I.V.A. V.A.I. V.I.A., disse il giusto al capitalista
L’acronimo i.v.a. sta per Imposta sul Valore Aggiunto. Iniziamo ad analizzare l’acronimo stesso, ma non prima di ricordare al mondo chi ha creato tale tipo di imposta.
L’i.v.a. è un’imposta europea, ci hanno detto che andava a sostituire la precedente imposta generale sulle entrate, l’i.g.e., ma così non è. L’i.g.e., infatti, nacque nel 1940, in un momento in cui, nella quasi totalità dei casi, dalla materia prima al prodotto finito ogni azienda copriva tutta la filiera. La sua aliquota era al 4%, l’imponibile era ogni scambio commerciale e veniva pagata dai produttori. Nel momento in cui è iniziata la specializzazione del lavoro, la filiera si è divisa tra diverse aziende, ognuna specializzata e con le sue competenze, e dato che l’imposta veniva pagata da ogni produttore ad ogni passaggio verso la vendita al dettaglio, l’aliquota era variabile, e si moltiplicava rispetto al numero di passaggi che si avevano dalla materia prima alla vendita al consumatore finale. A quel punto della storia è stata creata l’i.v.a., che oggi ha un’aliquota per lo più posta al 22%, quindi più di 5 passaggi, e soprattutto non è pagata dai produttori, ma dal consumatore finale, non andando ad incidere sul lato dell’offerta ma della domanda. Come si possa dire che l’i.v.a. è il naturale prosieguo dell’i.g.e. mi sfugge.
Dopo questa doverosa precisazione storica, partiamo analizzando l’acronimo.
IMPOSTA: il sostantivo “imposta” definisce il tipo di imposizione tributaria. Esistono due modalità di tributo, l’imposta e la tassa. La tassa differisce dall’imposta perché viene pagata quando si usufruisce di un servizio (es. ticket sanitari, sempre più numerosi e costosi, ma questo è un altro discorso), mentre l’imposta ha come presupposto una capacità contributiva da parte del cittadino. Questa capacità contributiva è sempre stata associata al reddito, con l’I.R.P.E.F. (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) come classico esempio. Con l’introduzione dell’i.v.a., invece, l’accezione data al manifestarsi della capacità contributiva è cambiata: non è più il reddito ad evidenziarla ma il consumo, la capacità di spesa del cittadino, e già questo ci dice molto sul perché è stata concepita dell’UE, al tempo del concepimento CEE.
VALORE AGGIUNTO: valore aggiunto significa che ogni azienda nella filiera che va dalla materia prima alla vendita al dettaglio, verserà un pezzetto dell’i.v.a. La stessa emergerà nel prezzo finale, ma la cosa da capire è che le varie aziende che la incasseranno o pagheranno non lo faranno “di tasca loro”. Tutte queste aziende sono neutre nei confronti dell’imposta, la incassano e la pagano, se avranno incassato più i.v.a. di quella che avranno pagato nelle loro operazioni aziendali, la verseranno allo Stato, viceversa avranno un credito nei confronti dell’Erario, che compenseranno al primo debito. Quindi, se le aziende sono “neutre” nei confronti dell’imposta, chi paga la stessa? Il consumatore finale, che metterà in evidenza la sua capacità contributiva attraverso il consumo.
E’ facile intuire quanto sia becero concentrarsi sul consumo, quando sarebbe tanto semplice far contribuire ognuno secondo il suo reddito alle spese della collettività in cui vive.
Vi pongo un esempio. C’è un ricco che non esce mai di casa, e non consuma neanche dal divano tramite internet o “a domicilio”, mentre c’è un povero che ha 5 figli. Nella porzione di incassi statali relativi all’i.v.a., il povero contribuirà in maniera sostanzialmente maggiore alle spese della collettività rispetto al ricco.
E ciò che è becero è che, in primo luogo, non è detto che una persona manifesti capacità contributiva se consuma, soprattutto oggi dove la maggior parte della capacità di consumo è assorbita da spese non superflue.
In secondo luogo, è becero perché l’i.v.a. colpisce solo i beni dell’economia reale, dato che i prodotti finanziari sono per la quasi totalità dotati di esenzione, quindi va specificato a caratteri cubitali che la manifestazione di capacità di spesa vale solo per i consumi in beni reali, per i prodotti finanziari no. A caratteri cubitali.
In terzo luogo, è evidente come un’imposizione semplicemente proporzionale, che non considera quanto a livello percentuale quella spesa assorbe del reddito del cittadino, non può non essere iniqua. Prendiamo ad esempio spese che tutti sosteniamo mediamente mensilmente, per lo più con contratti di adesione o prezzi standard, e quindi già con eguale prezzo per tutti. Gas (5,00 €), Luce (70,00 €), Riscaldamento (80,00 €), Acqua (20,00 €), Cibo base (300,00 €), Vestiti base (200,00 €), Telefono/internet (30,00 €): il totale sono 700,00 €. L’i.v.a. che si paga sono circa 130,00 €, tra beni al 22% e beni al 10%. Per uno stipendio di 1.300,00 € quell’i.v.a. peserà per il 10%, per uno stipendio di 3.000,00 € la stessa i.v.a. peserà per il 4,33%.
Vogliamo sbugiardare anche chi dice che chi guadagna 3.000,00 € consumerà di più e verserà più i.v.a.? Facciamolo. Poniamo che il cittadino comune spenda 1.198,00 € dei suoi 1.300,00 € di stipendio. Quindi pagherà 900,00 € di ricavi alle varie aziende e 198,00 € di i.v.a. allo Stato, il che peserà per il 15,23% sul suo reddito. Per chi guadagna 3.000,00 € poniamo un consumo (in beni nell’economia reale, mi preme ricordarlo), di 2.318,00 €. Quindi egli pagherà 1.900,00 € di ricavi alle aziende e 418,00 € di i.v.a. allo Stato: tale somma peserà sul sul reddito per il 13,93%. Il benestante verserà di più a livello assoluto, ma usufruirà di beni reali per un valore più che doppio, e a livello relativo, percentuale, pagherà meno. Questa non solo non è progressività, ma è regressività.
A questo punto non si può non citare la nostra amata e calpestata Costituzione, dove all’art. 53 si legge:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Ora, la mi
a generazione è nata con l’i.v.a., con questo tipo di imposizione fiscale, ma in realtà il mondo è stato anche diverso, giusto, normale. Anzi, il tempo che intercorre tra la nascita dell’i.v.a. ed oggi è piuttosto limitato. L’i.v.a. infatti nasce nel 1973 in Italia, ma, come precedentemente detto, è un’imposta europea, concepita e creata in Europa, per mezzo dell’Europa attraverso il meccanismo del recepimento delle Direttive Europee da parte di tutti gli Stati membri. E quando dico Stati Membri intendo gli Stati aderenti all’UE, non all’euro, e ciò dovrebbe far riflettere.
Una piccola parentesi. La Comunità Europea può legiferare in due modi. Il primo, i Regolamenti, direttamente applicabili, sono delle vere e proprie leggi, non bisognose di inquadramento giuridico, se non dei regolamenti attuativi. Il secondo modo sono le Direttive, che sono una sorta di Legge Quadro, che ogni Stato deve recepire per mezzo di atti avente forza di legge. Ora, è curioso notare come l’i.v.a. sia stata trattata come una Direttiva, in modo da apparire “morbida”, ma poi la Direttiva stessa è talmente puntuale che lascia veramente poco spazio all’immaginazione. E questo non lo dico io ma i dati, che dimostrano una totale aderenza al livello di aliquote e di momenti di crescita delle stesse (mi piacerebbe dire “o decrescita”, ma non c’è mai stata decrescita delle aliquote, è un dato di fatto).
Nella fattispecie, la Direttiva Europea è stata recepita da noi, dal nostro Stato, per mezzo del D.P.R. n. 633/72, e da lì innumerevoli e ingarbugliate complicazioni, che però non intaccano il contenuto del tutto, la ratio dell’imposta, la visione di come lo Stato deve reperire le risorse necessarie allo Stato stesso. Potete leggerlo, e vi perderete tra ratio di esenzione, esclusione, non deducibilità del costo e conseguente non detraibilità dell’i.v.a., e chi più ne ha più ne metta, ma il succo è che l’i.v.a. si paga, e che ci sono tre aliquote, niente di più semplice. In linea di principio ci dicono che le percentuali applicate sono scelte rispetto al bisogno che i beni sui quali si versa siano di prima necessità (4%) o meno (più o meno superflui), con l’aliquota più alta al 22% e la via di mezzo dell’i.v.a. al 10%. In realtà non è così, o comunque l’interpretazione di “prima necessità” data è talmente stringente da apparire quantomeno opinabile (es. energia elettrica al 22% o l’acqua tra il 10% e il 22%; sull’acqua non siamo neanche sicuri, e comunque non la consideriamo un bene primario degno del 4%).
E gli adempimenti fiscali riguardanti l’i.v.a. sono anche più ingarbugliati, con liquidazioni i.v.a. e dichiarazioni INTRA (per coordinarci con i paesi UE) o BLACK LIST (per cercare di evitare evasioni o elusioni con i paesi c.d. parasidisi fiscali). A proposito di black list, una piccola parentesi, dal 2015 è cambiata la visione dei “cattivi”, o meglio, la si è limitata, cioè dei due criteri preesistenti per annoverare un paese nella black list, e di conseguenza dichiarare i costi derivanti da esso indeducibili, ne è rimasto solo uno. Il criterio rimasto è quello per cui se “non è presente uno scambio di informazioni adeguato”, il paese rimane a far parte della black list. Il criterio eliminato, non più considerato rilevante, è quello della “bassa tassazione”, per cui se il paese dell’azienda che emette fattura ha una bassa tassazione non importa, al secolo non è più rilevante che esso sia un paradiso fiscale. Quindi, se saranno deducibili costi provenienti dai paradisi fiscali, cosa succederà? Direi che sono più che plausibili fughe di redditi dall’Italia verso i paradisi fiscali, ed il Fisco italiano continuerà a rifarsi su di noi per poter arrivare al fantomatico pareggio di bilancio, compreso il pagamento degli interessi sul debito. Questo è l’elenco dei paesi che uscirà dalla black list: Alderney (Isole del Canale), Anguilla, ex Antille Olandesi, Aruba, Belize, Bermuda, Costarica, Emirati Arabi Uniti, Filippine, Gibilterra, Guernsey (Isole del Canale), Herm (Isole del Canale), Isola di Man, Isole Cayman, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini britanniche, Jersey (Isole del Canale), Malesia, Mauritius, Montserrat e Singapore. Ciò, per onor di precisione, è stato deciso grazie alla Legge di Stabilità, ed è ironico che venga posto come “stabile” un qualcosa che crea un corridoio verso e da i paradisi fiscali. Ma la liberalizzazione dei capitali è un dogma da tempo, quindi non vedo nulla di strano, a parte l’idiozia immanente.
A proposito di incassi statali, è ora di porci un interrogativo. Quando non c’era l’i.v.a., lo Stato incassava meno? O meglio, se eliminassimo l’i.v.a., allo Stato non serviranno quei soldi mancanti? Si, certo, qui non si sta dibattendo sul fatto che le entrate totali non rimangano allo stesso livello, almeno al giorno di cambio di visione dell’imposizione tributaria, ma si sta dibattendo sul come reperire quelle risorse, su quali elementi considerare per chiedere ad ogni cittadino un giusto contributo alle spese collettive.
Come non ricordare per un attimo l’art. 53 della Costituzione della Repubblica Italiana:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Tale principio, da che siamo diventati uno Stato a quando siamo entrati in Europa, è stato interpretato dando per assunto il fatto che la capacità contributiva di ciascuno aumenta più che proporzionalmente rispetto all’aumento del reddito. Si può discutere sul livello di intensità della progressività (aumento più che percentuale), ma sul fatto che sia il reddito a determinare la capacità contributiva non credo che serva discutere, non se ne discuteva e un motivo ci sarà pur stato. Tale motivo è che se ho già un dato esaustivo (il reddito) per determinare la capacità contributiva di ognuno, non vedo perché andarsi ad impelagare in inutili complicazioni.
Oggi, invece, se ne parla dell’i.v.a., ma si dà per assodato che esiste e che debba esistere, come se il ritorno all’imposizione fiscale puramente progressiva non sia neanche da ambire. E si dibatte su aumenti dell’i.v.a. o su come strutturare la catena del versamento, ma nessuno mette in dubbio la sua ratio, il suo essere intrinsecamente iniqua, per definizione, per tutto quanto già detto. E quindi si perde enorme tempo per cambiare le aliquote o delle virgole. L’ultima virgola, per farvi un esempio, è l’introduzione del meccanismo dell’inversione contabile in talune circostanze, tra cui il caso di fatture emesse nei confronti della Pubblica Amministrazione. Per farla breve, invece di versare l’i.v.a. all’emittente fattura e aspettare poi il 16 del mese successivo per incassarla nuovamente (ricordiamo che le aziende sono neutre nei confronti dell’i.v.a, sono dei Sostituti d’Imposta), lo Stato pagherà solo l’imponibile (il ricavo) delle fatture all’azienda di turno, senza i.v.a., e così facendo, udite udite, guadagnerà
ben “minimo 16 – massimo 46” giorni di liquidità, cash flow, ovviamente a discapito delle aziende. In un momento così, dove la liquidità abbonda ma non certo per le aziende che vivono nell’economia reale, quelle poi dell’esempio, quelle che eseguono lavori per conto della P.A., il tutto lascia interdetti, se non si pensasse che dall’altro canto si può inquadrare la questione come una crisi economico-finanziaria dello Stato tale da costringere lo stesso ad attaccarsi ai c.d. spiccioli. A questo punto, se si arriva a pensare ciò, il turbamento diventa terrore.
In merito al punto suddetto dell’inversione contabile per la P.A., si sente ai tg che così si combatte l’evasione fiscale, non facendo transitare quei soldi nelle casse delle aziende appaltanti, ma non si dice che quelle aziende mancheranno di liquidità che dovranno andare a chiedere alle banche, come non si dice che il problema non è l’evasione fiscale, ma è semplicemente non avere i soldi per versare l’i.v.a., e con ancora meno liquidità questa possibilità diverrà ancor più flebile. Perché se talune aziende non versano l’i.v.a. è solo perché con il solo ricavo contabile non riescono a coprire i costi, e non riescono a coprire i costi già avendo abbattuto tutte le spese possibili, prime fra tutte quelle che portano vantaggi nel lungo periodo, come gli investimenti in Ricerca & Sviluppo, e questo lascia ancora meno sereni.
Si perdono mesi interi per discutere su un qualcosa che non sarebbe un problema se lo Stato non avesse problemi di liquidità, e il resto del tempo lo si impiega nel cercare di aumentare l’i.v.a. senza farne avere percezione alla popolazione.
Iniziamo ad analizzare infatti il quantum, gli aumenti dell’i.v.a., l’aumento progressivo della concezione dell’imposizione ai cittadini come proporzionale e non progressiva, e di come se ne parla.
A mio avviso, ci sono due ordini di problemi nella fotografia attuale della questione.
Il primo è che ci dicono che l’i.v.a. (PER IL 2015) non aumenterà.
Infatti, mentre ci dicono che per quest’anno non aumenterà, ci dicono altresì che aumenterà nei prossimi anni, come da manuale delle tecniche mediatiche usate nell’operatività dalla politica odierna: si fa entrare in contatto il cervello dell’elettore con la mazzata, lo si fa abituare, e poi la si dà.
Ed ecco ciò che dicono, le mazzate alle quali dobbiamo abituarci dal prossimo anno, e che se saranno confermate porteranno ai seguenti aumenti:
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Aliquota IVA 10%: aumento di due punti nel 2016 (al 12%) e di un altro punto nel 2017 (13%),
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Aliquota IVA 22%: aumento a 24% nel 2016, al 25% nel 2017 e al 25,5% nel 2018.
Analizziamo questi dati. Posto che alla sua nascita l’i.v.a. era posta al 12%, e che piano piano è arrivata al 20%, il fatto che tale tipo di imposizione non è aumentata non è vero. Se poi consideriamo che in un lustro passerà dal 20 al 25,5%, è inutile pubblicizzare il suo non aumento quest’anno, cercare di far passare il concetto secondo il quale l’i.v.a. è pressoché costante nel suo ammontare, perché il mio cervello non può far a meno di pensare che 5,5 punti percentuali su 20 sono il 27,50% di aumento, bhè bhè bhè, in un lustro, cribbio ed oibò.
Quindi, per forza di cose, dato che l’imposizione fiscale progressiva per i ceti medio bassi è già ai suoi massimi livelli, si cercano risorse dove è più iniquo trovarle, ma perfettamente in linea con i principi che ci governano ormai da decenni. Non apro la parentesi che se fossimo uno Stato Sovrano stamperemmo la moneta necessaria, dandole valore grazie all’implicita convenzione di accettarli come mezzo di pagamento, perché questo non è il momento né l’articolo giusto, ma voglio specificare il fatto che oltre che iniqua, l’i.v.a. non è neanche strutturalmente valida come scelta. Per tutto quanto detto, il prezzo di un prodotto è composto dalla sua componente di ricavo per chi lo vende e da una parte, l’i.v.a., che viene incassata dal venditore e riversata dallo stesso nelle casse dello Stato. Quindi l’i.v.a., oltre a non dare vantaggi alle aziende, dà loro solo svantaggi, dettati da un aumento del prezzo che non entrerà nelle loro tasche. Questo, ovviamente, deprimerà ancor di più i consumi, lo Stato avrà sempre più bisogno di denaro per mantenere l’avanzo primario che serve a pagare inutili interessi a chi detiene il potere di stampare moneta, e si continuerà a spostare l’imposizione da una tassazione progressiva (rispetto alla capacità contributiva dettata dal reddito) ad una proporzionale (che colpisce tutti con lo stesso valore assoluto per ogni bene considerato, ma di certo colpisce maggiormente a livello relativo tanto più una persona tanto più quella persona è indigente). Questo è quello che vuole l’Europa, questo è ciò che sentiamo ai tg nella forma del diktat “ci vuole più Europa”: accettare, tra le altre cose, la creazione di una imposta colonizzatrice in un mondo in cui i Ministri dell’Economia sono divenuti un nuovo animale mitologico, mezzo giocoliere mezzo attore teatrale.
Il secondo è che ci dicono che l’i.v.a. (PER IL 2015) non è aumentata.
L’esempio è il PELLET. Abbiamo detto che l’aliquota, il 4, il 10 o il 22 per cento, è scelta sulla base del tipo di bene su cui va a gravare, senza arrecare un ricavo per l’azienda, ma un semplice incasso in nome e per conto dello Stato, per nostro nome e conto. I beni di prima necessità dovrebbero essere appesantiti da un’aliquota del 4%, ed il pellet soddisfa il bisogno del riscaldamento, un bisogno che credo tutti reputiamo primario. Infatti, la sua aliquota era proprio il 4%, fino a quando, oltre a pubblicizzare il non aumento (PER ORA) dell’aliquota al 22%, non hanno pensato bene di aumentare l’aliquota del pellet al 10%. Quindi c’è stato un aumento del prezzo del pellet di 6 punti su104, cioè del 5,77%. Se poi si pensa che l’aliquota al dieci passerà a breve al 13%, il pellet sarà passato da
l 4% al 13%; come non commentare “le jeux est fait!”. Magari l’hanno fatto per portare inflazione e pubblicizzare anche quella? Dato che il pellet, essendo un bene primario, ha domanda almeno costante (anche se qualcuno deciderà di mettersi il maglione pesante in casa per risparmiare, per cause di forza maggiore, e ciò mi inorridisce), e dato che essendo un bene di uso comune rientra certamente in qualsiasi paniere (insieme dei beni che rientrano nel calcolo del numeretto da dire ai telegiornali chiamato inflazione). Questo è un pensiero estremo, è una provocazione, ma mi è già successo di dovermi ricredere, e non so se questa volta andrà in maniera diversa.
In calce all’articolo vi pongo dinanzi agli occhi i link per gli elenchi completi dei beni gravati di i.v.a. al 4% ed al 10%, ponendovi dinanzi a due evidenti questioni:
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notare il termine “soppresso”, quel termine non denota il fatto che il bene è ora esente da i.v.a., bensì che la sua i.v.a. è passata del 4% al 10%, come beni che erano al 10% sono passati al 22%;
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notare la percentuale di beni appartenenti all’economia reale gravati di tale imposta. Oserei un lapidario “la totalità”.
Per concludere, per farvi avere cognizione della diversa visione della capacità contributiva impostata dall’Europa, e per darvi il giusto incipit alle tabelle, ecco invece testualmente l’articolo del D.P.R. 633/72 che definisce cosa rende palese la capacità contributiva di ognuno e che, per esclusione rispetto ai due elenchi suddetti, descrive, con visione onnicomprensiva, i beni gravati dell’aliquota al 22%, che nacque al 12%, ma che presto diventerà 24%, poi 25%, poi 25,5% e poi chissà ancora quanti “poi”:
“L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate”.
Ricordando che si applica sulle cessioni di beni e prestazioni di servizi, ma che la paga il consumatore.
Ricordando, in ultimo, che non siamo consumatori, ma cittadini.
Beni al 4%: http://www.amministrazioneaziendale.com/beni-soggetti-aliquota-4-per-cento.php ;
Beni al 10%: http://www.amministrazioneaziendale.com/beni-soggetti-aliquota-4-per-cento.php .
Risposta degna a chi pensa che il problema fiscale si debba risolvere con la flat tax, cioè rendendo quasi proporzionale l’IRPEF – identificata ipocritamente con il sitema tributario che l’art. 53 della Costituzione vuole “informato a criteri di progressività” – relegando in un punto cieco della propria percezione il fatto lapalissiano che le imposte sui redditi rappresentano solo una parte delle entrate del fisco nella quali una fetta sicuramente importante è rappresentata proprio dalle imposte dirette che – forse in questo il post risulta un po’ troppo benevolo o quanto meno pecca di chiarezza – non solo non sono proporzionali ma REGRESSIVE.
ciao Enrico, hai colto il senso dell’articolo, Il nocciolo è il cambio di visione di contribuzione del cittadino. Per quel che dici, in realtà ho scritto “Il benestante verserà di più a livello assoluto, ma usufruirà di beni reali per un valore più che doppio, e a livello relativo, percentuale, pagherà meno. Questa non solo non è progressività, ma è regressività.”. Verità matematica esplicativa del suddetto concetto
Ciao Carmine. La frase che dici non mi era sfuggita, ma inserita nel contesto del lungo articolo chi legge penso possa avere la sensazione che si riferisca a casi particolari e non a una caratteristica intrinseca delle imposte indirette.
Comunque non sapevo che l’IVA nascesse anch’essa da richieste CEE…