L’incompatibilità tra l’art. 42 della Costituzione italiana e l’art. 1 del Protocollo n. 1 allegato alla Convenzione dei diritti dell’Uomo in relazione alla disciplina dell’esproprio per pubblica utilità.
Con le storiche sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, successivamente, con la n. 338 del 2011 la Corte Costituzionale ha da un lato risolto la “vexata quaestio” relativa all’indennità conseguente all’espropriazione per pubblica utilità e dall’altro l’intricata questione di carattere generale relativa alla gerarchia delle fonti tra norme nazionali e norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Quanto alla questione relativa all’indennità espropriativa il contrasto tra Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Corte Costituzionale scaturisce da una diversa concezione della proprietà.
In particolare l’art. 1 del protocollo 1 allegato alla Convenzione disciplina il regime della proprietà ascrivendolo ai diritti fondamentali dell’uomo, accordandogli, pertanto, una tutela forte.
La Corte Costituzionale avversa apertamente tale connotazione argomentando giustamente che la proprietà attiene piuttosto alla sfera dei diritti patrimoniali. I diritti fondamentali, infatti, sono universali, al contrario dei diritti patrimoniali, come la proprietà, che appartengono a singoli soggetti, i quali anzi, escludono altri dal godimento. Pertanto i primi soggiacciono alla logica dell’uguaglianza, i secondi a quella della differenziazione e dell’esclusione. I primi non sono, in via di principio, modificabili dai “cambiamenti d’umore” delle diverse maggioranze parlamentari che non possono disporre di quanto appartiene a tutti e a ciascuno. Al contrario dei secondi che, a certe condizioni, non sono sottratte al potere conformativo del legislatore. Non si rinviene infatti nella Costituzione italiana quella perentorietà dell’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU che pone in primo piano la tutela della proprietà.
L’art. 42, c. 3 della Costituzione, al contrario, non può essere letto indipendentemente dall’art. 42 c. 2 che finalizza la disciplina della proprietà privata allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Se la tutela della proprietà privata nel sistema CEDU è prioritaria, nella Costituzione italiana è invece palesemente recessiva rispetto alle esigenze solidaristiche. Non si spiega altrimenti come l’art. 5-bis del dl 333/1992, che garantiva un indennizzo completamente sganciato dal valore venale del bene, sia rimasto in vigore per ben più di tre lustri.
Interessante il dibattito che si svolse in Assemblea Costituente (scaricabile on-line nell’archivio storico della Camera dei Deputati) all’esito del quale si approdò all’alto compromesso dell’art. 42. Brevemente ricordiamo che il terreno di scontro si focalizzò sostanzialmente tra due diverse posizioni che ruotavano attorno all’opportunità o meno di riconoscere un’indennità di espropriazione. Tra gli onorevoli contrari all’indennizzo ricordiamo, ovviamente, Togliatti (che giudicò competente a conoscere della questione relativa alla proprietà anche la prima sottocommissione, cioè quella relativa ai “diritti e doveri dei cittadini”, a dimostrazione di quanto la disciplina di questo istituto fosse intimamente collegata all’art. 3, secondo comma, relativo alla c.d. “uguaglianza sostanziale” nonché all’art. 4) ma anche l’on. Ghidini e l’on. Canevari che voleva lasciare al legislatore la libertà di distinguere caso per caso. Tuttavia, al di là della diatriba, quello che è importante evidenziare in questa sede è che in nessuna delle due posizioni che si fronteggiarono (anche in quelle favorevoli ad accordare un’indennità all’espropriato) si prospettò una tutela incondizionata ed assoluta della proprietà privata, volendosi, piuttosto, sottolineare la necessaria subordinazione della proprietà privata al cospetto dell’interesse pubblico nonché la funzione sociale della prima.
Relativamente all’istituto dell’esproprio vengono in rilievo due interessi da contemperare: quello del privato legato alla tutela della proprietà e quello pubblico. L’equilibrio di questi due interessi è strettamente collegato al concetto di forma di Stato. In particolare nello Stato liberale l’interesse pubblico è recessivo rispetto alla tutela della proprietà, al contrario nello Stato sociale assume una posizione preminente.
L’art 42 della Costituzione consacra dunque la transizione dall’assetto proprietario dello Stato liberale a quello dello Stato sociale che non si fonda sulla dogmatica sacralità della proprietà, ma sulla “funzione sociale” della stessa. La proprietà privata non viene negata dalla nostra Costituzione, ma viene inserita in una visione comunitaria (N.B: “comunitaria”, “non collettivista” come avverrebbe invece nei regimi comunisti).
Tale evoluzione del diritto di proprietà si rinviene di conseguenza nel codice civile che passa dalla definizione totalizzante propria dello Stato liberale del 1865 (“La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta”) a quella più soft dell’attuale codice civile, che, pur prevedendo la proprietà come diritto pieno ed assoluto, la assoggetta ai limiti e agli obblighi fissati dall’ordinamento giuridico.
Oggi la consolidata giurisprudenza della Corte Europea adotta, in relazione all’indennità espropriativa, un indirizzo palesemente contrastante rispetto allo statuto della proprietà riconosciuto dalla nostra Costituzione, equiparando, o addirittura anteponendo, quest’ultima al pubblico interesse. (Cfr. ex multis sent. della Corte di Strasburgo Belvedere e Carbonara e Ventura c. Italia, Elia c. Italia per non parlare della famosissime sentenze relative al caso Scordino).
In particolare secondo la Corte di Strasburgo l’indennità da accordarsi all’espropriato in caso di atto ablativo lecito deve corrispondere al valore di mercato (venale) del bene.
Si pensi ad un possibile caso concreto in un auspicabile scenario futuro in cui una rinnovata maggioranza parlamentare, decisamente più illuminata dell’attuale, decidesse, invertendo la rotta rispetto all’orientamento, oggi maggioritario, favorevole alle privatizzazioni, di procedere alla ri-nazionalizzazione totale, ad esempio, dell’Eni (che continua a pagare all’estero dividenti astronomici, soldi sottratti alla comunità italiana ndr); dovrebbe poterlo fare pagando un mero indennizzo ai detentori di azioni in base al criterio della “funzione sociale” della proprietà e non come vorrebbe la Corte di Strasburgo il valore di mercato o addirittura giungere financo alla retrocessione del bene e, qualora questa non sia possibile, al risarcimento del danno (anche morale) in ossequio all’illecito aquiliano ai sensi del art. 2043 del codice civile (cfr. sent. del 17 maggio 2005 in cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 1 protocollo 1 della CEDU stabilendo che l’indennità versata dallo Stato a titolo dell’occupazione d’urgenza non fosse sufficiente a realizzare la riparazione integrale del pregiudizio subito dal privato e pertanto dovesse essere maggiorata di una somma corrispondente alla “restituito in integrum” oltre al pagamento dei danni e degli interessi!).
La Corte Costituzionale nelle sentenze citate in premessa se da un lato ha affermato che l’indennità espropriativa non può essere “simbolica” coniando la formula del “serio ristoro” ha dall’altro escluso categoricamente che questa possa coincidere esattamente con il valore venale del bene in ossequio al criterio della “funzione sociale”della proprietà. La stessa Corte, in un passaggio conclusivo della Sentenza nr. 348 del 2007 valorizzando le istanze solidaristiche poste alla base dell’art. 42, sottolinea che “livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata”.
Ma non è tutto( e veniamo così alla questione relativa alla gerarchia delle fonti dipanata dalla Corte Costituzionale nelle sentenze sopra citate): la Corte di Strasburgo pretende, perfino, di sottoporre a valutazione lo spazio discrezionale lasciato al legislatore nazionale nella regolazione della proprietà: formalmente ossequiosa del potere discrezionale degli Stati, la Corte di Strasburgo ne riduce i confini, sottoponendolo ad obblighi e prescrizioni. L’art. 42 della Costituzione. al 2 e 3 comma prevede appunto una riserva di Legge rispettivamente per la disciplina dell’istituto della proprietà e per quello dell’esproprio.
In ordine all’interrelazione tra ordinamento CEDU e ordinamento interno il giudice delle Leggi ha, pertanto, correttamente chiarito (anche a seguito del novellato art. 117 Cost.) che le norme CEDU, la cui interpretazione è riservata all’esclusiva competenza della Corte di Strasburgo, non sono sovraordinate gerarchicamente né alle Leggi ordinarie italiane né tanto meno alle norme costituzionali. Pertanto non è consentito al giudice nazionale disapplicare la norma interna in contrasto con la norma di derivazione pattizia. Al contrario questo dovrà interpretare la norma interna conformemente alla disposizione internazionale, laddove ciò non sia possibile, per insanabile antinomia tra norme, dovrà necessariamente investire del giudizio la Corte Costituzionale.
Le sentenze de quibus della Corte rappresentano quindi una svolta fondamentale non soltanto, come abbiamo visto, sul tema specifico su cui si pronunciano, ma anche per l’oggetto più generale relativo al rapporto tra Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, e l’ordinamento giuridico nazionale.
Queste decisioni sicuramente provocheranno ulteriori interventi normativi e nuovi orientamenti giurisprudenziali, ma il punto fondamentale su cui dovremmo sempre riflettere è il seguente: possiamo consentire che sia la Corte di Strasburgo a stabilire e delimitare il concetto di interesse pubblico (disciplina riservata dalla Costituzione alla Legge ndr)? E addirittura possiamo consentire che sia quest’organo sovrannazionale a decidere quale forma di Stato debba assumere l’Italia in base appunto al rapporto fra proprietà privata ed interesse pubblico?
I nostri padri costituenti, come si evince, ictu oculi, dalla Costituzione e, in maniera ancor più palese, dal dibattito nelle sottocommissioni, avevano ben chiaro che tipo di Stato e quale forma di economia volevano per l’Italia: optarono, per l’appunto, per lo Stato sociale ed il contestuale ripudio dello Stato liberale che aveva portato alla concentrazione di capitale fondiario ed industriale in poche mani, foriero di regimi dittatoriali e della competizione tra Stati, poi tramutasi fatalmente in competizione bellica.
L’art. 42, 3 comma, della Costituzione era appunto funzionale alla riforma agraria (del 1950) e alla riforma industriale che sarebbe stata approntata da lì a poco ed avrebbe condotto da un lato al tramonto del latifondo per lasciare il posto ad una redistribuzione più democratica delle terre in favore della piccola e media famiglia contadina e dall’altro all’esproprio dei grandi monopoli ed oligopoli industriali privati formatesi in epoca liberale per addivenire a quell’economia mista basata cioè su medie-piccole industrie (financo familiari) e monopoli pubblici (gli unici ammessi) non in concorrenza, ma di supporto alle prime (alle quali avrebbero fornito energia a basso costo, infrastrutture e supporto logistico). Vale a dire quel tessuto industriale che ha condotto l’Italia al boom economico degli anni 60 e che, più in generale, ha caratterizzato per oltre trent’anni il nostro Paese, quando fummo i primi al Mondo per sviluppo e benessere sociale (c.d. “trentennio glorioso” 1945-1975).
Oggi stiamo assistendo ad un rigurgito del periodo liberale con l’uscita dello Stato dall’economia ed il contestuale rinvigorimento dei pericolosissimi monopoli ed oligopoli privati che compromettendo la redistribuzione quanto più possibile diffusa del reddito rischiano di far vacillare il sistema democratico stesso. Quello Stato liberale che i nostri padri costituenti nella loro lungimirante saggezza avevano espressamente ripudiato. Come ci ricordano ,ogni giorno, uno per uno, tutti i sacrosanti 139 articoli della Costituzione del ‘48!
A.R.
“ La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature”. Franklin Delano Roosvelt
Bibliografia:
- “L’indennità di espropriazione tra Corte Costituzionale e Corte Europea dei diritti dell’uomo”. Del Prof. Francesco Manganaro
- “Gli effetti della sentenza n. 181 del 181 del 10 giugno 2011 in materia di espropri e di V.A.M.” di Pippo Sciscioli
- Costituzione economica e diritto di proprietà: la funzione sociale della proprietà Articolo 06.04.2004 di Guido Alpla, Mario Bessone, Andrea Fusaro
- La funzione sociale della proprietà nella Costituzione italiana e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Autore Vito Monteruli
- La tutela della proprietà nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Giorgia Mandò
- L’espropriazione fra Costituzione e CEDU di Gianluca Belfiore
- “Indennità di espropriazione: la Consulta travolge i criteri previsti dal testo unico Corte Costituzionale, sentenza 24.10.2007 n. 348” di Giuseppe Buffone
- “L’effettività dei diritti alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo” di Annalisa Giusti.
- Dibattito assemblea Costituzionale I e III sottocommissione reperibile dall’archivio storico del sito della Camera dei Deputati.
Commenti recenti