Il governo della crisi. Ovvero bisogna che le crisi accadano
L’Unione Europea è l’esperimento più avanzato di disarticolazione del potere democratico. Essa fonda la sua legittimità nella separazione tra la sfera della rappresentanza e la sfera decisionale, tra la sfera della sovranità e quella della governamentalità[1].
Nell’Unione si compie la più lacerante separazione del corpo politico da ciò che è in suo potere, il perimetro del politico è nuovamente scritto come dopo una rivoluzione. La sfera della sovranità è completamente svuotata di ogni potere, i cittadini non possono più esprimersi nei processi decisionali e quando si esprimono il loro responso è del tutto ignorato (bocciatura dei referendum sulla costituzione europea da parte dei popoli francesi e olandesi, ma anche il referendum sui beni comuni tenutosi in Italia nel 2011).
Il potere decisionale si è completamente appiattito nella sfera della governamentalità e della gestionalità, che, se da una parte esistono per fronteggiare l’emergenza e la crisi, allo stesso tempo traggono proprio da queste ultime la propria legittimità. Evidentemente, un aggregato politico che trae la legittimità del suo potere dall’emergenza e dalla crisi avrà tutto l’interesse affinché queste condizioni si protraggano e si conservino. Si imputa la crisi ad un inevitabile effetto collaterale della finanza, ma non si comprende che la permanenza nello stato di crisi giova all’affermazione e alla conservazione di un potere che su di essa ha modellato e costruito i propri puntelli. Vediamo, infatti, governi che si sforzano non di affrontare le cause dei problemi, ma di gestire le conseguenze che vengono ritagliate e astratte dal loro contesto proprio. La disoccupazione e il precariato sono perciò oggetto di azioni sporadiche e isolate, di proclami e di programmi a termine.
Tutto ciò perché il paradigma non consente di collegare tali problemi alla condotta di una banca centrale che tutela la stabilità dei prezzi. Non si può, infatti, mettere in dubbio l’atteggiamento “neutrale” delle istituzioni europee, dietro al quale invece, soggiace la più sfrenata ideologia liberista, quella ereditata dal modello fisiocratico, per la quale si crede che l’economia segua un corso naturale. Così la scienza economica non sarebbe altro che l’applicazione e la trasposizione dell’ordine naturale al governo delle società. In questo senso non bisogna più evitare le crisi, bisogna che le crisi accadano.
Scrive Quesnay: “Gli uomini non possono penetrare i disegni dell’essere supremo nella costruzione dell’universo, non possono innalzarsi fino alla destinazione delle regole immutabili che egli ha istituito per la formazione e la conservazione della sua opera. Tuttavia se si esaminano con attenzione queste regole, ci si accorgerà che le cause fisiche del male fisico sono esse stesse le cause del bene fisico, che la pioggia, che infastidisce i viaggiatori, fertilizza la terra” Nei fenomeni economici si mostra, dunque, un “ordine naturale” non deterministico, ma anzi affidato nel suo compimento all’umana iniziativa: esso può infatti essere conosciuto e attuato dagli uomini, che possono istituire appropriate regole per il comportamento delle società umane “L’uomo dotato di intelligenza ha la prerogativa di poterle contemplare e conoscere per trarne il più grande vantaggio possibile, senza essere refrattario a queste leggi e a queste regole sovrane” (F. Quesnay, Le droit naturel, in: François Quesnais et la physiocratie, INED, Paris 1958, p. 729 e ss.). Sembra dunque evidente che ogni opera di correzione o di indirizzamento da parte di un potere sovrano non possa essere letta che come una intromissione dell’ordine naturale, in questo senso, dunque, i compiti dei governi sono quelli di non ostacolare, ma accompagnare e assecondare l’ordine naturale dell’economia.
Si può dire, quindi, che gli Stati europei, mentre rinunciano alle loro prerogative giurisprudenziali creano, non uno Stato, ma un governo della crisi europeo, che seguendo tale ideologia, opera nell’anomia, cioè nell’assenza di regole, nello stato d’eccezione schmittiano in cui il cittadino perde ogni potere politico.
I popoli sovrani continueranno ad eleggere i propri rappresentanti all’interno dei parlamenti, ma il potere legislativo di questi si trova già bacato, eroso dall’interno dall’esecutivo di un esecutivo, cioè dai governi nazionali, che a loro volta prendono ordini dall’organo esecutivo dell’Unione, ovvero la commissione europea.
Ciò che ci si pone davanti negli anni a venire è la sfida di definire nuovamente il perimetro della politica. Il recupero della sovranità passa per una lotta demistificatrice contro l’ideologica neutralità delle istituzioni e per una nuova definizione dello spazio politico del cittadino nel momento in cui questi ne sembra ostracizzato una volta per tutte.
[1] Col termine governamentalità si intende “l’insieme di istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche che assicura la presa in carico delle popolazioni e garantisce il governo dei viventi” come teorizzato da M. Foucault in, La governamentalità, «Aut-aut», 167-168, 1978.
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