Una "via di mezzo"
Ieri un mio amico, riferendosi alla sua condizione di studente/lavoratore impegnato contemporaneamente in vari ambiti e attività, per auto-definirsi ha utilizzato l’espressione una “via di mezzo”, aggiungendo “aspetto di diventare qualcosa, invece di essere sempre la metà o un quarto di qualcosa”.
Naturalmente se fosse certo o quasi certo lo sbocco in fondo ad una strada, uno seguirebbe quella strada assecondando la propria vocazione e tralasciando tutto il resto. Ma il dubbio di non farcela è più forte e ti costringe ad usurarti facendoti tenere il piede in più staffe, con pregiudizio al ruolo che ogni uomo naturalmente vorrebbe costruirsi in una società.
Questo significa sentirsi una “via di mezzo”.
Non credo che questa percezione sia infrequente in una società in cui una continua sequela di messaggi ormai impercettibili ha plasmato progressivamente nuovi “valori” della struttura socio-economica quali flessibilità, mobilità, adattabilità al cambiamento, competizione, allargamento delle abilità e delle competenze, ecc.. Tutti valori d’importazione, indotti, sempre invocati ma mai profondamente compresi. D’altro canto, nonostante la fitta e angosciante propaganda, gli italiani tuttora agognano intimamente un più antico sistema valoriale basato su stabilità e protezione del lavoro in tutte le sue forme, linearità delle carriere, sicurezza economica e sociale, auto-imprenditorialità, cultura della famiglia e della casa, solidarietà, cooperazione, ecc. Un interessante studio del Censis può supportare questa mia affermazione.
I nuovi valori proposti (o meglio, imposti) incarnano alla perfezione lo spirito dell’odierno capitalismo che confina l’uomo in un eterno transito senza meta, spacciando sogni e un’idea stessa di piena umanità da inseguire senza mai raggiungere poiché in realtà avviene l’esatto contrario: ci allontaniamo dalla nostra umanità e dai nostri simili, sempre a metà del percorso, in una prolungata, snaturante “via di mezzo”.
…Ci libereremo!
Gianluigi Leone – ARS Lazio
Mi pare una descrizione impeccabile. Io non ho mai tenuto il piede in due staffe perché so fare una cosa per volta. Nonostante ciò ho spesso dovuto cambiare staffa più o meno alla cieca, senza mai sapere se vi fosse la meta. Sono ancora nella via di mezzo, che si prospetta eterna ma solo nella migliore delle ipotesi, alla peggiore meglio non pensarci.
Che questa sia una tendenza importata dagli USA non vi è dubbio. L’altro giorno ho scoperto per caso dei siti dove i carcerati statunitensi (gli USA sono un vero e proprio stato penale) tengono dei loro profili per cercare contatti col mondo esterno. Mi sono soffermato proprio spinto dalla curiosità di vedere delle realtà così lontane dalla mia e non solo per ragioni geografiche. Quello che mi ha colpito negativamente e che molti di loro si premurano a scrivere frasi del tipo: “I’m still committed in being succesful”.
Esprime la condizione di chi, essendo stato sbattuto ai gradini più bassi, deve purificarsi dallo stato di peccato mortale e deve pure mostrare entusiasticamente il desiderio di tornare allo stato, superiore dal suo punto di vista, di “eterno transito senza meta”.
L’ho trovato davvero inquietante, è l’eliminazione anche dell’anelito alla normalità. I’m not committed in being succeful, I’m committed in being normal.
Concordo con quanto sopra. Non a caso è proprio il “being normal” che viene spesso deriso, o
compatito, specialmente sui social forum. L’esistenza commerciale e la visibilità mediatica (comunque
ottenuta) sono instillati fin dalla più tenera età. Per parte mia cerco di convincere mio figlio (12 anni)
che avere 1000 amici su Fess book è un’idiozia, ma che fatica!