I limiti dell'economia
Lo confesso, anche io sono caduto nella “trappola” del contemporaneo: interpretare tutto ciò che avviene quotidianamente tramite l’economia.
Riferisco un fatto autobiografico, non perché reputi importante la mia vicenda personale, ma perché confido che molti si possano essere sentiti nella mia condizione, abbiano provato le mie stesse sensazioni e abbiamo tentato le stesse soluzioni.
Ricordo che è stato in prossimità della crisi economica che ho cominciato a interessarmi a categorie economiche quali “debito”, “deficit”, “pareggio di bilancio”, “patto di stabilità”, “inflazione”, “svalutazione”: prima le avevo semplicemente sentite nominare, così come avevo sentito parlare e non per forza m’interessavo dei Sumeri o dei Babilonesi. Questo disinteresse non soprende affatto, perché nei momenti di benessere e di assenza di preoccupazioni si pensa ad altro e i mezzi di informazione riferiscono di altro. Solo con la crisi economica si è concretizzato un quotidiano stillicidio di notizie sull’economia in generale e sul suo pessimo andamento in particolare, con l’utilizzo di termini che per il profano sono incomprensibili e circondati per questo da un’aura di sacro. Mi sono detto che per comprendere il mondo in cui vivevo dovevo approfondire una materia, che di per sé non mi ha mai affascinato né appassionato: dovevo entrare nel Tempio dell’economia. Non mi sono pentito affatto di questa decisione senza la quale non avrei perso l’idealismo adolescenziale che ancora impastava la mia Weltanschauung, senza la quale non sarei entrato nell’età adulta. E per un certo periodo ai miei occhi tutto, dico proprio tutto, era normato dalle regole dell’economia: non solo ciò che è normale che sia, ad esempio il prezzo delle benzina, il prezzo della frutta e della verdura, ma anche, che so, fare una corsetta prima di cena, fare l’amore, fare un pisolino, prendere un gelato, ecc. Se ben ci pensiamo, ogni dottrina può diventare totalitaria: in certe epoche alcune forme di interpretazione della realtà hanno prevalso su altre. Un tempo erano la religione e la teologia a colonizzare la visione del mondo della maggioranza delle persone; nel contemporaneo è l’economia a farla da padrona: in fondo, da questo punto di vista, è semplicemente una nuova forma di religione.
Procedendo con le mie scoperte, ho constatato però che oggi è solo un certo tipo di visione economica a prevalere sulle altre: vale a dire il liberismo, il libero mercato e la libera circolazione dei capitali elevati a dogma. Contemporaneamente ho scoperto l’esistenza di concezioni affatto differenti, opposte a quella attuale, vere e proprie eresie, che mi hanno illuminato su quanto siano unilaterali le informazioni che ci vengono veicolate dai media al punto da diventare luoghi comuni. Non è un fatto inusuale e viene il sospetto che sia fatto ad arte: dai mezzi di informazione le notizie piovono sul popolo; anche solo alcune gocce di questa pioggia mefitica possono fare più danni di quanto non si pensi. Infatti, c’è la tendenza generale fuorviante a paragonare e a comprendere tutto ciò che accade mediante il particolare, non intendendo che ciò che vale per un individuo o per una famiglia non vale per uno Stato. Ad esempio, quante volte questo discorso è circolato tra le bocche della gente a proposito dell’austerità: “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, dobbiamo tirare la cinghia”, oppure “il problema è il debito pubblico, i nostri figli nascono già con un debito di migliaia di euro”? Questo amalgama tra esperienza vissuta, l’orecchiato alla tv, il mal letto su qualche blog o quotidiano, è la base su cui si forma il cosiddetto consenso della cosiddetta società civile. Ben venga dunque la contro-informazione che libri, blog, siti web, portano avanti, anche e soprattutto in questo campo, affinché ci liberiamo da questa confusione che è l’ordinario. Non nascondo quali sono le fonti di contro-informazione a cui spesso ho attinto: il sito-blog di Paolo Barnard, la Modern Money Theory, altri siti di informazione che si rifanno a Keynes. Con tutto ciò non posso affermare di avere risolto alcunché, anche perché c’è il rischio sempre fondato, a meno che non si diventi uno specialista, di dire cose inesatte, di spacciare per verità indubitabili quelle che sono semplici ipotesi. Ad ogni autodidatta difettano il metodo e il discernimento e io non pretendo di fare eccezione. Sono entrato dunque nel Tempio del contemporaneo da profano e profano rimango: non ambisco a diventare un esperto, potremmo dire che vi sono entrato con lo stesso spirito del turista occidentale da viaggio organizzato che visiti un tempio induista.
L’esperienza che ho accumulato, però, mi ha portato almeno a comprendere una cosa che reputo essenziale: se è senz’altro necessario avere una base di comprensione delle teorie economiche, non foss’altro per rendersi conto che solo una oggi ci domina, questo primo passo non è sufficiente ma è solo una della possibili condizioni per un’azione politica efficace ed efficacemente orientata. Detto altrimenti, se l’ignoranza in materia di economia comporta spesso e sovente un’azione politica ignara dei veri problemi, non è vero il contrario: la conoscenza della materia economica non determina necessariamente un’azione politica. Questo spiega il titolo del mio articolo: la politica si compone di differenti fattori e la sua azione volta a organizzare il consenso non deve ricevere dalla economia il suo impulso. Non è conoscendo a menadito come si forma il debito, o come funzionano i titoli pubblici, o come avviene l’emissione della moneta, che si può battere il liberismo dominante. Non occorre che tutto il popolo sappia queste cose, sia perché è irrealistico pensare che ciò avvenga, sia perché, se anche accadesse, non cambierebbe nulla. È importante perciò essere realisti su entrambi i fronti:
1) L’azione politica e il nostro quotidiano sono in buona parte condizionati oggi dal sistema economico: perciò non conoscendo i fondamentali della materia si rischia di essere “idealisti”, nel senso che si tende a ignorare le vere cause della crisi, ad attribuire ad altro la vera causa del nostro malessere. Ad esempio, accade che di fronte alla diminuzione dei posti letto negli ospedali, al peggioramento dei servizi pubblici, alla mancanza di posti negli asili nido, si tenda a cercare la causa nella corruzione o nel debito pubblico, senza comprendere che la vera causa è a livello generale e macroeconomico. Oppure, nei casi peggiori, si è tentati di fare di nozioni prettamente economiche tipo il concetto di crisi o di debito, a causa della ignoranza in materia economica, qualcosa di più e diverso rispetto al loro ambito, in questo modo stravolgendone il significato: crisi o debito come una categorie esistenziali o metafisiche. Oppure tenderemmo a generalizzare indebitamente casi isolati per trarne lezioni universali di tipo antropologico: l’italiano è per natura corrotto o il greco scansafatiche. Ben venga, dunque, lo studio dell’economia anche da parte del profano se porta al crepuscolo di idoli, a mettere le cose al loro posto, a desacralizzare certe categorie, se riconduce alla prosa del particolare dopo i voli pindarici della metafisica della crisi o del debito.
2) Tuttavia, occorre essere consci che tutto ciò non è sufficiente, perché la maggior parte delle persone, del tutto legittimamente, non può, non ha i mezzi, o non vuole, approfondire l’economia per smascherare il pensiero unico del liberismo. Aggiungo che mai un economista, in quanto specialista, potrà guidare un partito politico o diventare capo politico, o dare un contributo decisivo all’azione della politica per la creazione del consenso. Certo, l’obiezione è nell’aria, conseguenza degli assunti sopra riportati: se tutto o quasi oggi sembra ridursi all’economia, se la vere divinità oggi sono il libero scambio e il denaro investito, perché non possono i suoi sacerdoti, gli economisti, fare politica efficace e soprattutto guidarci alla vittoria contro il sistema dominante? Non dico che in parte non possa essere così: questo spiega il relativo successo di economisti o studiosi di economia, che a volte diventano delle specie di guru. Affermo, tuttavia, che non tutto in fondo si riduce a questo, che ciò non è sufficiente, che altri valori sono richiesti per fare politica e cercare di cambiare la società.
Davanti a questi due elementi, a mio avviso imprescindibili e a prima vista contrastanti, la prima condizione per un’azione efficace è che la politica non si riduca mai al semplice studio dell’economia o alla proposta dell’applicazione di ricette economiche alternative a quelle dominanti, ma che proponga altri valori che possano appassionare e muovere gli individui e creare il consenso di massa.
Daniele Baron, ARS Piemonte
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