Lo spirito della Resistenza
Senza conoscere i sentimenti, i desideri ed il pensiero dei protagonisti della Resistenza italiana non possiamo comprendere a fondo l’ideologia accolta dalla nostra Costituzione.
La Resistenza italiana, pur essendo accomunata a quelle degli altri Paesi europei dal netto rifiuto dei regimi nazi-fascisti esistenti, fu infatti caratterizzata da un peculiare desiderio di profondo rinnovamento rispetto al modello liberale che aveva dominato l’Italia prefascista e dal preciso obiettivo, la cui realizzazione venne poi affidata all’Assemblea Costituente, di costruire una democrazia-modello che rappresentasse la massima rottura con il passato e ne rendesse, al tempo stesso, impossibile il ritorno.
Per capire bene questo aspetto peculiare del costituzionalismo italiano, occorre risalire alle tragiche settimane che seguirono all’ 8 settembre 1943.
Con la caduta del fascismo, l’armistizio, l’ignominiosa fuga di Pescara della monarchia e la dissoluzione dei vecchi poteri, il popolo italiano si trovò improvvisamente solo con la propria coscienza.
Fu proprio allora, dalla violenta rottura con le istituzioni che fuggivano abbandonandolo al suo incerto destino, che il popolo italiano trovò lo spirito che gli consentì di riscattare l’onore del Paese e che quattro anni dopo permise ai padri costituenti di proclamare solennemente, nel primo articolo della sua nuova Costituzione, il carattere democratico della Repubblica Italiana.
Fu lo “spirito della Resistenza”.
Fu coscienza della dignità nazionale e senso della responsabilità personale.
Fu desiderio di rinnovamento assoluto e radicale, di rifiuto del passato, di ricostruire dal basso, con l’impegno personale di tutti, una nuova Italia.
Così lo descrive uno straordinario protagonista di quell’epoca: << ricostruzione dal basso, impegno e responsabilità di ciascuno per assolvere nel miglior modo il proprio compito, liquidazione definitiva del passato: questo fu il lievito della Resistenza. In qual modo si dovesse ricostruire, quali nuovi istituti creare, quale volto preciso dare all’Italia di domani, pochi avrebbero saputo, pochi anche negli stessi partiti che guidavano la lotta. Ma alcune idee erano presenti in tutti, erano patrimonio comune dei resistenti, e si potrebbero riassumere in una frase: fare tutto il contrario del fascismo. Il fascismo aveva esasperato la retorica della patria, e nel nome della patria il popolo aveva sofferto mentre i gerarchi si arricchivano. Nel nome della patria si erano mandati i figli d’Italia ad aggredire altre patrie e a morire tra le aspre montagne dell’Epiro o nelle immense piane della Russia, mentre si consegnava l’Italia all’occupazione tedesca e alcune province italiane, tra cui Trento e Trieste, addirittura all’amministrazione tedesca. Fu proprio al fondo di questa umiliazione, mentre si dissolvevano le autorità statali, e, non più ordini dall’alto imponevano ai cittadini una determinata condotta, proprio quando il nemico si accampava da padrone nelle nostre città e sin nelle nostre stesse case, che il popolo italiano seppe ritrovare, al di là dell’immagine falsa della patria fascista, il sentimento e la coscienza della dignità nazionale. E ancora un altro, forse più profondo valore, fu conquistato quasi d’impeto in quei mesi: il senso della responsabilità personale, principio e fondamento di ogni vita democratica. Il fascismo aveva non solo soffocato colla costrizione esterna ogni forma democratica, ma, quel che è peggio, aveva cercato di soffocare e di spegnere nel conformismo, nell’indifferentismo o nell’ipocrisia, il senso dell’autonomia e della dignità individuali, la coscienza che ciascuno deve avere del proprio diritto e dovere di scegliere, di decidere, di assumere delle responsabilità. In quelle difficili settimane che seguirono la caduta del fascismo e l’armistizio, la fuga della monarchia e la dissoluzione dei vecchi poteri, il popolo sentì di nuovo la propria tremenda responsabilità, sentì che nessuno poteva rimanere estraneo o indifferente, sentì il dovere di impegnarsi per sé e per i figli, per i vicini e per i lontani, per il presente e per il futuro. Se la democrazia è la maturità dei popoli, la Resistenza è stata una vera scuola di democrazia, perché ha compiuto il miracolo di dare una precoce maturità anche ai giovanissimi. […] Il fascismo aveva favorito scandalosamente i “padroni del vapore”, i grandi magnati dell’industria e della finanza, ne aveva moltiplicato i profitti a detrimento della condizione operaia, aveva imposto i patti di lavoro, aveva imposto i salari e gli stipendi, aveva aggravato e legalizzato lo sfruttamento: l’Italia di domani avrebbe dovuto essere invece l’Italia dei lavoratori, avrebbe dovuto assicurare a tutti nuove condizioni umane di vita, dare piena attuazione alle esigenze sociali dei tempi nuovi, spezzando il prepotere delle oligarchie finanziarie favoreggiatrici del fascismo e da esso favorite. Su questi punti essenziali: sovranità e responsabilità diretta del popolo, massimo sviluppo delle autonomie, democrazia anche sui luoghi di lavoro, vaste riforme sociali, si può dire che vi fosse un orientamento comune delle più varie correnti, ed esso formava il contenuto di quella rivoluzione dal basso che era nell’animo di tutti >> (L. BASSO, Il principe senza scettro, Milano, 1958, Capitolo II, Lo spirito della Resistenza)
Non ho trovato, in altre letture in materia, parole che sapessero descrivere in modo così efficace il moto popolare che ci condusse alla Liberazione, poi all’Assemblea Costituente ed, infine, a quell’evento storico, di rilievo epocale per i suoi contenuti “rivoluzionari” (dato il programma di radicale cambiamento nelle strutture sociali in esso annunciato), rappresentato dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
Parole che, oltretutto, si rispecchiano nelle testimonianze lasciatemi dai miei famigliari. Penso allo smarrimento di mio padre, appena ventenne, arrestato, con l’intera Compagnia di sua appartenenza, da due (solo due!) militari tedeschi nei giorni immediatamente successivi all’ 8 settembre. Penso alla sua dignità, al suo senso di responsabilità, al suo coraggio di rifiutare l’opzione più semplice (quella di aderire alla RSI e di collaborare con i nazisti), preferendo la deportazione nei campi di concentramento tedeschi, pur nella consapevolezza del rischio elevatissimo (insieme a lui furono deportati oltre 200 soldati italiani e ritornarono a casa solo in 13) che comportava la sua scelta. Penso al senso del dovere di mio suocero, salito, poco più che ventenne, sulle colline dell’Oltrepò pavese per combattere, da partigiano, l’invasore straniero. Penso al senso di responsabilità ed al coraggio dei suoi famigliari, dei suoi amici, di tutta la gente della sua terra: assicurarono rifugio, copertura ed assistenza ai nostri combattenti, esponendosi, non meno di questi ultimi, alle rappresaglie nazi-fasciste.
Tutti sentirono il dovere di impegnarsi e diedero il loro contributo in quelle settimane e nei mesi che seguirono, sino alla Liberazione.
Lo fecero con la dignità di un popolo che, nel suo momento peggiore, ritrovava unità e forza per riscattare il proprio onore, guadagnandosi il diritto di progettare un futuro di democrazia effettiva, di ricostruire il Paese trasformandolo in modo radicale rispetto al passato, secondo le istanze di libertà, sovranità popolare, uguaglianza sostanziale e giustizia sociale provenienti da una rinnovata e diffusa coscienza collettiva. Un compito preciso, ben chiaro e definito nel pensiero e nel progetto politico di tutti i resistenti, che veniva affidato, per la sua completa realizzazione, all’Assemblea Costituente.
Questa idea di una nuova Italia del domani come Stato sociale (e perciò democratico), in netta contrapposizione allo Stato liberale prefascista, è il filo conduttore che lega lo spirito dei resistenti ai principi fondamentali della Costituzione del 1948, chiarendone il profondo significato.
Lo spirito di tutti i resistenti e di tutti i gruppi politici di allora. Sia della parte laica e socialista (tanto la più radicale quanto la moderata), sia della militanza cattolica, che seppe dare, con i suoi uomini migliori, un contributo molto importante alla stesura della nostra Legge fondamentale.
E’ fondamentale capire, per comprendere a fondo la nostra Costituzione, che il desiderio di rottura con il regime precedente, che la spinta al rinnovamento democratico furono avvertiti da tutti i partiti di massa, non solo da quelli socialisti, a cominciare dalla Democrazia Cristiana.
Già in occasione del primo ed ultimo congresso dei C.L.N. dell’Alta Italia, tenuto a Milano nei giorni 31 agosto e 1 ° settembre 1945, appena quattro mesi dopo la Liberazione, si registrano, ad esempio, significative dichiarazioni da parte democristiana sulla Costituzione futura. Così ad esempio si espresse il relatore BRUSASCA: << Ci avviciniamo alla Costituzione. Quali ne sono i fini? Troppi Italiani riducono il fine della Costituzione al problema istituzionale: è un grave errore. Il problema istituzionale, infatti, è soltanto uno dei problemi, e neppure il più importante, perché la trasformazione dello Stato è un mezzo al fine, di guisa che se noi limitassimo la nostra preparazione per la Costituente alla semplice trasformazione dello Stato da monarchia in repubblica, non realizzeremmo lo scopo fondamentale della Costituente stessa, che è quello di dare un nuovo assetto sociale allo Stato italiano. Il popolo desidera il ripristino delle libertà politiche, la libertà di pensiero, la libertà di associazione, la libertà di stampa, tutte le libertà tradizionali, ma sa che queste libertà non sono più sufficienti, perché se i lavoratori avessero la libertà di pensare come vogliono, ma non avessero il pane e il lavoro, la Costituzione segnerebbe un grande fallimento. Se il popolo italiano non constatasse nelle disposizioni della Costituente che l’Italia cammina per dare ai lavoratori la certezza dell’avvenire, per realizzare il benessere già raggiunto da altri popoli, noi avremmo fatto della Costituente una grande giostra politica che si convertirebbe in una beffa sociale. Noi dobbiamo perciò ricordare e precisare che i fini della Costituente devono essere soprattutto sociali e ciò per ottenere una vera pacificazione degli animi e per dare allo Stato di domani quella solidità politica senza della quale noi potremo contare ben poco tra le Nazioni Unite. Nella propaganda, nella esposizione dei fini della Costituente ricordiamoci, dunque, che la sua meta essenziale è quella sociale […] >> (1° Congresso del C.L.N. dell’Alta Italia – Unire per costruire, 1945, 9-12).
Negli atti della XIX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, tenuta a Firenze nei giorni 22-28 ottobre 1945, si possono leggere relazioni del tutto sorprendenti per apertura e per audacia, come quelle di LA PIRA, che afferma: << La crisi esiste. Quale tipo di Costituzione è in crisi? La risposta di cattolici, socialisti e comunisti è identica: è in crisi lo Stato borghese capitalista: cioè quel tipo di Stato che ha una Costituzione ispirata al principio della libertà individuale quale fu elaborato dalla dottrina illuminista inglese e francese e quale fu trascritto nel Contratto sociale di Rousseau e nella Costituzione francese del 1791 ed in quelle analoghe che ne derivarono >> (Costituzione e Costituente – Atti della XIX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, 1946, 289).
Quando poi, nell’aprile 1946, alla vigilia delle elezioni per la Costituente, la Democrazia Cristiana tenne il suo primo congresso nazionale, approvò la relazione GONELLA e un progetto di Costituzione che vanno assolutamente ricordati, soprattutto oggi, con un esponente della vecchia D.C. appena eletto a Capo dello Stato (e, dunque, a supremo custode della Carta fondamentale). Come certamente sa il nostro nuovo Presidente, le affermazioni più impegnative del relatore del suo ex partito riguardavano l’azione sociale: << La Costituzione deve essere un motore per riformare il sistema sociale che produce la disoccupazione. Deve essere un impegno ed una promessa di uscire dalla situazione contraddittoria di un’Italia che ha bisogno di fare tutto mentre le braccia dei suoi figli sono costrette a restare inoperose. Il nostro laburismo cristiano dice che è troppo poco affermare un astratto diritto al lavoro. Bisogna affermare il dovere della collettività di porre in essere le possibilità di lavoro. La rivoluzione francese ha segnato la fine della civiltà feudale e l’inizio della civiltà borghese. Ora questa è moribonda, e incomincia la civiltà del lavoro, della libera comunità operosa… Non basta affermare la libertà politica: bisogna che il nostro sistema economico sia tale da creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica. Il divorzio ottocentesco tra politica ed economia non regge più. Bisogna fare dei diritti politici delle leve per influire sul mondo economico, al fine di realizzare un’economia secondo giustizia sociale. La libertà politica deve essere quindi integrata dalla giustizia sociale la quale è un aspetto della libertà: tende a rendere concreta e garantita la libertà fissando i doveri sociali di fronte ai diritti individuali. […] Le Costituzioni liberali conobbero un solo tema: la libertà; mentre le Costituzioni nuove e democratiche devono conoscere un secondo tema: la giustizia sociale. Si è osservato che non si tratta di qualche cosa di aggiuntivo, di un’appendice più o meno superflua, ma si tratta di qualche cosa che deve informare tutta la Costituzione. Quindi lo spirito della Costituzione non potrà essere posto, come fu un tempo, nel formalismo giuridico, ma anche, come sarà domani, nel progressismo sociale. Tutto ciò è reso inderogabile non solo dalle nostre aspirazioni verso un ordine sociale secondo giustizia, ma anche dalle necessità immediate di avere dei principi direttivi e propulsori delle urgenti opere di ricostruzione che devono essere subito orientate secondo le nuove esigenze della giustizia sociale in modo di porre le premesse concrete del nuovo sistema. Come è possibile fissare i diritti dell’uomo senza fissare i diritti del lavoro? Come è possibile garantire le libertà dell’individuo senza garantire la libertà di possedere? Lo Stato liberale aveva una funzione prevalentemente negativa, cioè mirava a garantire delle zone franche di libertà personali. Era lo Stato del lasciar fare al più forte, e dell’astenersi da ogni aiuto positivo a favore del più debole. La nostra democrazia non accetta quel liberalismo che può finire per far trionfare la legge della foresta. Non vi può essere solidarietà tra il lupo e l’agnello, e bisogna cacciare il lupo se si vuole che l’agnello finisca di belare eternamente al vento. La fraternità cristiana non può convivere colla solidarietà tra i lupi che conoscono solo la legge della foresta. Il primo dovere di quanti solidarizzano nello spirito della comunità cristiana è quello di lavorare per bandire dal mondo la legge della foresta. L’uguaglianza politica è inoperosa e contraddittoria in un clima di egoistiche ed artificiose disuguaglianze economiche: è un’uguaglianza che può finire semplicemente per legalizzare l’ingiustizia. Per esempio: lo Stato liberale riconosce a tutti la libertà di stampare giornali, ma il suo sistema economico non offre a tutti la possibilità di avere i mezzi per stamparli. E allora, a che cosa si riduce la libertà di stampa? […] Ciascuno deve lavorare secondo le proprie attitudini e deve essere ricompensato non solo secondo il suo lavoro, ma anche secondo i bisogni di sostentamento della famiglia. Affermiamo quindi la necessità del salario familiare, cioè del salario commisurato non solo al prodotto del lavoro ma anche alle necessità della famiglia, del salario integrato da veramente sensibili assegni familiari. Ma questa è una tappa: la meta ultima a cui miriamo è l’emancipazione del lavoro e quindi l’eliminazione del salario e della conseguente servitù del proletariato, favorendo l’accesso del lavoro alla proprietà e rendendo possibile una progressiva democratizzazione della ricchezza. Per questo devono essere promosse forme concrete di partecipazione degli operai all’amministrazione, alla gestione ed ai benefici dell’impresa, e devono essere rese efficienti tutte le forme assistenziali e previdenziali […] vogliamo eliminare le formazioni monopolistiche e parassitarie, i protezionismi ed i vincolismi a favore dei privilegiati avvicinando il capitale al lavoro e tendendo a farli coincidere […] Vogliamo una radicale riforma agraria che immetta i lavoratori della terra nel possesso e nel godimento diretto della terra. Noi partiamo dal principio: non più collezionisti di terre, e vogliamo che la proprietà della terra non possa superare un certo limite equo […]. Partendo da queste premesse dobbiamo fissare il nostro programma per l’attuazione della giustizia sociale, avvertendo quanti fuori, e forse dentro il partito, si illudono di conservare le loro situazioni di privilegio, che la Democrazia cristiana considera come rigorosamente impegnativo il suo radicale programma di riforme economiche >>. Il resoconto stenografico dell’intervento registra a questo punto: << L’Assemblea sorge in piedi e prorompe in vibranti acclamazioni che durano alcuni minuti. Si chiede a gran voce che l’oratore ripeta questo monito >> (GONELLA, Il programma della Democrazia Cristiana per la nuova Costituzione, 1946, 41, 42, 48, 49, 50, 51).
Ecco, questo è lo spirito della Resistenza.
Questo è il mandato che i resistenti affidarono alla Costituente italiana.
E questo è lo spirito della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ideologia accolta, in modo irreversibile, dalla nostra Carta fondamentale.
Chi giura fedeltà ad essa, giura fedeltà allo spirito della Resistenza, cioè ad un’ideologia nettamente contrapposta a quella neoliberista rivitalizzatasi nel diritto e nelle politiche della UE.
Chi non avversa queste ultime, quando giura fedeltà alla nostra Costituzione nello stesso istante la tradisce.
Vedremo nel prossimo futuro come si comporterà il nuovo Presidente, che ha ben chiari questi concetti e che sa perfettamente come l’obiettivo della “stabilità dei prezzi”, la concorrenza in un mercato “fortemente competitivo”, l’indipendenza della banca centrale, la perdita della sovranità monetaria e fiscale dello Stato, la libera circolazione dei capitali, la moneta unica, siano inconciliabili con “il dovere della collettività di porre in essere le possibilità di lavoro”, con un’azione politica della Repubblica (lo Stato-apparato) finalizzata all’ “attuazione della giustizia sociale”, con “l’emancipazione del lavoro”.
Nell’attesa (temo vana), sappiamo però come noi dovremo comportarci.
La situazione di oggi ha forti similitudini con quella originatasi dopo l’ 8 settembre del 1943: oggi come allora vi è una netta frattura tra il paese reale e le istituzioni politiche, tra la classe dirigente ed il popolo. Allora l’oligarchia liberale, espressione delle elites capitalistiche e finanziarie dominanti, era connivente con il regime fascista. Oggi quelle stesse elites, riorganizzatesi a livello internazionale, perseguono i loro egoistici interessi avvalendosi, in Europa, del regime iperliberista e plutocratico della UE. Oggi come allora il popolo italiano subisce, rimanendo inerte, soffocato e spento “nel conformismo, nell’indifferentismo o nell’ipocrisia”. Oggi come allora un invasore straniero (sempre quello, almeno per una consistente parte, seppur non esclusiva) si sta impossessando del patrimonio italiano. Non è fisicamente nelle nostre case, come lo era allora, ma vi sta entrando con una diversa forma di violenza: quella di una crisi economica appositamente indotta.
Abbiamo un solo compito, lo stesso di cui si fecero carico i resistenti: riscattare la dignità del nostro popolo, ritrovando nella nostra coscienza quel senso di responsabilità in cui si riassume lo spirito della Resistenza.
Solo così ci libereremo (https://www.youtube.com/watch?v=gtAgwJkEXm4).
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
Fa sempre bene leggere queste parole che ci riportano ad un momento così fondante della nostra storia. Migliaia di giovani decisero di mettere a rischio la loro vita (e molti la persero) pur di non sottostare ai nazi-fascisti. Mio padre fu uno di loro: della leva del ’26, richiamato nelle file della RSI, preferì andare coi partigiani che combattevano nel Monferrato. Non sparò un solo colpo (bè, in effetti ne sparò uno, ma uccise… un albero!) ma per tutta la sua vita fu contento di aver fatto la scelta giusta.
Tuttavia, quelle belle parole, anche di esponenti democristiani, non possono far dimenticare che la nostra bella Costituzione fu in gran parte disapplicata fin dai primi anni della Repubblica, ed in vari modi.
Quale tipo di rinnovamento democratico ci potrebbe mai essere, se una nazione non fa i conti con se stessa, se chi aveva un qualche potere con il regime torna dopo poco tempo, lindo e profumato, al posto che aveva prima?
Quale dignità si offre ai lavoratori, se l’unica risposta dei governi DC è stata la Celere di Mario Scelba?
La Realpolitik e la contrapposizione dei due blocchi non fu l’unico motivo di questa situazione, ma anche una diffusa ipocrisia ed il sentirsi sempre e comunque irresponsabili ed innocenti delle proprie scelte, perchè tanto è sempre colpa di qualcun altro.
Non mi pare che questa Italia e quella degli anni ’50 sia poi molto diversa.
Sono d’accordo, la spinta per un cambiamento non verrà mai da una generica e politically correct difesa della Costituzione più bella del mondo ma da un forte anelito verso una nuova eguaglianza.
Alle masse popolari della Costituzione in quanto tale non gliene può fregare di meno, devi dargli una speranza di miglioramento e di elevazione.
Senza egualitarismo o socialismo o comunismo, fate voi, non può esserci nessun forte moto di cambiamento.
Non sono d’accordo con Adriano in punto di fatto, ripeto in punto di fatto. Forse viviamo in due mondi diversi. Da anni non incontro masse popolari alle quali interessino il comunismo, il socialismo o l’egualitarismo, anzi non incontro nemmeno singoli appartenenti alle masse popolari ai quali interessino comunismo, socialismo ed egualitarismo (esclusa la rete, dove qualcuno ancora si trova). Gli esponenti delle masse popolari che mi capita di incontrare in banca, al supermercato, al bar, in piazza, ai giardinetti con i bambini vogliono possiblità di mobilità sociale per i figli (in particolare è un desiderio di chi fa sacrifici per far studiare i figli), lavoro, redditi dignitosi, insomma un’economia sociale e popolare dove ci sia lavoro e il lavoro sia remunerato con un salario idoneo a provvedere alle esigenze proprie e della famiglia. Fondamentalmente le masse popolari vogliono proprio una parte di ciò che è previsto nella Costituzione, la parte che direttamente le riguarda.
A tutto il resto (dirigismo economico, sovranità monetaria, lotta alla rendita, amor dipatria e altro), pur previsto nella costituzione, ci deve pensare la nuova proposta politica, ossia una organizzazione di alcune migliaia di uomni che parli e parlando cambi i desideri, le conoscenze, i giudizi delle masse popolari.
Ma il problema è proprio questo, che le masse popolari non hanno più ambizioni egualitarie e quindi, guarda caso, non hanno tout court ambizioni politiche.
Non credo che si riuscirà ad ottenere qualcosa se non riattivando le aspirazioni ad un mondo più giusto , non credo cioè che si possa ottenere il poco senza puntare al molto.
Per scardinare trent’anni di propaganda liberista ci vuole passione e per suscitarla secondo me bisogna fornire un paradigma sociale nettamente diverso da quello dominante,devi riattivare il senso di ciò che è giusto e di ciò che non lo è e devi convincere che certe ambizioni non sono sogni ma diritti.
Adriano, la “speranza di cambiamento e di elevazione” sta nella Costituzione e non implica comunismo, socialismo o egualitarismo. In senso lato, secondo me, è socialismo ma in senso lato va precisato.
E’ qui che tu e alcuni come te, fortunatamente pochi, commette l’errore.
Inoltre, la Costituzione è molto altro: ci dice che non può esserci democrazia senza partiti e quindi invita alla militanza. Volere la speranza di cambiamento e di elevazione senza partiti è assurdo. C’è un ordine logico tra le due cose. Quindi coloro che più vogliono cambiamento ed elevazione devono prima avvertire il dovere di militanza, altrimenti sono quaquaraqua.
C’è poi la riflessione su come siamo finiti in questa melma, come mai la classe dirigente italiana sia così di basso livello. E c’è l’altra riflessione, relativa alla ricostruzione della nostra storia, sempre faziosa e autorazzista, mai non dico orgogliosa ma critica ed equilibrata: tutto il bene che abbiamo realizzato, tutto il benessere che abbiamo avuto, la mobilità sociale che ci ha caratterizzati, tutti i primati raggiunti nella storia sono casuali o dipendenti da geniacci; tutto il male invece proverrebbe dalla politica (risorgimentale, poi liberale, poi fascista,poi resistenziale, poi democristiana) e dallo stato.
In realtà nella Costituzione c’è anche altro ma conviene semplificare.
Oggi abbiamo bisogno di persone che comprendano l’importanza decisiva di una pluralità di problemi e temi: dei partiti, della militanza, della classe dirigente, dell’unità della dignità e della storia nazionale, della giustizia, della elevazione dei ceti subalterni, della mobilità sociale e del dirigismo economico statale.
Chi pensa a un solo tema non serve, non risolverebbe alcun problema, nemmeno quello che ha a cuore.
Le masse che non sono in grado di elevarsi a tal punto da militare per queste idee vanno considerate domanda politica – estranee dunque alla proposta – e ad esse va chiesto il voto e niente altro. Vedrai che voteranno la prospettiva sovranista e costituzionale. Il problema resta quello di costruire la proposta politica. Poi le masse, che hanno votato persino Berlusconi o Bertinotti o Veltroni o Rutelli o Grillo, voteranno anche la prospettiva sovranista e costituzionale.
Non è possibile. Più leggo e mi informo e più capisco quanto siamo andati indietro e quanto abbiamo perso. Grazie mille Mario