Il contesto storico e ideologico che predispose lo sfacelo della scuola di Stato
Oggi i partiti e i mezzi di informazione tendono a rimuovere dalla memoria collettiva un periodo della storia dell’ltalia che ci si augura possa, un giorno, essere raccontato senza inganni. Tra il 1992 e il 1999 influenti politici italiani, privi di ogni concetto di interesse nazionale, perché americanizzati o corrotti o ignoranti, hanno dato in pasto interi settori dell’economia italiana all’avidità del profitto privato straniero. Nella lista nera di coloro che, nel silenzio, concorsero all’impossessamento straniero della nazione, occupano i primi posti economisti, ministri e capi di governo: Guido Carli (1991-92); Giuliano Amato (1992-93); Carlo Azeglio Ciampi (1993-94); Mario Draghi (1993); Beniamino Andreatta (1993-94), Romano Prodi come presidente dell’IRI (1993-96) e come capo di governo (1996-98), Massimo D’Alema (1998-2000). Con vergognosa complicità i loro governi cedettero alle pesanti pressioni della finanza straniera determinata a impossessarsi a prezzi stracciati delle tante imprese pubbliche italiane che, vere galline dalle uova d’oro, davano profitti enormi e quindi erano molto appetibili. Smantellarono l’economia pubblica italiana, avviando il ciclo delle privatizzazioni che “è seguito agli accordi tra Karel Van Miert e Beniamino Andreatta, voluto e ottenuto dall’Unione Europea”. L’Unione Europea ci ha imposto di svendere le nostre aziende pubbliche e i politici come Beniamino Andreatta sono stati ben felici di eseguire gli ordini. (1).
Con il Decreto legge 333 dell’11/07/1992 sulle “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica”, Amato, capo di governo da dodici giorni, trasforma l’IRI, l’ENI, l’INA e l’ENEL in società per azioni. Il decreto trascina nella privatizzazione le ‘Banche di interesse nazionale’ e dunque anche la Banca d’Italia. A quell’epoca, una menzognera campagna di stampa presentava l’IRI, lo scrigno che conteneva i tesori italiani, come un carrozzone che dava solo perdite e che dunque ai proprietari, cioè allo Stato e al popolo, conveniva disfarsene. Fino allora, invece, gli utili enormi delle imprese IRI avevano consentito allo Stato, assieme a tasse e altre entrate, di finanziare anche sanità, istruzione, cultura, previdenza: in breve, la spesa pubblica e sociale che dava benefici enormi al paese e che oggi le grancasse risonanti il pensiero unico liberista associano allo “spreco”. L’IRI venne smembrato e svenduto, piazzando i vari pezzi a qualunque costo e, in alcuni casi, praticamente regalato.
Il 30 giugno del 1993 Ciampi, capo del governo, nomina Draghi, membro del Comitato esecutivo di Goldman Sachs, a presiedere un Comitato di consulenza per le privatizzazioni. Nel ‘97 Prodi privatizza la telefonia, strumento di controllo sociale nelle mani di interessi privati. Nel ‘99 D’Alema consegna i trasporti e l’energia petrolifera ed elettrica alla gestione di società per azioni. In definitiva, tra il ‘92 e il ‘99, i governi iperliberisti sottraggono le risorse strategiche dalle finalità pubbliche e le ricollocano in un quadro di gestione aziendalistica, i cui ricavi sono da massimizzare e i cui destinatari sono i clienti paganti, non i cittadini con il diritto al servizio (2).
A garantire lo smantellamento dell’economia pubblica fu il silenzioso e acquiescente gruppo dirigente dell’ex partito comunista, riciclatosi nel Partito democratico della sinistra (PDS), in cambio della sua legittimazione a governare, che esso postulò, in ginocchio e col cappello in mano, alla finanza anglo-americana. (3). Il PDS dunque non si oppose alle privatizzazioni e finse l’opposizione a Berlusconi, il quale a sua volta accettò l’incarico europeista di cominciare a cancellare ogni regola giuridica come limite all’economia liberista. Comprendere il contesto ideologico di quegli anni consente di chiarirsi i motivi per cui alla privatizzazione delle imprese non poteva sopravvivere il sistema nazionale dell’istruzione pubblica. È infatti in questo periodo che vanno cercate le ragioni originarie dello sfacelo della scuola statale che, come i trasporti, la sanità e gli altri servizi fondamentali, viene ridefinita e sistemata dentro le prestazioni aziendali anziché dentro gli oneri di Stato. Questo pesante clima ideologico spinse a considerare il sistema-scuola come un peso burocratico e la spesa per finanziarlo come un onere eccessivo.
Alle elezioni politiche dell’1 Aprile 1996 la sinistra post-comunista si presenta agli elettori guidata dal democristiano Romano Prodi, allievo di Andreatta(4), cliente di De Mita e consulente di Goldman Sachs. Il cattolico Prodi, il cui orizzonte spirituale è la contabilità finanziaria, e che da presidente dell’IRI aveva ceduto sottocosto ai privati i pezzi più remunerativi delle partecipazioni statali, è il garante che, presso la finanza transnazionale, accredita i post-comunisti come affidabili a governare l’Italia. Al centro del suo programma di fumosa modernizzazione del Paese mette anche l’innovazione del sistema scolastico in senso tecnocratico e mercatista. Vinte le elezioni, Prodi, capo del governo, affida il ministero dell’istruzione a Luigi Berlinguer, lo sciocco narciso che la storia crea al momento giusto per distruggere la scuola di Stato.
Convinto di mettere in atto le sue idee progressiste con una grande conversione aziendalista, nel 1997 Berlinguer disarticola il sistema scolastico, assimilando le singole scuole ad aziende che, d’ora in poi, lustreranno la propria immagine ciascuna con un proprio piano di offerta formativa. L’uomo vende la sua riforma come progressista nel nome della “autonomia”, una parola che seduce, perché evoca spruzzi e sprazzi di democrazia diretta e libertà da pastoie burocratiche, ma che in realtà maschera il disimpegno dei governi iperliberisti dal finanziare il sistema-scuola. L’autonomia allontana le singole scuole da ogni progetto educativo nazionale e dai contenuti culturali vincolanti per l’insegnamento; fa balenare, sia pure in prospettiva, i finanziamenti privati ed elude i controlli sulla preparazione di docenti e allievi.
A disinteressarsi della sua preparazione culturale e a valutare da sé i propri risultati il docente mediocre si sente finalmente legittimato dall’autonomia scolastica berlingueriana. Non più guidato da un progetto educativo nazionale, svincolato da ogni contenuto disciplinare da parte del ministero, malpagato e senza alcuna considerazione sociale, assillato e plagiato dalla lobby pidiessina dei pedagogisti accademici, il docente è invogliato, o costretto, a ritagliarsi un’immagine positiva affaccendandosi nel nulla di scartoffie, di griglie, di funzioni aggiuntive e di formule valutative demenziali. Vuoti organi collegiali e dirigenti selezionati tramite i quiz di produzione brussellese impongono al docente adempimenti burocratici insulsi e del tutto inutili. La cancellazione dei criteri nazionali condivisi di quali siano i saperi essenziali finisce col coprire gli insuccessi educativi, perché non consente più al docente di capire chi è l’allievo preparato e chi lo è meno. Gli studenti, da parte loro, ricevono un’istruzione che li rende consumatori ottusi e li consegna cittadini ciechi e inconsapevoli a un sistema politico rinunciatario del potere sovrano e al soldo dell’oligarchia finanziaria.
A questo punto il sistema nazionale della pubblica istruzione, risorsa strategica non fisica ma immateriale, non meno importante di quelle produttive, decisiva e fondamentale per la tutela e la salvaguardia dell’identità nazionale, è quasi completamente sfasciato. Un disastro epocale che è nello stesso tempo espressione e concausa del disastro antropologico della Nazione. A partire dagli anni Novanta, infatti, i principi dell’economia mercatista globalizzata, colonizzano le menti e devastano anche la civiltà. Oltre al ruolo regolatore dello Stato nella vita sociale ed economica scompaiono la garanzia dei diritti di cittadinanza e il sentimento della Nazione come spazio spirituale di appartenenza solidale dei cittadini. Il collasso del sistema scuola ha diffuso analfabetismo culturale e impoverimento mentale di massa, che sono l’altra faccia di una realtà che vede una fascia sempre più ampia della popolazione esclusa da un lavoro utile e da una vita dignitosa nel proprio paese. Perciò la ricostruzione dello Stato-nazione, capace di reintrodurre in economia misure vincolanti di interesse collettivo, risponde a esigenze di salvaguardia non solo dell’industria manifatturiera ma anche della scuola. Senza ricostruire lo Stato che distingua finalità collettive da interessi particolari, funzioni pubbliche da attività private, non si può ricostruire la scuola statale. Tutti i moderni sistemi scolastici sono nati al costituirsi degli Stati-nazione e per loro opera. Emerge a questo punto un circolo vizioso che dà la dimensione della tragedia collettiva: per rifare la scuola occorre una cultura dello Stato e della cittadinanza oggi scomparsa, ma che soltanto una scuola di Stato può re-insegnare e promuovere. Oggi, invece, la cultura dominante è quella dell’aziendalismo antistatalista, che contraddice e distrugge l’esistenza stessa della scuola, perché impone criteri incongrui e a essa estranei, spacciando la formazione culturale come prodotto che possa essere venduto secondo un rapporto di ricavi e costi come un elettrodomestico.
il sistema nazionale della pubblica istruzione deve ritrovare un senso nella prospettiva dello Stato-nazione e della cittadinanza, che ne costituisce l’appartenenza; e trasmettere contenuti non necessariamente e immediatamente utili, neanche per il lavoro, ma per aprire la mente a dimensioni categoriali e universali della realtà. Per consentire al cittadino di sapersi orientare in maniera consapevole sul presente e di intenderlo senza rimanerne schiacciato, la scuola deve trasmettere contenuti distanziati dal presente, che il giovane non può più apprendere in nessuno dei luoghi sociali che frequenta. Fino a trenta anni fa, famiglie, partiti, sindacati, parrocchie, associazioni erano luoghi in cui i giovani sentivano raccontare un passato investito di significati e a cui si riallacciavano per acquisire memoria storica. Ma queste realtà non esistono più come filiere di trasmissione; le menti sono state totalmente destoricizzate e ora spetta alla Scuola di Stato il compito di formare la consapevolezza storica di cui oggi abbiamo bisogno, la condizione mentale indispensabile per progettare la nostra liberazione.
(1) Privatizziamo: “ce lo chiede l?Europa” di A. Franceschelli. https://www.appelloalpopolo.it/?p=10920(2)http://archiviostorico.corriere.it/1994/febbraio/26/Occhetto_Londra_piace_padroni_della_co_0_94022611888.shtml)(3) L’elenco del patrimonio bancario e industriale è riportato in calce all’articolo di A. Franceschelli (Privatizziamo: “ce lo chiede l’Europa” Andrea Franceschelli) https://www.appelloalpopolo.it/?p=10920 (4)Andreatta fu il politico che contribuì in maniera determinante alla politica del “nuovo corso”. Fu lui a volere Romano Prodi alla guida dell’IRI nel 1982 e fu lui a istradarlo verso le privatizzazioni che inaugurò vendendo l’Alfa Romeo alla FIAT nel 1986. (Privatizziamo: “ce lo chiede l’Europa” Andrea Franceschelli) https://www.appelloalpopolo.it/?p=10920. “Assi culturali per un progetto di scuola nazionale” di M. Bontempelli. (Rivista “Indipendenza”, nuova serie, n. 27, novembre-dicembre 2009]
Non sapevo della vostra esistenza. Ma leggendovi, comprendo e condivido la vostra analisi. Sono nella scuola da 40 anni e ne vedo il vero, programmatico SFACELO. Attaccata la funzione docente, in ogni modo: dal trasformare la scuola di massa in una BUROCRAZIA di STIPENDIATI, identificati con un numero di graduatoria, al fatto di svuotare il nostro peso in senso didattico, disciplinare, valutativo. Si finge che siamo “professori”, in realtà siamo figure deboli ed ibride, costrette a ruoli contraddittori. Dobbiamo far lezione, assegnare voti, colloquiare coi genitori a riferire se il figlio /a va bene oppure no…. ma in ogni istante possiamo venire aggrediti e svalutati in nome della VULGATA PEDAGOGISTA “democratica ed inclusiva” la quale si aspetta da noi un mix di comportamenti che vanno dalla “comprensione” per disabilità e BES (bisogni educativi speciali) di ogni tipo, per condotte disturbanti riconducibili al “disadattamento” di cui certi soggetti sarebbero “vittime” e come tali NON giudicabili né tantomeno sanzionabili…ad una sorta di psicologismo o sociologismo dilettanteschi, secondo i canoni della cosiddetta “peer education”, dove il docente, pari tra i pari, cerca di combinare qualcosa coi lavori di gruppo, sperando che gli diano retta e naturalmente che i genitori non si fiondino dal preside a protestare perché il prof …é rimasto indietro nel programma ! Peraltro le ore curricolari vengono via via limate: “accoglienza”, “antidroga”, educazione stradale, alla legalità, al dialogo con il diverso, alla multi – culturalità…etc” Anche se fai i salti mortali per starci dentro, sarai sempre criticato per qualche ragione. Perché hai spiegato tre pagine, ma hai assegnato la quarta (facendo recuperare a casa sulle ore perse in auto-gestione, metti)…perché hai ritirato l’immancabile CELLULARE che il regolamento d’istituto vieta, ma che poi usa ognuno a suo comodo, chattando, chiacchierando e trattando il docente che spiega come un burattino di cui prendersi gioco. Chiudo questa breve analisi veritiera e del tutto attendibile, costruita sull’esperienza e non sulle ciarle ideologiche di regime. Domando: dopo l’appello dei 600 docenti universitari, perché non scrivere un MANIFESTO alternativo sulla scuola di oggi, nel quale l’80 – 90 % degli insegnanti si riconoscerebbero senz’altro ? Al potere interessa una pseudo scuola: parcheggio, progettificio con soldi pubblici e talvolta privati, distribuiti a chi vi partecipa, ASILO per BAMBINI de-responsabilizzati dai 5 ai 20 anni, una specie di bolla di sapone dove le attitudini e il merito, canoni maestri per entrare in una logica vera di studio e di lavoro, conteranno sempre di meno.