Sulla liberaldemocrazia: una riflessione critica
Una delle domande cruciali alla quale la filosofia politica tenta di dare da sempre una risposta è la seguente: la democrazia può davvero esistere nella sua forma più pura? La risposta è no, considerando la forma che la democrazia stessa assume in aggregati di vaste dimensioni. La risposta vira verso il sì se invece cominciamo a considerarla in contesti molto più ristretti. Può sembrare ovvio, ma, al netto dell’insopportabile e vuota retorica che ci investe incessantemente per convincerci che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, ci sembra doveroso cercare di descrivere ciò che realmente si deve intendere quando si parla di una moderna democrazia.
Con la nascita dello Stato moderno, il concetto quasi utopistico e ideale di una democrazia diretta, assembleare, sulla scia di quella degli antichi per intenderci, è divenuto un obiettivo irrealizzabile, semplicemente impossibile. Le democrazie su larga scala richiedono una strutturazione differente, la quale comporta, irrimediabilmente, una distorsione del principio democratico, della sua intima e intrinseca essenza.
Tra democrazia ideale, insomma, e democrazia reale occorre istituire un ibrido che sancisca il compromesso necessario tra utopia e realtà. E occorre altresì realizzare un istituto che funga da filtro, essendo il governo di tutti reso impossibile da evidenti e insormontabili ostacoli numerici (ve la immaginate un’assemblea di un milione di persone, tutte con uguale diritto a prendere la parola?) e geografici (estensione territoriale e dispersione demografica nei grandi Stati moderni).
Siamo di fronte ad una legge ferrea tale per cui quanto più alto è il numero dei cittadini appartenenti ad un sistema formalmente democratico, tanto minore, paradossalmente, sarà per essi la possibilità di partecipare direttamente alla presa delle decisioni di governo, insorgendo quindi la necessità di delegare ad altri questa funzione.
Ecco dunque che si inventa (anzi, si prende in prestito dai regimi monarchici) l’istituto della rappresentanza, affinché i componenti del corpo sociale possano essere rappresentati da un esiguo numero di individui in sede di potere decisionale. Accettando la soluzione della rappresentanza si estinguono automaticamente i limiti dimensionali di una comunità democratica, potendo il governo rappresentativo essere istituito per governare potenzialmente su un territorio illimitato, con un numero di abitanti altrettanto illimitato.
In questo modo, lo snodo centrale del sistema democratico-rappresentativo è costituito dalle libere elezioni, unico metodo capace di garantire a tutti quel minimo di partecipazione tale per poter definire il sistema politico come democratico. Ovviamente però, la presenza di libere elezioni è un elemento necessario, ma non sufficiente per determinare il grado di democraticità di un sistema, e di punti critici, nei moderni assetti democratici, ve ne sono parecchi. Analizziamoli brevemente.
I limiti della democrazia liberal-elezionistica
Nessuno può seriamente contestare che nonostante le grandi proclamazioni di principio sul valore della democrazia, noi viviamo sotto regimi oligarchici nei quali le grandi decisioni che riguardano la vita di tutti sono di fatto e spesso anche di diritto precluse alla grande maggioranza dei cittadini…Sebbene in tutti gli Stati occidentali e in tutte le costituzioni si proclami la sovranità popolare, il popolo è il grande assente della teoria e della prassi democratica.
(G. Cantarano, Tecnica, politica, democrazia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, p. 21-22)
Nonostante appaia come un brillante esempio di ingegneria costituzionale, la democrazia rappresentativa non gode di apprezzamenti unanimi e gli attacchi nei suoi confronti sono favoriti dall’attuale distorsione del nostro sistema socio-economico, sempre più in mano a onnipotenti plutocrazie.
Si va dagli strali più virulenti a quelli maggiormente mediati da una sana dose di realismo, ma la sostanza non cambia molto ed è rappresentata dalla constatazione che, più che di regime democratico, occorrerebbe parlare di regime oligarchico per designare le modalità attraverso cui le nostre società si strutturano.
Una tale constatazione non è una conquista recente della scienza politica, ma nasce con quest’ultima e, nello specifico, con le puntuali ed empiricamente fondate analisi dei teorici della scuola elitista. Logicamente, quando parliamo di democrazia, dobbiamo dunque specificare cosa intendiamo per essa. Se auspichiamo, da puri fondamentalisti, di scovare e realizzare la democrazia intesa nel suo senso etimologico, classico, resteremo inevitabilmente delusi da un sicuro fallimento. Ma vi sono “puristi” della democrazia per i quali essa, così com’è stata attualmente declinata, è semplicemente un falso. Lo stesso ciclo elettorale viene considerato come un’aberrazione tramite la quale il consenso degli elettori si compra attraverso un voto, come la verdura al mercato e, certamente, ridotta in questi termini, la democrazia appare indubbiamente come qualcosa di ben misero e poco attraente. Questo è un punto importante perché una possibile degenerazione di una mera democrazia elezionistica è la riduzione della politica a puro mercato dei voti, con la trasformazione dei partiti in partiti “pigliatutto” e con la conseguenza della perdita di una propria, solida e netta identità ideologica e programmatica.
Ma i difetti dell’odierno sistema democratico sono tanti e tra essi vi è l’assoluta mancanza di una valida selezione della classe politica; tutti, si dice, hanno il diritto di fare politica e di rappresentare il popolo. Noi crediamo che questa sia un’affermazione profondamente errata, concausa del degrado di questa creatura, la politica appunto, nella quale i processi di selezione delle classi dirigenti sono oscuri, burocratici, autoreferenziali. Il politico migliore, in democrazia, è quello senza qualità, cioè il più adattabile, il più ser(vile). La “democrazia dei moderni”, insomma, favorisce inevitabilmente il sorgere di oligarchie di mediocri: è il governo della mediocrità. Pertanto, crediamo che la classe politica debba essere selezionata accuratamente; d’altronde, non si capisce perché un medico o un ingegnere debbano dimostrare (giustamente) di saper curare malati e costruire edifici mentre un politico, al contrario, possa essere un potenziale analfabeta. In fondo, che sarà mai, dovrà solo contribuire a reggere le sorti dello Stato (che infatti è una specie in via di estinzione).
Il piano dell’opinione pubblica è poi un altro punto dolente, laddove gli organi che contano maggiormente nella costruzione del consenso sono spesso e volentieri controllati da grandi potentati economici, cioè da oligarchie legate da un intreccio di interessi a quelle politiche. Su questo terreno, inoltre, l’influenza crescente esercitata dalla televisione rispetto ad altri canali informativi, pur espandendo quantitativamente i flussi di informazioni, li impoverisce drammaticamente dal punto di vista qualitativo, con ricadute pessime sulla costruzione dell’opinione pubblica medesima. Per questi motivi, dobbiamo guardare con diffidenza alle proposte di rinnovamento democratico che auspicano l’avvento di una democrazia “referendaria” o elettronica, ormai fattibilissima sotto il profilo tecnologico. Con essa, premendo semplicemente un pulsante sulla tastiera di un computer, non si deciderebbero più i decisori delle decisioni, ma si prenderebbero direttamente le decisioni stesse; il pericolo, evidente, è che queste vengano assunte senza la necessaria conoscenza della materia in questione. Il problema di fondo è che la massa tende, in politica, ad esprimersi sull’onda di impulsi emotivi, raramente mediati da una razionale disamina delle problematiche. L’opinione fluisce in modo epidermico, superficiale, approssimativo; e una tale tendenza è favorita dall’ormai avvenuto passaggio da una cultura fondata su ciò che è letto (e quindi mediato dalla riflessione e dal pensiero) ad una cultura fondata su ciò che è visto (immediata, stereotipata, senza filtri intellettuali), determinata da una trasformazione antropologica che conduce, secondo una definizione di Sartori, dall’homo sapiens all’homo videns.
Un ulteriore spunto di riflessione critica discende poi dall’analisi di uno dei moderni cardini della teoria democratica: il principio maggioritario. A tal proposito, Luciano Canfora afferma che uno strumento molto efficace a garanzia del potere delle oligarchie è la legge elettorale maggioritaria. Con essa
si costringe – il verbo può apparire ruvido, ma il risultato è quello – l’elettore a scegliere, se vuol esprimere un voto «utile», non indiscriminatamente, ma tra quelle determinate opzioni. E poiché le opzioni «utili» convergono verso il centro – la cui conquista è, nei paesi ricchi, la vera posta in gioco elettorale ̶ , è tendenziale che gli eletti siano, in larga misura, espressione degli orientamenti moderati; e che, dato il costo della elezione, appartengano, per lo più, ai ceti medio-alti, tradizionalmente moderati. Così si determina daccapo, per altra via, il fenomeno, caratteristico dell’epoca in cui vigeva il suffragio ristretto: l’emarginazione cioè dei ceti meno «competitivi» e il drastico ridimensionamento della loro rappresentanza.
(L. Canfora, Critica della retorica democratica, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 53)
Insomma, più astutamente rispetto al passato, alla limitazione diretta dei diritti altrui (suffragio ristretto) si sostituisce una limitazione indiretta facente leva proprio sulle leggi elettorali di tipo maggioritario. Tutto ciò, peraltro, è reso possibile dall’emancipazione di coloro che detengono i poteri decisionali dagli organi elettivi in quanto confortati dal plebiscito dei mercati, non da quello dei voti. La conferma di quest’ultimo assunto ci viene primariamente dalla constatazione della sostanziale identità di politiche dei governi che si alternano nei Paesi occidentali; identità che è il frutto della prevalenza delle oligarchie economiche rispetto ai soggetti politici nella presa delle decisioni ultime.
Per farla breve, la politica appare dunque come un mero mercato dove si comprano voti e si acquisisce il consenso di masse facilmente manipolabili e fondamentalmente impreparate sul piano della cultura politica medesima.
Democrazia e XXI secolo: un binomio incerto
Chiedendoci quale futuro ci aspetti, non possiamo fare a meno di sottolineare come l’odierna cultura liberal-democratica appaia come una cultura infiacchita, mediocre, creatrice di un uomo debole, pericolosamente impreparata ad affrontare i nuovi scenari planetari. Essa non è più trainata da potenti ideologie, non è più intrisa di valori netti e definiti che diano una direzione all’agire sociale, è la cornice di una società stanca, passiva e viziata che non sembra rendersi conto del pericoloso precipizio sul quale si sta affacciando.
In questo quadro, le stesse dinamiche globali non giocano a favore del rafforzamento dei regimi democratici per una pluralità di ragioni. La prima è che l’attuale ordine economico non sembra essere messo in discussione da valide alternative e il monetarismo imperante, unito ai meccanismi decisionali autoreferenziali delle plutocrazie mondiali, non promette certo di implementare gli spazi di partecipazione democratica. Strettamente connessa al fattore precedente è la globalizzazione; abbiamo già spiegato che l’aumento di scala non fa bene al principio democratico e, se la scala diventa mondiale, i gangli decisionali del sistema saranno sempre più traslati ad un livello internazionale, attraverso modalità completamente estranee ad ogni forma di partecipazione democratica.
Vi è, infine, la sfida dettata dall’educazione dei cittadini, che si traduce nella possibilità di costruire un’opinione pubblica che si edifichi attraverso filtri informativi validi. E, come abbiamo visto, la straripante crescita dei canali informativi non comporta necessariamente un’altrettanta crescita della competenza e della comprensione. Approssimazione nel giudizio e propaganda trovano terreno fertile in una situazione del genere.
In altre parole, la democrazia deve ancora dimostrare il suo successo perché le sfide più difficili da affrontare sono quelle affacciatesi sulla scena mondiale con l’apertura del nuovo millennio. La partita vera è ancora da giocare.
Oltre il liberalismo
La partita di cui sopra necessita il superamento dell’attuale cultura liberale, una cultura da ristrutturare. La democrazia, oggi, è un contenitore vuoto, privo di valori, e il liberalismo stesso deve assumersi grandi responsabilità se, come è accaduto, non è stato in grado di riempire quel contenitore con validi contenuti, fatti salvi quelli materiali, quantitativi, puramente mercantili.
Esso, pensato per condurre verso l’autorealizzazione dell’individuo, si è trasformato in una massocrazia ed è stato declinato in una maniera quantitativa anziché qualitativa. Paradossalmente, questa nuova foggia assunta dal liberalismo lo ha condotto a diventare il demiurgo di una società individualistica solo in apparenza, ma con un’essenza intimamente organicistica. Infatti, sotto una pur reale atomizzazione delle esistenze individuali si assiste, in realtà, ad una ricomposizione di queste ultime in un costrutto sociale fortemente omologante e dal quale è praticamente impossibile rendersi davvero autonomi, nonostante si creda di esserlo. In altre parole, ci troviamo in un sistema sub-totalitario che ci ingloba e che condiziona pesantemente tutta la nostra vita, incasellata in un paradigma totalmente economicistico del quale siamo prigionieri. Tutto ruota attorno al parametro economico e la nostra esistenza è definibile in base a criteri puramente quantitativi. E ad uscirne sconfitto e immiserito è l’uomo medesimo.
La sfida da affrontare sta dunque nel riuscire a ripristinare il criterio qualitativo come parametro per definire l’esistenza degli esseri umani, unica ricetta possibile per ricostruire una comunità coesa e intrisa di senso civico. Per il nostro Paese la strada è già stata tracciata anni orsono. Lo strumento non potrà che essere uno, il ripristino del dettato costituzionale, un esempio tra i più avanzati di “ingegneria” sociale ed economica, un faro di civiltà.
Occorre dunque riforgiare uno Stato forte e autorevole e, contestualmente, i suoi cittadini, i quali dovranno sentirsene parte inscindibile. In tal senso, vogliamo concludere con una frase di John Stuart Mill, una frase che è al tempo stesso un monito:
Il valore di uno Stato, alla lunga, è il valore degli individui che lo compongono…questo Stato si accorgerà che, con dei piccoli uomini, non si può realizzare nulla di veramente grande…
(J.S. Mill, La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, Milano, Rizzoli, 1999, p. 227)
L’ istituto democratico non può refeRENZIarsi: qualsiasi elezione che non superi un quorum semplice (o meglio qualificato) deve considerarsi invalidata così come accade per l’ istituto referendario. Il non voto è espressione oltre che di “divorzio” anche di dignitosa impossibilità sociale a prendere parte alla consultazione e quindi una democrazia non rettorica deve mettersi “ex-ante” in gioco per tali situazioni. Inoltre è impossibile pensare a rieleggibilità rappresentative: “gli uomini seguono le idee, non i leader”, ebbe -paradossalmente, col senno di poi- a dichiarare addirittura F.Castro Ruz durante il processo per i fatti dela Moncada. Due “colonne portanti” che sono perlopiù assenti nelle sedicenti democrazie (a dire il vero il suffisso “cratos” non lasciava presagire alcunchè di socialmente positivo…).
“La massa tende, in politica, ad esprimersi sull’onda di impulsi emotivi, raramente mediati da una razionale disamina delle problematiche”. A ben considerare, questa proposizione invalida l’idea stessa di democrazia: il popolo è irrazionale; se fosse chiamato a deliberare su ogni legge potrebbe anche distruggere se stesso. Bisogna dare dunque a “democrazia” un altro significato. Lo stato è democratico se tutela non le scelte che la maggioranza delle opinioni crede di volere, ma ciò che precede la possibilità stessa di scegliere e che TUTTI vogliono veramente: deve attuare cioè la volontà generale quale è espressa nei diritti costituzionali (la libertà della persona, l’educazione, il lavoro ecc.); il consenso elettorale è solo il riscontro della riuscita attuazione. Per riuscire nel suo compito lo stato deve essere SOVRANO, ossia occorre che non si faccia esecutore di nessuna volontà particolare, esterna o interna, ma sia il processo della loro mediazione intelligente in vista della volontà generale. Invece da molti anni le elezioni democratiche sono solo il modo con cui gli interessi particolari, tramite il loro strapotere mediatico, impongono i propri esecutori ai posti di comando: le oligarchie finanziarie si impadroniscono della democrazia elettorale per annullare la sovranità dello stato. (Il Movimento Cinque Stelle è il prodotto più caratteristico di questa convergenza tra anti-statalismo democratico e anti-statalismo neoliberista.)