Il Pd liberale e la scissione che seduce gli ingenui
di SIMONE GARILLI (FSI Mantova)
Il Partito Democratico nasce nel 2007 dall’unione di due filoni principali: i Democratici di Sinistra (Ds) e la Margherita, quest’ultima federazione dei vari rivoli politici che si erano accumulati in seguito alla disgregazione della Democrazia Cristiana. I Ds, invece, nascono 9 anni prima, nel 1998, abbandonando definitivamente il simbolo del Partito Comunista Italiano che era già stato ridimensionato nel logo del Partito Democratico di Sinistra (Pds), nato a sua volta nel 1991 a conclusione della cosiddetta “svolta della Bolognina” gestita da Achille Occhetto (1989-1991).
A fronte di questa sintetica genealogia, non serve uno storico per riconoscere che il Pd è un partito liberale. Lo è tuttavia nel senso post-moderno del termine, perché chi si definisce o si dimostra liberale al giorno d’oggi si pone consapevolmente o meno in una fase storica in cui sono venuti a mancare i contrappesi dialettici al liberalismo, consentendo ad esso di esprimersi con tutta la sua forza sia in senso ideologico che normativo.
Perciò, se aveva un senso definirsi ‘socialdemocratici’ o ‘socialisti non rivoluzionari’ nella fase dialettica del capitalismo, nella quale la lotta di classe aveva permesso ai socialisti prima di contendere e poi nei fatti di conquistare il campo politico dominato dai liberali, non ne ha più oggi. Chi si autodefinisce un ‘socialista democratico’ o ‘non rivoluzionario’ nel contesto della globalizzazione liberista e imperialista a matrice statunitense sta solo occultando la sua sostanziale adesione ad un impianto profondamente anti-socialista e quindi per definizione non democratico, se usiamo quest’ultimo termine nella sua accezione più ampia e ne rifiutiamo la declinazione puramente formale.
Non che i parlamentari e i militanti del nuovo Pd renziano tengano particolarmente a definirsi socialisti o anche solo socialdemocratici, ma c’è una parte di quel partito interessata a mantenere almeno un legame simbolico con certe tradizioni ormai strutturalmente espulse dal dna della sinistra. Parliamo naturalmente dei padri fondatori del centro-sinistra post-comunista, da Prodi a Veltroni, passando per D’Alema, Bersani e Letta. Il motivo è tutto meno che ideologico. Questi tristi figuri della Seconda Repubblica sono liberali almeno quanto Renzi, anzi a ben vedere molto di più, essendo il fiorentino un perfetto esemplare di politico che non crede in nulla e si muove guidato dalla pura volontà di potenza. Sbaglia quindi chi da un punto di vista liberale sostiene che Renzi è una ventata di modernità per il centro-sinistra, perché dimentica che già i Governi D’Alema, Prodi e Letta hanno riformato in senso liberale e quindi liberista (l’equazione è cosciente) gran parte del nostro precedente ordinamento. Renzi ha semplicemente portato in dote al Pd un cinismo comunicativo che ha permesso di mascherare di discontinuità un processo da tempo molto coerente.
Allora perché i padri fondatori rivendicano una diversità di principi che in realtà non sussiste rispetto al segretario dimissionario del Pd? Per semplici ragioni di sopravvivenza politica in una fase nuova e ricca di incognite.
La rivoluzione comunicativa di Renzi è intervenuta proprio per ‘rottamare’ una classe dirigente che non ‘tirava’ più da qualche tempo, incapace di gestire il malcontento popolare dovuto alle sue stesse politiche liberali. Ma la rottamazione apparentemente irreversibile di Renzi si è rivelata ben presto molto debole, smascherata dalla profonda crisi economica e sociale e da una fase storica agli albori che pare di nuovo potenzialmente dialettica, e quindi avversa al pensiero unico (neo)liberale. Non sembra esserci spazio per gli imbonitori e i falsi rinnovatori di un contenitore ideologico in profonda crisi.
Ecco perché i rottamati stanno tornado alla carica. Forti dell’ingenuità di una società senza memoria storica, recuperano una retorica social-liberale insensata e ridicola ma purtroppo ancora attraente per una fascia elettorale ormai avversa alla globalizzazione, e tuttavia spaventata dalle novità politiche emergenti. Il pessimo spettacolo di questi giorni targato Pd è in realtà una resa dei conti completamente interna al campo liberale, dove una parte – gli scissionisti o chi si limita a minacciare la scissione – tenta di recuperare una tradizione socialista-socialdemocratica per ‘rottamare il rottamatore’ e sopravvivere.
Il passaggio risulterà simpatico agli occhi del socialista autentico – che per definizione è nemico del liberale – dato che la retorica socialisteggiante degli scissionisti liberali è un segnale della ritrovata forza simbolica del socialismo in quanto tale. Il dato, in effetti, è che per mantenere posizioni di potere bisogna tornare a dichiararsi, se non socialisti, almeno social-democratici o social-liberali. Basta però che l’euforia non si trasformi in illusione e che un Bersani, da buon retore di paese, non torni ad apparirci per davvero un socialista. Perché è un attimo ricaderci, magari appoggiando una futura alleanza elettorale con l’altrettanto ambiguo Fassina, politico capace di sproloquiare contro l’euro mentre siede di fianco al liberal-libertario Nichi Vendola.
Si ricordi, giusto per ricondurre l’analisi storica all’attualità, che proprio Bersani è stato il primo in Italia a tentare la liberalizzazione selvaggia del settore taxi, cioè di un servizio pubblico fondamentale per i cittadini delle grandi città italiane. Nel 2006, da Ministro per lo Sviluppo Economico, Bersani propose di aumentare sensibilmente il numero di licenze in circolazione e permettere ad un singolo individuo di detenere più di una licenza, con l’ovvia conseguenza di aprire il settore al profitto privato, laddove la possibilità di cumulare le licenze avrebbe spinto le imprese a comprarle in quantità per poi trasformare i tassisti in dipendenti votati al profitto altrui secondo una logica di massimizzazione aziendale degli utili. Tutti sappiamo, ormai, che tale logica produce automaticamente l’abbattimento dei costi del personale (cioè il salario dei tassisti) e della qualità del servizio, se non anche l’aumento dei prezzi finali (come avvenuto per l’acqua e le autostrade, e come avverrà secondo tutte le stime per l’energia elettrica). Oltre al danno, poi, si sarebbe preparata anche la beffa: in regime di libera circolazione dei capitali nessuno avrebbe potuto impedire ad una multinazionale estera di invadere il mercato dei taxi italiano, magari con una semplice app del cellulare che avesse incrociato domanda e offerta, per poi portare fuori dall’Italia gran parte dei profitti. È successo qualcosa di simile con Uber, ma proprio la dura e vittoriosa opposizione dei tassisti negli ultimi anni ha posto le fondamenta per la sentenza del Tribunale di Milano che nel 2015 ha disposto il divieto di utilizzo per il principale servizio di Uber (UberPop) considerandolo concorrenza sleale.
Nel 2012 un secondo tentativo di Monti tentò di spostare il centro di concessione delle licenze dai Comuni all’autorità dei Trasporti, per consentire al Governo di aumentare a dismisura la concorrenza nel settore. Anche in quel caso i tassisti si opposero con successo. Oggi la sacrosanta ‘corporazione’ dei tassisti (quasi eroica, visti i tempi) deve respingere un terzo attacco, dato che nel decreto Milleproroghe un emendamento a firma Linda Lanzillotta (Pd) “rimanda alla fine di quest’anno il termine entro il quale emanare i decreti previsti contro l’esercizio abusivo del servizio NCC, noleggio con conducente. Su un cavillo della norma NCC […] si gioca la possibilità di Uber di continuare a svolgere la sua attività”[1].
Come si vede, anche questo tentativo (fra i tanti) di inserire il germe della libera concorrenza nel nostro ordinamento è stato gestito storicamente dal centro-sinistra, di cui il Pd è la massima espressione. Stiamo dunque parlando di una forza politica compiutamente liberale che nei prossimi giorni darà forma per meiosi ad un nuovo soggettino politico altrettanto se non più liberale. Gli italiani socialisti e sovranisti si risparmino un’altra delusione, svestano i panni degli spettatori della politica e si mettano a militare per un’alternativa sistemica al morbo liberale.
[1] http://www.lintellettualedissidente.it/economia/dalla-parte-dei-tassisti/
Bellissimo articolo . Complimenti.
Grazie :)
Premettendo che non ho mai sentito Letta e Veltroni ( ma nemmeno Prodi se non ricordo male ) definirsi socialdemocratici ( parlo del Veltroni degli ultimi 20 anni ) ; e premettendo che sono comunque d’accordo con la tesi di questo articolo sullo spettacolo indecente e noioso della scissione del PD … perchè è palese , questi sono semplicemente degli opportunisti che cercano di riciclarsi ( ma mi riferisco più che altro ai bersaniani , perché D’Alema mi sembra totalmente fuori da questi interessi : è presidente della sua fondazione culturale e non credo che si abbassi a mirare ad un posto da deputato.. )… Premettendo tutto questo c’è un “però” , anzi un “Però” enorme . Ed è il seguente .
Il liberalismo non è il liberismo ( Croce non è Einaudi ; Croce si definiva politicamente liberale ma economicamente antiliberista , anzi addirittura simpatizzante della pianificazione sovietica : c’è un famoso scambio epistolare tra Einaudi e Croce su questo punto ) , e non è nemmeno il neoliberismo e non è nemmeno l’ordoliberismo . Anzi l’ordoliberismo europeo di matrice tedesca , in realtà , i “contrappesi dialettici” ce li ha eccome , ma perché inseriti nella tradizione del cameralismo tedesco dove avevano un senso di contrappeso ( e solo lì potevano avere un senso ) . Va bè il discorso diventa lungo , ed è evidente che stiamo vivendo una fase di “interregno” per dirla alla Gramsci , ma per problemi oggettivi , perché oggi non è più riproponibile il compromesso keynesiano-fordista dell’Occidente dei trenta gloriosi : non solo per le sue stesse contraddizioni e perché siamo in tutt’altro mondo , ma perché non è nemmeno vero , come fa intendere questo articolo , che il Mondo sia ancora ( se mai lo è stato , ma qui si aprirebbe un altro discorso che vedrebbe confrontarsi due visioni antitetiche del concetto di potere : quello verticale , centralizzato , ben individuabile , la visione complottista e infantile del potere .. e quello decentralizzato , diffuso , inafferrabile perchè relazionale , la “microfisica del potere”, una visione un po’ più seria e matura del concetto di potere ) sotto l’egida statunitense : il mondo è ormai multipolare e non esiste un unico centro . Il discorso diventa lungo ma mi sembra che in questo articolo si faccia un po’ troppa semplificazione . In ogni caso è evidente che leggendo questo articolo vengano in mente due tipi di socialismo : quello reazionario e quello marxista ( ai tempi di Marx non si distingueva ancora tra socialisti e comunisti ). Marx non odiava i liberali , non li definiva “morbo” , li definiva rivoluzionari : poi nella sua impostazione dialettica e progressista della storia affidava la continuazione di questo compito rivoluzionario solo ai comunisti . Invece i socialisti reazionari avrebbero definito “morbo liberale” da eliminare anche Lenin , il Lenin delle tesi di Aprile e della NEP .
Quindi è interessante l’idea di vero socialismo che salta fuori da questo articolo : “l’eroica corporazione dei taxisti” , che ti chiedono 50 euro per andare dalla stazione Termini a San Pietro , 10 minuti di strada ; e poi si riuniscono , da “eroica corporazione” , per mantenere i loro privilegi mostrando tirapugni e braccia tese , e cantando faccettanera . Marx , nel terzo capitolo del Manifesto , cataloga questa feccia nel socialismo reazionario .
per vero socialismo intendono, lo statalismo. Del resto la scuola togliattiana…era quella..la lotta di classe venne sempre solo evocata e mai praticata.
A parte che lo Stato l’hanno costruito i liberali , ma statalismo non vuol dire per forza socialismo .. a meno che , ripeto , non si voglia definire socialista anche Franco o Salazar … Ma poi , questa “eroica corporazione dei taxisti” vuole mettere in comune i profitti che ottiene ? o le rendite dalle vendite o affitto delle licenze che ottiene ? Perché altrimenti che socialisti sono…
Come si dice “liberismo” in inglese?
Basta rispondere a questa semplicissima domanda per capire che la distinzione crociana fra liberalismo e liberismo è, appunto, crociana. Ha ragione come sovente accade Paolo di Remigio a ritenerla una sciocchezza.
Ps: felicissimo di appartenere alla ristretta schiera dei socialisti reazionari che hanno ancora a cuore parole d’ordine desuete quali patria, lavoro e famiglia.
Troppa carne al fuoco. Comunque su liberali e liberalismo rinvio qua (Croce è uno sconfitto): https://appelloalpopolo.it/?p=27516
Per quanto riguarda il “socialismo” non ne vogliamo né un pizzico di più, né un pizzico di meno di quello previsto nella Costituzione.
Il diritto pubblico dell’economia è tornato ad essere identico a quello ottocentesco e dei primi del novecento. Dunque può tornare quello che era nel 1980.
Se reazionario significa che metti in discussione tutte le cose nuove, senza essere istintivamente progressista, allora ogni persona di buon senso è reazionaria; se significa mettere in dubbio anche molte acquisizioni passate, ma soltanto metterle in discussione, non cancellarle, allora ogni persona saggia è reazionaria.
Lo statalismo di per sé non sarebbe socialismo (salvo per i liberali) ma se il fine dello statalismo è la piena occupazione, allora lo statalismo è socialista. Ed è questo il caso della nostra Costituzione.
Mettere in discussione tutte le cose nuove significa essere persone di buon senso ? Ma che c.. aspita c’entra ?
“Reazionario” non vuole dire mettere in discussione cose nuove : essere contro il jobs act ( che è una cosa nuova ) non vuol dire essere reazionari . Reazionario vuol dire simpatizzare per sistemi politici autoritari , gerarchici , fascistoidi .
E la piena occupazione non è socialismo , è solo piena occupazione . Altrimenti secondo questa logica anche i Faraoni mentre costruivano le Piramidi erano socialisti , oppure Hitler ecc..ecc..
E poi il diritto pubblico dell’economia non è tornato ad essere identico a quell’ottocentesco .. ma come cavolo fai a fare delle semplificazione demagogiche del genere ? lo Stato neoliberista e ordoliberista non è un semplice guardiano notturno interno e strumento di colonizzazione delle terre nullius .. non ci sono più terre nullius . Lo Stato attuale è interventista : per incentivare il più possibile ciascuno a diventare imprenditore , per modificare e regolamentare continuamente il regime di concorrenza , per creare insieme agli altri Stati norme standardizzate comuni ai più svariati livelli .. amministrativo , burocratico , commerciale ecc.ecc. Oggi la tecnologia ( in tutti i settori ) sta rendendo sempre più irrilevanti lo spazio e il tempo .. e riproporre soluzioni , o fare paragoni con soluzioni , non solo ottocentesche ma anche di 20 anni fa … vuol dire fare demagogia da 4 soldi .
‘Reazionario’ significa che vuole tornare indietro: chi è contro il nuovo e vuole il ripristino del vecchio è reazionario, a prescindere dal contenuto specifico di nuovo e vecchio. Ora, la piena occupazione era l’obiettivo delle vecchie politiche economiche fino agli anni ’70; le nuove politiche economiche miravano invece all’abbassamento dei salari mediante disoccupazione di massa (è quello che il libero scambio produce immancabilmente) e al credito facile ai lavoratori per assorbire la produzione. Chi vuole la piena occupazione non deve affatto vergognarsi di essere reazionario, come chi vuole il ripristino della libertà precedente la tirannia. La piena occupazione, inoltre, non è soltanto piena occupazione, ma ha per sua conseguenza l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori, dunque l’aumento dei salari e della loro centralità sociale; se questi sono fini socialisti, e mi sembra che lo siano, la piena occupazione è la quintessenza del socialismo. Viceversa, chi parla di socialismo senza pensare all’occupazione non sa neanche di cosa parli.
Eh va bé , allora facciamo che ognuno dice laqualunque … Qui non si tratta di “vecchio” vs “nuovo” semanticamente , ma politicamente ; e il clivage politico sul quale parametrare ciò che reazionario e ciò che invece punta verso il progresso sociale , è la comparsa dei diritti di uguaglianza e libertà degli esseri umani . E’ rispetto a questo clivage politico che i termini “vecchio” e “nuovo” assumono un significato politico . Non così , alla cazzo , semanticamente… Una norma può essere “Nuova” , ma politicamente reazionaria ( pensiamo alle nuove norme omofobe e xenofobe di Tramp ) . Una norma può essere “Vecchia” , ma politicamente progressista …
Reazionario politicamente ha un significato ben preciso . Prendiamo Bobbio , Matteucci e Pasquino e tagliamo la testa al toro :
“”[..] In senso più stretto e corrente reazionari sono detti quei comportamenti intesi ad invertire la tendenza in atto nelle società moderne verso una democratizzazione del potere politico e un maggior livellamento di classe e di status , verso , cioè , quello che è comunemente detto il progresso sociale . Le spinte reazionarie traggono origine , in primo luogo , dall’ostilità di quelle componenti sociali che dal progresso sono danneggiate nei loro privilegi . La loro opposizione viene normalmente esibita come difesa di un superiore sistema di valori che la tendenza all’uguaglianza distruggerebbe . In Europa al tempo della restaurazione post rivoluzionaria .. [..] Nel sec. XX [..] i comportamenti reazionari si sono appellati alle teorie del superuomo, del popolo eletto ( v. RAZZISMO ) e del primato nazionale ( v. NAZIONE ; NAZIONALISMO ) . Tutte queste giustificazioni ideologiche della reazione hanno fatto in una certa misura presa sulle classi subalterne [..] dando vita a fenomeni reazionari di massa , come il sanfedismo nel sec. XIX , il fascismo e il nazismo nel sec. XX .””
( N.Bobbio , N.Matteucci , G.Pasquino – “Il Dizionario di Politica” , UTET – p. 808 )
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La “piena occupazione” con l’aumento del potere contrattuale dei salariati mi sembra un obiettivo condivisibile per chi si ritiene socialista , nel senso del “socialismo né un pizzico di più, né un pizzico di meno di quello previsto nella Costituzione.” Non è il socialismo marxista ( i mezzi di produzione non sono di tutti e per tutti , il paradigma capitalista non solo rimane ma viene anche così rigenerato come spiega Keynes nellea Teoria generale : dopo la piena occupazione “la teoria classica si affermerà di nuovo da quel punto in avanti” ) , ma in ogni caso non ha nulla di reazionario , anzi così è progressista ( ma se appunto rispetta veramente la Costituzione , che impedisce di discriminare un lavoratore in base alle sue origini nazionali o di altro tipo ) . Il punto se mai sarebbe capire ( mantenendo la lotta al neoliberismo e la critica ai Trattati ) come si creda di attuare i principi progressisti della nostra costituzione oggi ( quando la tecnologia sta rendendo il mondo sempre più minuscolo e interdipendente ) proponendo di risolvere problemi globali con soluzioni locali .. maschera per propugnare schifezze reazionarie ( tra l’altro sbandierate senza vergogna : basta leggere lo squallore dei sovranisti Salvini , Meloni , Alemanno , LePen , Trump ecc.ecc. ) e maschera ( senza alcuna reale efficacia sovrana ) per essere in realtà strumenti coercitivi di controllo ravvicinato delle realtà sociali .
Attenersi alla semantica non significa forzare il linguaggio; viceversa: accettare le connotazioni significa arrendersi al punto di vista che si vuole combattere. La connotazione valutativa di cui ‘progressista’ e ‘reazionario’ si caricano rimanda a una filosofia della storia liberale, quella che crede di individuare il senso della storia, anziché nelle dinamiche millenarie, nell’empiria delle intenzioni umane. Accettare questa connotazione significa arrendersi al liberalismo prima di iniziare a combatterlo. Tutto ciò è evidente nella citazione da Bobbio, nella quale ‘progresso’ (= giustizia) diventa equivalente a ‘democrazia’ e a ‘livellamento’, cioè a ‘uguaglianza’. Occorre ricordare che si tratta di una valutazione del tutto gratuita? Che il principio di uguaglianza è somma ingiustizia quando offende il principio del merito? Non solo. Nella prospettiva che identifica stupidamente giustizia a uguaglianza e a progresso, Trump, benché si opponga all’oligarchia che in nome del progresso ha drenato la ricchezza dal 99% all’1%, risulterebbe reazionario perché avversario dell’uguaglianza. In effetti però, con i Clinton e gli Obama si è verificato un progresso che è progresso della disuguaglianza, quindi reazione; con Trump nasce una reazione che è reazione alla disuguaglianza, quindi progresso: si vede bene come le connotazioni dei due termini siano contraddittorie, dunque annullate. Per questo è necessario attenersi alla semplice denotazione e di fronte al povero diavolo che si vanta di essere progressista vantarsi di essere reazionario.
FaEr7609, non basta distinguere liberismo e liberalismo, occorre anche precisare in cosa siano effettivamente diversi e dopo decidere se la distinzione sia fondata o meno. Le definizioni che già Einaudi dà di ‘liberalismo’ sono miserevoli: il liberalismo «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana…una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo»; ma anche le religioni, anche il socialismo si pongono queste mete. Oppure: «il liberalismo è una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona»; la definizione è equivalente a quella di Mill, ed è del tutto vuota, in quanto è identica alla laicità dello Stato, che non ha aspettato il liberalismo per essere stabilita, ma risale a fine ‘500, a Bodin. In altri termini: la distinzione tra liberalismo e liberismo è VUOTA, perché liberalismo è una collezione di nobili motivi che non sono liberali, ma sono soltanto fatti propri da alcuni liberali. Tolte queste penne strappate alle altrui code, il liberalismo è l’ideologia dell’equilibrio ottimale del libero mercato, dunque dello Stato minimo, non interventista; l’ordoliberalismo è la sua forma più ripugnante, per cui il libero mercato non raggiunge l’equilibrio ottimale, NONDIMENO esso è ottimo perché è fondato sulla CONCORRENZA, quindi lo Stato deve intervenire per conservarlo. I lati ripugnanti sono più di uno: l’idea di costruire la società sulla concorrenza, quando concorrenza è sinonimo di guerra, l’idea che lo Stato debba tenere sù ciò che per il suo disequilibrio costitutivo (cioè per la sua intima ingiustizia) non si tiene sù.
Certo che la definizione di Einaudi è miserevole , vuota e simile alla laicità dello Stato di Bodin . Ma perché mai la salvaguardia e promozione dell’autonomia dell’individuo e dei suoi diritti di libertà , che si pone Il liberalismo politico , deve tradursi inevitabilmente nel perseguimento dell’equilibrio ottimale del libero mercato ( equilibrio per altro inesistente e affatto naturale come ha dimostrato Polanyi ne “La grande Trasformazione” ).. Locke , Montesquieu o Kant erano liberali , non liberisti . Il fatto è che i nobili valori che si prefigge il liberalismo rimangono particolari e non universali fino a che non vengano superate dialetticamente le sue contraddizioni di classe . Solo il comunismo può universalizzare i nobili propositi liberali . Non certo uno statalismo purchè sia ( se mai si ponga il problema .. ) .
Propria del liberalismo e del liberismo è la concezione che fa dell’individuo un assoluto e lo oppone 1. agli altri esaltando la concorrenza e 2. allo Stato concepito essenzialmente come tirannia. Si tratta di una concezione assurda: la società è la fiducia immediata tra gli individui, ossia la rinuncia, per lo più inconsapevole, all’assolutezza della loro individualità; lo Stato è la forma consapevole di questa fiducia.
Veramente è proprio Locke che da inizio alla stagione che l’amico antinazionalista di cui sopra chiama “liberista”.
Cosa infatti pone come base della convivenza civile una volta ammessa l’inesistenza di ogni ontologia sociale? La “propensione comune all’acquisto”.
Ovvero, il libero mercato.
Ovvero…il liberismo.