Liberismo: lasciate ogni speranza (di redistribuzione) voi che entrate
Il liberismo è una dottrina economica fondata sulla libera iniziativa, sul libero commercio, e sulla visione di una naturale tendenza armonica del mercato.
Con la formula del laissez faire, laissez passer, intende proporre l’abbattimento di qualsiasi vincolo alla piena libertà economica individuale, relegando lo Stato a puro garante. Le principali politiche economiche che lo caratterizzano sono:
1) liberalizzazione degli scambi di beni, di servizi e di capitali fra diversi paesi; 2) contenimento della della spesa pubblica; 3) diminuzione delle leggi che regolano l’attività economica (deregolamentazione o deregulation) e “semplificazione” delle procedure amministrative.
I paesi tradizionalmente più favorevoli all’adozione di queste politiche economiche sono quelli anglosassoni, mentre nei paesi del continente europeo, tradizionalmente più inclini all’intervento dello Stato in economia, si vanno affermando solo negli ultimi anni, tra molte resistenze e grazie alla formula “non abbiamo altra scelta”, conseguenza di una crisi indotta.
A rinnovare l’interesse per il liberismo hanno contribuito sia i processi economici e sociali legati alla globalizzazione dei mercati sia l’affermazione di teorie volte a esaltare la razionalità di questi ultimi e la logica della competizione.
Un ruolo significativo ha assunto la diffusione delle tesi più recenti di F.A. von Hayek (The fatal conceit. The errors of socialism, 1988) e K.R. Popper (Alles Leben ist Problemlösen, 1994), che sostengono la superiorità del liberismo rispetto alle ideologie collettivistiche, anche in relazione alla sua capacità di evolversi nel tempo.
Per Hayek il liberismo è la teoria e la pratica politica più adatta alle rinnovate società di mercato.
In una società moderna fondata sulla divisione del lavoro e sul mercato, la maggior parte delle nuove forme d’azione sorge in ambito economico. Di qui il nesso inscindibile fra liberismo politico e liberismo economico.
I due sono assolutamente inseparabili, e qualunque distinzione fra essi deve, secondo Hayek, essere respinta. In tale prospettiva il liberismo deve preoccuparsi, per Hayek, della giustizia commutativa, ma non della giustizia distributiva, ovvero della giustizia sociale (che è invece la preoccupazione del socialismo). Il motivo per cui l’ideale della giustizia distributiva deve essere rifiutato dai liberali coerenti è, secondo Hayek, duplice: per un verso non esistono principi generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti e accettati, né è possibile dedurli razionalmente; per un altro verso, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su principi del genere, essi non potrebbero trovare applicazione in una società in cui gli individui siano liberi di impiegare le loro cognizioni e le loro capacità per il conseguimento di fini privati.
Per Hayek il liberismo esige dunque soltanto che lo Stato, nel determinare le condizioni entro le quali gli individui agiscono, fissi le medesime norme formali per tutti. Eventuali correttivi devono essere assai circoscritti, tali da non inceppare il meccanismo.
Nel dibattito liberale esiste chi come J. Rawls (Political liberalism, 1993) si è sbilanciato in merito alla giustizia sociale ma a prevalere è l’idea di personaggi come R.E. Nozick con lo «Stato minimo» (Anarchy, State and utopia, 1974), interessato per l’appunto solo alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è l’unico compito dello Stato), in contrapposizione a qualunque forma di giustizia distributiva.
Le posizioni di Rawls e di Nozick attestano una lacerazione nel pensiero liberale che però sembra essersi radicalizzato nell'”espermento” europeo mettendo a nudo i suoi limiti. Esso si preoccupa di esprimere e tutelare solamente gli interessi dei ricchi proprietari e considera la proprietà come il diritto per eccellenza, al quale tutti gli altri sono subordinati. Ragion per cui le libertà rivendicate non riguardano tutti gli uomini, ma solo una minoranza.
La Storia dovrebbe averci insegnato che il termine “Stato” non può avere solo accezioni negative: di certo lo Stato non può limitarsi solo a dettare regole di convivenza pacifica perlopiù in favore di una minoranza di individui. È assolutamente necessario che intervenga nella vita sociale ed economica dei propri cittadini, mediante la politica fiscale, la politica creditizia, la costruzione delle infrastrutture, le provvidenze agli indigenti, la sanità, l’istruzione.
Il liberalismo dimostra chiaramente di essere incompatibile con l’egualitarismo, cioè con l’obiettivo di una redistribuzione del reddito (egualitarismo distributivo) che garantisca a tutti, con le dovute proporzioni, uno stesso reddito e stile di vita, perché ciò comporta il venir meno della “libertà assoluta” dei singoli e la trasformazione della società nell’opposto di una liberale.
Eppure si continua a far passare l’idea ormai neanche più tanto velatamente che la sospensione della democrazia sia un atto dovuto, necessario e conveniente per tutti.
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