginale.
Sembra più concreto l'apporto dato dal connubio di rigidità di cambio, liberalizzazione dei movimenti dei capitali e deregolamentazione del mercato del lavoro che hanno, dal finire degli anni '70, reso i lavoratori salariati sempre meno protetti, perdendo potere contrattuale e diventando unico elemento di flessibilità, nella vana ricerca di intercettare quote di una domanda estera che appare in complessivo calo.
Antonello Nusca – ARS Abruzzo
In questo video, al minuto 4'49'', registrato il 9 maggio 2014 nel corso di un incontro promosso dalla sezione frusinate dell'ARS, nel rispondere a un compagno internazionalista che poneva la questione della scala mobile, argomentavo che questa non solo è inutile, ma addirittura contraria agli interessi dei lavoratori perché, rendendo automatici gli adeguamenti salariali, finisce con l'addormentare la combattività dei sindacati. Tanto è vero che lo stesso Agnelli era favorevole all'indicizzazione dei salari all'inflazione. Solo qualche anno più tardi, con l'ingresso nello SME, il divorzio Tesoro-BdI e la svolta monetarista della FED, le cose cambiarono talmente in peggio da far apparire la scala mobile come una conquista, invece che come l'inizio della fine della capacità contrattuale dei lavoratori.
Il tuo articolo, laddove evidenzia lo scarso ruolo della scala mobile nella difesa della quota salari, è un ulteriore elemento a favore della tesi da me esposta in quell'occasione.
C'è una frase che mi piace usare particolarmente: l'inflazione siamo noi!
Esistono due elementi che possono causare un picco di inflazione: uno shock sull disponibilità di materie prime (che è un evento piuttosto raro) oppure l'aumento del costo del lavoro. In altre parole, le retribuzioni dei lavoratori.
La paura che, senza un meccanismo di indicizzazione dei salari ai prezzi, il potere di acquisto dei lavoratori venga intaccato è un'inversione logica, perché solitamente è proprio l'aumento dei salari a causare l'aumento dei prezzi.
E cosa determina allora l'aumento dei salari? La legge della domanda e dell'offerta, come con qualsiasi altra entità economica. Se le imprese devono contendersi i lavoratori (magari perché è un ciclo economico favorevole, con una domanda aggregata sostenuta e quindi con molte vendite), sono costrette a battagliare per evitare che passino alla concorrenza, strappando condizioni migliori. Se sono i lavoratori a doversi contendere un lavoro,le imprese possono pagarli un tozzo di pane. In fondo per molti lavorare è l'unico modo di garantirsi la sopravvivenza.
Condivido quindi l'analisi dell'articolo sulla sostanziale inutilità di un ancoraggio dei salari all'inflazione. Mentre è fondamentale garantire un livello occupazionale molto alto per evitare di svalutare i salari e perdere davvero potere d'acquisto, pure in un quadro di inflazione stabilmente bassa.
Al signor Fraioli dico che se il battagliero bruno trentin(minuscolo di proposito) non avesse tolto la scala mobile non useremmo i risparmi dei ns genitori per sopravvivere ed avere i contratti bloccati da anche 10 anni.Ovvio che la troika avrebbe usato altri sistemi come aumento delle tasse sul lavoro e fallimento di aziende a volonta' salvate dallo Stato e debiti scaricati sulla collettivita'.Forse l'attualita' l'avremmo avuta gia' nel 2000-2001 e allora Fraioli non vorresti avere 10 anni in meno per la lotta politica.Al signor Cernuto dico che la domanda e l'offerta e'calibrata sulla produzione e merito,in Italia 80% occupati e' nei servizi che come saprai vanno garantiti a tutti e quindi si cerca di comprimere il costo che ricade poi su salari e consumi ed aspetto secondo me piu' importate impedisce di fare distinguo tra gli addetti fregandosene della scolarizzazione e competenze anzi favorendo la mediocrita' perche' il mediocre non si ribella.
Saluti ad entrambi