Storie del '92
Oggi ho il piacere di pubblicare due storie autentiche e alquanto toccanti che ci fanno capire a cosa serve una moneta che può oscillare liberamente e SENZA AGGANCI e/o VINCOLI ESTERNI con altre valute e che può essere indirizzata ai fabbisogni REALI di una Nazione.
Ringrazio Carlo Giorgetti e Roberto Calletti per il contributo fornito, rispondendo al mio invito pubblico, atto a raccontare la propria storia lavorativa del 1992, dopo l’uscita dell’Italia dallo SME (aggancio all’ECU).
Carlo Giorgetti, artigiano tappezziere.
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INTRODUZIONE GENERALE
Il settore manifatturiero italiano è per lo piu’ organizzato in distretti produttivi, la ragione per cui gli operatori commerciali si localizzavano in un cerchio ristretto di territorio è abbastanza intuibile, si tratta di ragioni geografiche (vicinanza a fonti approvvigionamento materie prime, a corsi d’acqua, a vie di comunicazione etc ) di tradizioni storiche ( città dedite fin dal medioevo al commercio ed alla lavorazione dei tessuti o della carta….) di evoluzione in senso industriale del settore primario, (prodotti agricoli e allevamento, carni etc), non fa eccezione il settore delle calzature: le principali regioni storicamente ricche di aziende calzaturiere sono: Veneto, Marche; Toscana, ma anche Romagna, Puglia, Campania e Lombardia, così suddivise:
regione………Città/prov……Fascia di prezzo
Veneto ………Verona……….Medio basso
“””””””””…….Padova……….Alto
“””””””””…….Treviso………Medio- medio alto
Marche……….Fermo………..Medio
“””””””””…….Ascoli……….Medio medio alto
Toscana………Firenze………Medio alto
“””””””””””…..Pisa…………Medio- medio basso
“””””””””””…..Lucca………..Basso medio-basso
Romagna………Rimini/forlì….Alto
Puglia……….Bari…………Basso
“””””””””””…..Lecce………..Medio
Campania……..Napoli……….Medio
Lombardia…….Vigevano……..Alto
“””””””””””””…Brescia………Basso medio-basso
La città di Lucca dove io risiedo basava la sua economia essenzialmente su tessile, calzature e cartario, all’interno, e nautica e turismo sulla costa.
Le prime fabbriche di calzature sorsero subito dopo la guerra, mentre la maggior parte della popolazione era dedita all’agricoltura, e come materia prima veniva usato il legno, abbondante, e il pellame proveniente dal vicino distretto di Santa Croce sull’Arno, si producevano così sandali e zoccoli per il mercato nazionale, poi, pian piano, alcune aziende si ingrandirono e passarono a produrre anche scarpe ma il “core business” rimanevano sempre gli zoccoli ed i sandali per l’estate, e negli anni 50 i clienti dagli USA sbarcarono in massa in Italia ed anche a Lucca, anche in ragione del fatto che Firenze era il centro mercantile per eccellenza, dove le compagnie americane basarono i loro Headquarters.
Nacque la figura del Buyer (intermediario) fra i grandi magazzini, gli importatori americani e le realtà produttive italiane.
In parallelo si sviluppava anche il mercato continentale europeo dove però la grande distribuzione era in fase nascente e non già così organizzata come in USA: per realizzare grandi numeri non si poteva prescindere dal mercato americano che comunque non faceva certo mancare ordinativi.
Ecco quindi il proliferare fra la fine degli anni ’50 e tutto il ’60 di migliaia di piccole e piccolissime aziende a carattere familiare, non di rado trasformatisi poi in medie aziende: un periodo florido in cui si formavano competenze tecniche ancora non superabili a livello mondiale
Il relativo basso costo del lavoro, accompagnato da regole fiscali e contributive approssimative, unitamente alle oggettive capacità di intraprendere della popolazione, (tecnica fantasia creatività, infaticabilità) produssero il miracolo economico che tutti sappiamo.
Le campagne si urbanizzarono, molto spesso anche esponenti dei ceti bassi riuscivano a costruirsi la casetta, i figli cominciavano a studiare, gli imprenditori guadagnavano ed investivano nei macchinari e nei capannoni o (in avanzo) nelle seconde terze o quarte case.
Non mancarono periodi un po’ più bui ma sempre legati a shock esterni: crisi petrolifera e relativa inflazione, rivendicazioni salariali troppo concentrate, e concorrenza internazionale sui prezzi (Spagna e Portogallo , Grecia, Brasile e poi, maggiormente, la Cina Nazionalista –Formosa ); ma nonostante ciò, fino a tutti i ’70 le cose procedettero egregiamente.
Esperienza personale
Nel 1978 arrivo io, diplomato in ragioneria col massimo dei voti, iscritto all’università di Pisa alla facoltà di Scienze Politiche ma già con l’aziendina paterna pronta per l’uso: ben presto l’università diviene solo un rimpianto.
L’azienda contava una cinquantina di operai e 6 impiegati (compreso il reparto progettazione) ed in piu’ faceva già ricorso a terzisti esterni.
Dopo due o tre anni di apprendimento dei fondamentali amministrativi comincio seriamente ad occuparmi di produzione e commerciale, essendo una ditta basata sull’export al 100% era fondamentale per noi l’andamento delle valute, ed, infatti, negli anni 80, vivemmo un buon periodo verso gli USA perché grazie alle politiche fiscali e monetarie di Reagan il dollaro si tenne sempre abbastanza alto permettendoci di mantenere stabile il livello di vendite; nel contempo essendo entrati nello SME già dal 1979 avevamo una parziale stabilità di cambio con Francia, Germania e UK. Perdemmo un po’ di competitività verso quest’ultimi Paesi dato che avevamo tassi di inflazione e di interesse più alti ma, rimanendo alta la domanda dagli USA, ne sentimmo poco gli effetti.
Chiaro, negli anni 80 la concorrenza era aumentata e produrre non era più così facile come negli anni del boom, comunque la barca andava e ben pochi andavano a fondo.
Poi verso la fine degli anni 80, a causa dell’allineamento della Lira allo SME credibile, avvenuto nel 1987, cominciò a sentirsi forte il peso dell’inflazione accumulata che non poteva più essere scaricata sul cambio, e a causa anche della “Scala mobile” il costo del lavoro era divenuto in Italia troppo alto rispetto alla concorrenza internazionale
Grazie alle leggi liberiste volute dalla grande industria il mercato europeo si allargava sempre di più verso altri produttori extracontinentali: urgeva cambiare qualcosa nella filiera produttiva o nella commercializzazione.
Fu così che alcuni (pochi)divennero importatori, cioè dismisero il reparto produttivo e cominciarono ad importare il prodotto finito in Italia ed in Europa, si dotarono di un marchio e di una loro rete di vendita, la maggior parte delle imprese invece rimasero produttori puri però delocalizzando alcune fasi di lavorazione nei paesi a basso costo del lavoro, prima il Nord Africa poi nei 90 l’Europa dell Est, incrementando anche un po’ la qualità dei prodotti.
Alcuni ritennero che queste mosse fossero dettate da ricerca di facili profitti, niente di piu’ errato, si trattava invece di necessità indotte dall’impossibilità di sostenere la competizione internazionale che si faceva sempre piu’ forte: il Brasile, la Cina Popolare e Taiwan ci sorpassarono nelle quantità prodotte, da notare però che l’occupazione nel settore non ne risentì all’inizio piu’ di tanto poichè i benefici apportati al listino da una parziale delocalizzazione di alcune lavorazioni permisero poi anche di riconquistare quote di mercato perse negli anni precedenti o di produrre articoli che diversamente non era piu’ possibile fare da diversi anni.
Non fu lo stesso però un processo facile, infatti produrre a 3000 km di distanza non è la stessa cosa di farlo sotto casa, come si può facilmente immaginare, e oltre alle maestranze inesperte c’è anche da considerare il notevole investimento in nuovi macchinari e impianti ed il tempo che vi deve dedicare l’imprenditore sottraendolo alla attività classica.
Con il senno di poi la scelta giusta, economicamente parlando, la fecero coloro che puntarono sulla piena dismissione della produzione, gettarono le basi già allora di un sistema mercantile che sfruttava il basso costo di lavoro dei Paesi in via di sviluppo e la loro prospettiva di crescita finanziata dalla grande distribuzione internazionale sia americana che europea.
E’ chiaro che alla base di scelte diverse c’era anche l’attaccamento al proprio territorio ed alle maestranze da parte dell’imprenditore oltre che le dimensioni familiari della maggior parte delle aziende: in pochi si avventurarono in quella che poi sarebbe stata la mossa vincente.
In quel periodo l’associazione di categoria “ANCI” provò in tutte le maniere a portare a Bruxelles le istanze dei produttori italiani, propose quote e dazi per proteggere l’industria nazionale e l’occupazione nel settore ma, ottenne sempre e solamente rifiuti, in nome del libero mercato e della concorrenza internazionale che doveva stimolare le aziende ad essere più competitive e ad adeguarsi al mutare delle condizioni sociali dei paesi etc etc. Praticamente la stessa solfa che poi si ripeterà per tutti gli anni a venire e che riguarderà tutto il sistema produttivo italiano.
Furono anche gli anni delle grandi privatizzazioni, dell’inizio del saccheggio dell’apparato pubblico da parte dei ben noti poteri, ma allora questi fatti ci scivolavano addosso, come se non ci riguardassero, il benessere era ancora diffuso e il privato era recepito come “migliore” rispetto alla gestione pubblica.
GLI ANNI DELLA SVALUTAZIONE
Si giunse quindi nel 92, alcune aziende avevano delocalizzato ed erano piu’ competitive, il Brasile attraversava un brutto momento sul fronte valutario e politico, l’apparato produttivo interno era fiacco ma tutto il sistema accessoristico funzionava in virtù anche delle prime delocalizzazioni che, come detto, tenevano bene in vita il comparto, ed in questo contesto si inserì la svalutazione della lira e l’uscita dallo SME.
Fino a quel momento avevamo subito in pieno, vista la poca banda di oscillazione, il differenziale inflattivo con i paesi del Nord e, di conseguenza, molti clienti europei trovavano molto più conveniente acquistare in Asia, in poco tempo però gli effetti del cambio si fecero sentire, e cominciarono ad arrivare ordini da Clienti della GDO europea che negli ultimi anni erano irraggiungibili, il combinato delocalizzo-svaluto produsse un forte aumento della domanda nell’ordine anche del 100% annuale ed in quei 4 anni di moneta fluttuante le esportazioni salirono in tutta Italia fino al record storico della bilancia dei pagamenti (vedesi articoli sul corriere o sole24h dell’epoca), noi arrivammo a produrre nella stagione 95/96 fino a 5 milioni di paia di calzature, di cui la stragrande maggioranza prodotte completamente in Italia dalla A alla Z, lasciando alle fabbriche all’estero solo alcune fasi di ordini particolari, ma la filiera base era ancora quasi tutta italiana.
Per dare meglio l’idea del personale occupato direttamente ed indirettamente si può quantificare in circa 300persone a pieno regime necessarie per produrre un milione di paia di livello medio basso quindi raggiungemmo punte di 1500 persone coinvolte nel ciclo produttivo.
Ecco, io ritengo che quegli anni produssero una ricchezza tale in Italia,specialmente nel nord-est, con cui il paese potè vivere di rendita per una decina di anni, sfortunatamente, e quindi non accorgersi in tempo del danno epocale che le avrebbe prodotto entrare nell’eurozona.
POI SI ENTRA IN EUROZONA
Il vento comincia a a cambiare nell’estate del 96, alcuni grandi gruppi americani annunciano l’imminente chiusura dei loro uffici in Italia, che, di fatto, significava anche un calo drastico degli ordinativi, non so quanto possa aver influito su quelle decisioni ila rivalutazione della lira e le manovre politiche per far sì che anche l‘Italia entrasse nell’euro, certamente alcune grosse compagnie americane nostre Clienti avevano lobbisti a Washington e possedevano i mezzi per prevedere le dinamiche finanziarie mondiali al meglio: in un anno perdemmo quasi il 50% della ns quota USA, risultato che poi si ripetè nel 97/98 vale a dire che nel 99 avevamo circa il 70% in meno di ordinativi USA rispetto al 96, e ricordo che nel 97 fu fissata la parità euro con le altre monete europee.
Nel frattempo dovemmo sostituire le vendite perse in USA con quelle verso i paesi europei ma con l’aumento di valore della lira fummo costretti a puntare tutto sulla delocalizzazione, in particolare in est europa, ed a concentrarci su prodotti a più alto valore aggiunto; facile a dirsi ma non a farsi, cioè noi dovevamo produrre quasi tutto a 3000 km di distanza, con manodopera meno qualificata, fare prodotti di fascia più alta, a clientela più sofisticata e pronta al reclamo, quantità medie per ordine ridotte, riscossioni a lungo e sconti qualità, mentre prima con il mercato USA facevamo un prodotto facile, tecnologico con poca manodopera, prodotto interamente sotto casa, fascia bassa con medie di ordini quantità molto alte per articolo, zero reclami e pagamenti veloci.
Si può obiettare che dovevamo intuire prima che l’andamento del mercato internazionale delle valute ci avrebbe portato ad una situazione tale e che quindi già negli anni precedenti dovevamo predisporre delle contromisure.
Vero, ci aspettavamo che l’andamento fosse ciclico cioè che dopo l’effetto svalutazione ritornasse un periodo di vacche magre, ma l’ondata congiunturale in negativo fu così forte che ci colse di sorpresa, cioè era prevedibile un calo degli ordinativi ma non di quel livello, solo più tardi ebbi l’impressione che nel mondo si preparasse qualcosa di sconvolgente e che noi fossimo travolti da correnti negative di portata epocale, c’è da dire che sicuramente i grandi importatori mondiali erano a conoscenza e pronti alla grande globalizzazione degli anni 2000 ed alla entrata della Cina nel Wto mentre noi dormivamo sugli allori e quando ci siamo risvegliati ci siamo accorti che eravamo soli, la politica non ci aiutava, l’Europa era maligna, l’America spostava il baricentro in Asia del tutto, ma non ci sembrava possibile che i nostri governanti fossero così idioti!! Non intuimmo in tempo che l’italia stava per rinunciare alla propria sovranità economica a beneficio degli interessi finanziari e mercantilistici del nord europa e che i ns politici ne sarebbero stati i complici, si pensava che per quanto i ns governanti fossero incapaci o corrotti mai avrebbero permesso di smantellare un apparato industriale forte e produttivo come quello dei distretti e che il sistema avrebbe comunque prodotto un anticorpo atto a far sì che la ruota continuasse a girare come sempre aveva fatto dal dopoguerra in poi.
Comunque c’era la consapevolezza che in un clima così mutato si rendevano necessari grandi cambiamenti nelle strutture commerciali e produttive, servivano nuovi prodotti, maggiore qualità, rete di vendita capillari, marchi di fabbrica, investimenti a largo raggio; dunque, ogni azienda affrontava una propria scommessa sul suo futuro dando fondo a tutte le risorse disponibili sia a livello finanziario che umano.
Ebbene questa scommessa fu persa dalla maggioranza delle aziende della mia provincia, ed i motivi sono essenzialmente nell’accelerazione esagerata che ci fu nelle dinamiche economiche, che proseguì nei primi anni 2000, mitigata un po’ da un tasso di cambio euro/dollaro a ns favore fino al 2002 ma che proseguì inesorabile fino al tracollo finanziario del triennio 2008/2011 dove il credit crunch dette la botta finale all’economia della zona.
Sono certo che se fra il 2000 ed il 2005 l’Italia avesse potuto riequilibrare la moneta anche solo di un 20% e non avesse dovuto aderire alle folli regole di Basilea 2 sul credito, larga parte del ns apparato industriale locale come quello nazionale sarebbe ancora in vita, invece il credito al consumo ed i bassi interessi sui mutui favorirono solo l’edilizia e le importazioni creando quella bolla di debito privato che poi deflagrerà dopo il caso Lehman.
RIEPILOGO FINALE
Riepilogando dal 92 al /99 il ns fatturato ebbe + o – il seguente andamento:
Mercato USA Europa + UK totale
1992 7 mld 3mld 10 mild
1993 10mld 10 mld 20 mild
1994 25mld 20mld 45 mild
1995 25mld 25mld 50mld
1996 25mld 30mld 55 mild
1997 15mld 30mld 45 mild
1998 10mld 30mld 40 mild
1999 7mld 28mld 35 mild
Ma mentre nel 1992 il fatturato era prodotto al 95% con lavoro italiano, e tale percentuale si mantenne su quei livelli fino al 95/96 , poi nel 1999 la nostra produzione usci’ per un buon 75% da stabilimenti esteri, con le conseguenti perdite di molti posti di lavoro in Italia a beneficio di quelli nei paesi dell’Est europa, nel ns caso Slovacchia e Albania.
Gli anni successivi videro il progressivo ridursi del numero delle aziende con tanti fallimenti, dismissioni, continue delocalizzazioni come ho già in parte descritto prima, fino ad oggi dove il settore conterà si e no su il 20% (non ho i dati della cccia e vado a naso) delle aziende attive in provincia negli anni 90.
Roberto Caletti, imprenditore
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