Problemi di etica: arbitrio e libertà
Da quasi due secoli la filosofia ha inclinato verso l’irrazionalismo e da un irrazionalismo interessante è scivolata infine in un irrazionalismo compiaciuto soltanto della propria disperazione, che si limita a offrire un comodo riparo alla pigrizia oppressa dallo sviluppo delle scienze. Più che dallo sviluppo delle scienze, l’inclinazione all’irrazionalismo è stata determinata però dall’evoluzione interna della filosofia: i sistemi idealistici presentano un grado così elevato di difficoltà tecnica, rappresentano un ostacolo così insormontabile, che le filosofie successive li hanno sostanzialmente ignorati: la conoscenza filosofica effettiva si ferma a Kant – lo si capisce osservando la precaria situazione filologica dei testi di Fichte e di Hegel.
Nell’ambito teoretico la crisi della filosofia non produce troppi danni: le scienze particolari progrediscono e affinano i loro concetti, le interpretazioni esagerate si smentiscono da sole. È vero che il fanatismo a volte rialza il capo: in Italia un ministro della pubblica istruzione, sensibile all’ondata neoconservatrice americana, ha addirittura cercato di riesumare il creazionismo biblico come alternativa plausibile della teoria darwiniana – si tratta però di eccessi riconosciuti subito come tali, soprattutto in virtù della popolarità della tecnologia, a cui si deve gratitudine anche per questo. Il disastro si produce nell’ambito dell’etica. Sono tipici delle filosofie irrazionaliste il timore della verità, il restringere lo sguardo all’uomo (e la cattiva coscienza le spinge ad aggiungere: «nella sua concretezza»), quindi un’ipertrofia dell’etica che perde il suo significato determinato, deborda nel campo teoretico e dà origine a ontologie fatte di allusioni, in cui ai significati si sostituiscono infine le etimologie. Ne esce una psicologia mascherata con un linguaggio ontologico, qualcosa che non è più né ontologia, né psicologia, ma un lamento interminabile sulla condizione dell’individuo, che da una parte è dichiarato l’unica realtà interessante, d’altra parte è esplicitamente trattato come finito, come non vero, con il risultato che la verità etica svanisce dall’orizzonte. Nella liquidazione dell’etica come scienza convergono Schopenhauer e Kierkegaard, Marx e l’utilitarismo, Nietzsche e Wittgenstein, il neopositivismo e l’esistenzialismo.
Così l’ultima parola dell’etica sembra essere la libertà dell’individuo isolato, che limiti convenzionali tengono lontano dalla libertà degli altri individui. Ogni posizione di valori che voglia superare i confini della libertà individuale è avvertita come minaccia alla libertà altrui. Si riafferma la gnoseologia di Protagora: è vero per l’individuo ciò che sente vero in questo momento, e nell’individuo e tra i diversi individui non c’è contrasto di verità, perché le verità di ognuno non li trascendono, sono quindi incommensurabili. Che il sentire individuale resti incomunicabile dimostra che la libertà dell’individuo, onnipotente al suo interno, è impotente al suo esterno. Di qui l’impossibilità di un’etica positiva, di una teoria dei legami tra gli individui, dunque anche l’inammissibilità dello stato, cioè del legame istituzionalizzato tra individui (come diceva Reagan, il governo è non la soluzione del problema, ma il problema).
L’errore in cui cade tutta l’etica dopo Hegel e che la spinge all’annullamento, è la confusione tra arbitrio e libertà, due determinazioni ben distinte, che nessun filosofo autentico ha mai confuso. Kant, ad esempio, nonostante l’impostazione soggettivistica della sua dottrina, ha connesso la libertà non con l’arbitrio, ma con la legge morale. Il soggetto agisce non solo in vista di vantaggi individuali, cioè, come dice Kant, secondo massime particolari, non solo «fa quello che gli pare» (di fatto ciò che gli detta il suo impulso); il soggetto non solo si rassegna a usare i mezzi indispensabili per arrivare «dove gli pare» (ciò che Kant chiama imperativo ipotetico): tutto questo è arbitrio, ma il soggetto è più del libero arbitrio, è anche libertà: egli vuole in modo che, nel volere, si produca il soggetto che vuole, il suo io. Egli sa benissimo che il suo io non è affatto una sostanza data e infrangibile, che resisterebbe a qualunque atto di arbitrio, sa benissimo che la certezza di sé dell’io è prodotta dalla certezza di sé degli altri io, e che, viceversa, questa loro certezza di se stessi è a sua volta prodotta dalla sua. Se viene meno al riconoscimento degli altri (“Tratta sempre l’umanità in te e negli altri anche come fine, mai soltanto come mezzo”) agendo secondo una massima valida soltanto per la propria certezza, ma lesiva della certezza altrui, il soggetto impedisce agli altri di riconoscerlo, dunque perde la certezza di sé, perde l’io. Si tratta di una situazione elementare, a cui il bambino è non meno esposto dell’adulto: in tutti i suoi desideri, nel più bizzarro dei capricci, il bambino conserva sempre la paura di perdere l’amore della mamma, da cui dipende tutto il suo essere, quindi la stessa sua volontà. Questo volere la propria volontà, questo percepire la fragilità dell’io e voler collaborare a produrne la sostanzialità è il punto in cui l’arbitrio cessa e inizia la libertà.
In altri termini l’io non è una sensazione, è un pensiero, cioè una mediazione: se e solo se produco negli altri la loro certezza di se stessi, la produco anche in me. L’io non è dunque particolare, è universale: è soltanto il risultato del prodursi del riconoscimento con gli altri. La necessità di produrre l’io fa delle scelte dell’arbitrio qualcosa di secondario, proprio come il bambino insicuro dell’amore materno sente insignificante ogni desiderio – piange. Spesso si sente ripetere che con gli autori irrazionalisti cada il presupposto della sostanzialità della coscienza. È un’incomprensione: ogni filosofo autentico ha sottolineato che l’io è pensiero, dunque momento di un riconoscimento universale non dato ma prodotto; semmai, tipico degli irrazionalisti è il presumere, per incomprensione, di poter rinunciare all’io.
Da tutto ciò segue che mentre l’arbitrio è il mio arbitrio (“quello che mi pare”), la libertà, come momento di un riconoscimento universale da produrre è sempre la nostra libertà. Ossia, l’arbitrio è il casuale dell’individualità, invece la libertà è l’individuo che sa il proprio essere come generato dal riconoscimento degli altri e l’essere degli altri come generato dal proprio riconoscimento, l’individuo che è non solo come un grumo particolare di istinti, ma è anche pensiero, universalità. Questo è il significato della legge morale kantiana: più in profondità dell’arbitrio (cioè delle massime soggettive e degli imperativi ipotetici, del “faccio quello che mi pare”, del “faccio quello che mi serve per avere quello che mi pare”) c’è l’imperativo categorico, cioè il puro comando che prescinde dalle conseguenze utili o dannose dell’azione, preoccupato soltanto della universalità di questa: prima di volere una cosa, anche inconsapevolmente, mi pongo il problema se il mio volere possa essere principio di una legislazione universale, ossia se esso non turbi l’ambito della libertà che con il mio io contribuisco a creare e che, creando il mio io, rende possibile quel suo volere. L’imperativo categorico, che perfino la psicoanalisi sembra confondere con il super-io, non ha nulla di mistico o di persecutorio, è la libertà come io che è anche noi, come bene supremo rispetto all’arbitrio che esso domina dall’alto.
La libertà è l’universalità dell’io: il suo essere soltanto come momento del riconoscimento reciproco. Questo e solo questo è il concetto hegeliano di spirito. Questo e solo questo è il significato ultimo del concetto aristotelico di stato. Il grandioso quanto confuso inizio della «Politica» lo documenta. Aristotele deduce la socialità dell’uomo dal fatto che gli esseri non sono in grado di vivere separati: la femmina e il maschio hanno bisogno l’uno dell’altro per riprodursi, il servo ha bisogno della guida del padrone e il padrone ha bisogno della fatica del servo. Si tratta di rapporti vantaggiosi per entrambi gli estremi; nondimeno l’oikos non è una società perfetta; permette la conservazione della vita, non il vivere bene. Neanche il villaggio, la comunità che risulta da più famiglie, è società perfetta, lo è solo lo stato che «esiste per rendere possibile una vita felice[*]». La distinzione tra villaggio e stato non è quantitativa: non è giusto dire che «se sono poche le persone sottoposte si ha il padrone, se di più, l’amministratore, se ancora di più, l’uomo di stato o il re, quasi non ci sia nessuna differenza tra una grande casa e un piccolo stato». Così le grandi società orientali, per Aristotele, sono propriamente villaggi, perché sono poste sotto il potere regale, cioè di un ampliamento dello stesso potere patriarcale che domina l’oikos. Così diventa chiaro cosa significhi per Aristotele “vita felice” e perché essa sia possibile solo nello stato, non nella famiglia né nel villaggio: questi ultimi sono contrassegnati da rapporti, sebbene utili a entrambi gli estremi, tuttavia asimmetrici, non reciproci, privi di riconoscimento, tali, insomma, da rendere impossibile l’io. Nella famiglia il marito e la moglie sono liberi e uguali, certo, tuttavia comanda il marito perché solo la natura maschile è in grado di comandare; a maggior ragione sono asimmetrici i rapporti tra genitori e figli, tra padrone e servo. La stessa asimmetria si conserva nel villaggio: chi vi comanda «esercita l’autorità da sé», cioè a partire dalla propria particolarità, dunque «è re»[†]. Invece nello stato chi vi comanda «esercita l’autorità secondo le norme della scienza politica ed è a vicenda governante e governato». La costituzione statale della democrazia greca, una democrazia diretta in cui i liberi diventano membri delle istituzioni anche per sorteggio, consente a chiunque di governare almeno una volta nella vita; questa possibilità crea la simmetria tra i membri dello stato, dunque ne fa cittadini liberi, e soltanto la libertà che poggia sulla simmetria del noi è la vita felice che Aristotele intende.
La simmetria tra governanti e governati nello stato consente che l’autorità sia esercitata secondo le norme della scienza politica, ossia che l’autorità non emani dalla particolarità dell’uomo di stato, come si verifica nella società patriarcale, ma dalla sua universalità, cioè dal suo io che si istituisce mediante il riconoscimento reciproco. Questo e solo questo consente il dominio della legge, della volontà generale, anziché della volontà particolare. La semplice universalità della legge, il fatto che chi comanda è sottoposto alla legge non meno di chi è comandato, consente che gli individui si rapportino come io, quindi la giustizia. «Per natura», ossia poiché ognuno deve innanzitutto prodursi come io, «è in tutti la spinta verso siffatta comunità, e chi per primo la costituì fu causa di grandissimi beni. Perché come l’uomo è il migliore degli esseri quand’è perfetto», ossia quando è un io, «così pure, quando si stacca dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore di tutti.
Nella città-stato antica il noi, la simmetria del riconoscimento, dunque la libertà, la fiducia che l’altro non si rapporta a me come a natura, ma come a un io, fiducia che produce la mia certezza di me stesso, istituisce la legge. Un discorso diverso va fatto per lo stato moderno. In ogni caso, però, nella legge diventa anche evidente la finitezza dell’arbitrio. Non che sia necessaria la legge per limitare l’arbitrio: l’arbitrio è intrinsecamente limitato già perché i piacersi si oppongono. Ma questo limite diventa evidente nella legge. Da questa evidenza si genera la superficialità che non scorge nella legge il noi, dunque la libertà dell’io, e che scambia l’impulso naturale per io libero, ossia lo immagina buono, dunque rifiuta la legge e rifiuta lo stato come se fossero soltanto impedimenti, illudendosi che senza legge e senza stato, senza il noi l’uomo resti un io. Aristotele, cui a torto si rimprovera la fiducia ingenua nella socialità dell’uomo, non si fa illusioni: «… senza virtù», cioè senza stato e senza io, l’uomo «è l’essere più sfrontato e selvaggio e il più volgarmente proclive ai piaceri dell’amore e del mangiare».
[*] Questa e le successive citazioni sono tratte da Politica, I, 1-2, in Aristotele, Opere, vol. IX, Laterza, Roma-Bari 19914, pp. 3-7. Ho modificato in qualche punto la traduzione di R. Laurenti.
[†] È ovvio che non intendiamo riproporre la subordinazione della donna e lo schiavismo, due realtà che sfigurano la società greca. Vogliamo mostrare che questo stato di cose è sentito come difetto già dal genio di Aristotele e che proprio questo sentimento lo guida verso la sua indimenticabile concezione dello stato.
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