Il corpo estraneo
Com’è noto, l’art. 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1 ha sostituito l’originario art. 81 della Costituzione, introducendo il c.d. “principio” del pareggio di bilancio nella parte seconda (ordinamento della Repubblica), titolo I (il Parlamento), Sezione II (la formazione delle leggi) della nostra Legge fondamentale.
L’obbligo che i bilanci generali delle amministrazioni pubbliche siano in pareggio o in avanzo e di inserire tale “principio” nelle Costituzioni degli Stati era stato consacrato, circa un mese prima, con la sottoscrizione, da parte di 25 capi di stato o di governo, del Fiscal Compact.
Primo fra tutti, il Parlamento italiano, docile e fedele cagnolino della UE, ha assolto a tale obbligo, varando la legge costituzionale suddetta.
Le “leggi costituzionali” sono quelle che l’art. 138 Cost. menziona accanto alle “leggi di revisione della Costituzione”, sottoponendole al medesimo procedimento di formazione di queste ultime. Entrambe costituiscono una categoria unitaria, soggetta alla stessa disciplina procedimentale ed agli stessi limiti, non distinguendosi le une dalle altre neppure quanto al titolo ed alla numerazione.
Entrambe sono sempre sovraordinate, nella gerarchia delle fonti, alle leggi ordinarie, ma rimangono sottordinate alla Costituzione.
La potestà derogatoria propria di tali leggi (costituzionali, o di revisione) non è infatti originaria (com’è invece quella della Costituzione), ma derivata; non è “costituente”, ma “costituita”. Essa, traendo i suoi poteri dalla Costituzione, deve restare contenuta nei limiti derivanti dai principi fondamentali che caratterizzano il tipo di Stato risultante dall’ordinamento in atto e che “potrebbero venir meno […] solo in via di fatto, cioè attraverso un procedimento rivoluzionario” (C. MORTATI, Istituzioni di Diritto Pubblico, Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 336). Il divieto di mutare la Costituzione nel suo complesso mediante una o più leggi costituzionali (o di revisione della Costituzione) discende infatti dall’ “impossibilità di ricondurre alla volontà costitutiva di un certo tipo di Stato, quale configurato dalla Costituzione, mutamenti che ne sovvertano il nucleo dei principi fondamentali” (C. MORTATI, op. cit., Tomo II, Nona edizione, Padova, 1976, 1242).
Dalla suaccennata subordinazione gerarchica consegue l’indubbia sindacabilità, da parte della Corte Costituzionale, delle leggi in questione, ove contrastanti con i principi fondamentali ed i diritti considerati “inviolabili” dalla Costituzione (C. MORTATI, op. ult. cit., 1396 e ss.).
Per tali ragioni, l’art. 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1 e, conseguentemente, l’art. 81 della Costituzione nel suo attuale testo non potrebbero sfuggire al sindacato di legittimità costituzionale laddove risultasse, ad esempio, che la piena realizzazione dei diritti sociali fondamentali (in primis il diritto al lavoro e quelli, strettamente connessi, previsti dagli art.li 36 e 38 Cost.), o del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3 comma II Cost.), caratterizzanti il tipo di Stato configurato nella nostra Carta fondamentale, fosse condizionata dai vincoli di bilancio introdotti dalla legge stessa (fosse cioè concretamente possibile solo ed in quanto consentita dalle risorse economiche limitate da detti vincoli).
Se, in altre parole, l’esigenza del pareggio di bilancio comportasse un parziale sacrificio di principi fondamentali o di diritti inviolabili della Costituzione necessario (secondo il giudizio della Corte Costituzionale) per bilanciare le conseguenze complessive della rimozione di una norma dichiarata incostituzionale (nell’ipotesi in cui detta rimozione finisse, a sua volta, per compromettere altri principi o diritti inviolabili), tale “esigenza”, provocando un conflitto fra più principi costituzionali, paleserebbe, da un lato, la sua estraneità al paradigma di democrazia sociale affermato dalla Costituzione del 1948 (nonchè la sua incompatibilità con esso) e, dall’altro, quale prodotto normativo di una potestà derivata, come tale subordinata alla volontà espressa dal potere costituente, non potrebbe sottrarsi al sindacato di legittimità costituzionale.
L’esame di un caso concreto faciliterà la comprensione dei concetti suespressi.
Con sentenza n.10 dell’11 febbraio 2015 (http://www.giurdanella.it/2015/02/13/robin-tax-illegittima-la-sentenza-della-corte-costituzionale/) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della cd. Robin Tax (l’addizionale Ires istituita con l’articolo 81 del decreto legge 112 del 2008, dalla c.d. Manovra d’estate del Ministro Tremonti: un prelievo aggiuntivo, pari al 5,5%, che si applica ai soggetti operanti nei settori petrolifero ed energetico con ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente) per violazione degli art.li 3 e 53 Cost. “sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, per incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito”.
La peculiarità della sentenza, passata praticamente inosservata, non risiede tuttavia nel merito della questione di legittimità costituzionale (sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia nel procedimento vertente tra una rete di punti vendita di carburanti e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Reggio Emilia), ma nel fatto che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma decorrono, per espressa statuizione della Corte (capo 8, ultimo cpv., delle considerazioni di diritto), dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
A’ sensi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della Legge n.87 dell’11 marzo 1953, “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
Detta regola, comunemente conosciuta come “principio generale di retroattività” delle sentenze della Corte Costituzionale, non costituisce, in realtà, un “principio” (nonostante ciò che afferma la sentenza n. 10/2015 in questione al terzo cpv. del capo 7 delle considerazioni di diritto, citando peraltro altre sentenze risalenti nel tempo, che non descrivono affatto come “principio” gli effetti retroattivi delle pronunce di incostituzionalità).
La cd. “retroattività” è infatti un’espressione ricorrente nei manuali di Diritto costituzionale per spiegare agli studenti che le decisioni di annullamento della Corte Costituzionale comportano il divieto, per i giudici rimettenti, di applicare la norma dichiarata illegittima nel giudizio di merito in corso. In questo senso si dice che la dichiarazione di incostituzionalità ha effetti retroattivi. Incide infatti su situazioni controverse sorte in vigenza della norma dichiarata incostituzionale e che dovranno essere decise (dal giudice rimettente) come se detta legge non fosse mai esistita.
La cd. “retroattività” non è quindi un “principio” che la Corte Costituzionale deve considerare per calibrare gli effetti delle sue decisioni.
Esistono solo norme (cioè l’art. 136 Cost. e l’art. 30 della Legge n.87 dell’11 marzo 1953) che implicano un preciso e tassativo divieto (come sopra specificato). Esiste cioè una regola di giudizio inequivocabile, rivolta ai giudici ed alla Pubblica Amministrazione, di cui la stessa Corte non deve preoccuparsi.
Ma la peculiarità della sentenza n.10/2015 della Corte Costituzionale non riposa solo in questo.
Sta nel fatto che questa regola (non principio) è elevata a principio da bilanciare con un un’altra esigenza, elevata, a sua volta, a principio dalla Corte.
Il ragionamento è sviluppato nei capi 7 e 8 delle considerazioni di diritto e si riassume nei seguenti assunti:
– “nel pronunciare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate”, la Corte “non può non tenere in debita considerazione l’impatto che una tale pronuncia determina su altri principi costituzionali, al fine di valutare l’eventuale necessità di una graduazione degli effetti temporali della propria decisione sui rapporti pendenti”;
– il ruolo affidato alla Corte “come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro”;
– “considerato il principio generale della retroattività risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli interventi” della Corte “che regolano gli effetti temporali della decisione devono essere vagliati alla luce del principio di stretta proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere rigorosamente subordinati alla sussistenza di due chiari presupposti: l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco”;
– nel caso di specie (quello, cioè, sottoposto al vaglio della Corte) “l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.”;
– “tale principio esige una gradualità nell’attuazione dei valori costituzionali che imponga rilevanti oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale a fortiori dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che ha riaffermato il necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del 2014)”;
– “l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”;
– “pertanto, le conseguenze complessive della rimozione con effetto retroattivo della normativa impugnata finirebbero per richiedere, in un periodo di perdurante crisi economica e finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole. Si determinerebbe così un irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.”;
– “la cessazione degli effetti delle norme dichiarate illegittime dal solo giorno della pubblicazione della presente decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica risulta, quindi, costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, in modo da impedire «alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri […] garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali» (sentenza n. 264 del 2012). Essa consente, inoltre, al legislatore di provvedere tempestivamente al fine di rispettare il vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio, anche in senso dinamico (sentenze n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008, n. 384 del 1991 e n. 1 del 1966), e gli obblighi comunitari e internazionali connessi, ciò anche eventualmente rimediando ai rilevati vizi della disciplina tributaria in esame”.
L’esigenza elevata a principio (da bilanciare con la regola di giudizio di cui all’art. 136 Cost. e all’art. 30 della Legge n.87 dell’11 marzo 1953, a sua volta elevata a “principio”) è dunque l’equilibrio – o meglio il pareggio – di bilancio.
Abbiamo premesso che l’art. 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1 ha sostituito l’originario art. 81 della Costituzione, introducendo tale “esigenza” nella Parte seconda (ordinamento della Repubblica), Titolo I (il Parlamento), Sezione II (la formazione delle leggi) della nostra Legge fondamentale.
Essa è dunque rivolta al legislatore e ne limita la sovranità legislativa. E’ compito di quest’ultimo stabilire (in regime di pareggio di bilancio) sino a che punto la realizzazione di un principio fondamentale o di un diritto inviolabile (e la spesa che essa comporta) possa essere sacrificata in ragione delle scarse (per scelta politica) risorse economiche disponibili (cioè in ragione delle esigenze di bilancio).
Compito della Corte Costituzionale è invece quello di giudicare sulla scelta compiuta dal legislatore, valutando se la stessa risponda a criteri di razionalità.
Con la sentenza n.10/2015 la Corte Costituzionale (come segnala un autorevole commentatore) si attribuisce invece una facoltà non prevista dalla legge: estrae l’equilibrio-pareggio di bilancio dalla Sezione II del Titolo I della Parte II della Costituzione (ovvero dalle norme riguardanti la “formazione delle leggi”) e lo eleva a principio fondamentale “che s’impone sempre e comunque come limite dei diritti fondamentali, anche senza l’interposizione del legislatore”, “di cui la Corte deve direttamente (cioè senza il medium della legge) tenere conto svolgendo il «compito istituzionale» che le è affidato” (http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/04/bin1.pdf).
Pur con tutto il rispetto dovuto alle decisioni della Corte, nonchè all’autorevolezza e all’indipendenza dei suoi componenti (almeno di quelli sganciati dalle scelte degli organi politici), corre l’obbligo di osservare che in tal modo il Giudice delle leggi non solo trascura il fatto che soltanto “il legislatore – per la legittimazione che gli conferisce la rappresentanza politica – può graduare le prestazioni pubbliche connesse ai diritti, perché questi non sorgono direttamente limitati dalle esigenze finanziarie; e che neppure i giudici possono farsi portatori di tali esigenze nell’amministrare i diritti, se non applicando i limiti che la legge impone” (cfr. l’ultimo scritto sopra citato), ma incappa in una svista assai più grave, non considerando che la legge costituzionale che ha introdotto l’esigenza del pareggio di bilancio nella nostra Carta fondamentale è gerarchicamente subordinata ai principi fondamentali della Costituzione del 1948.
Se l’affermazione di un principio costituzionale determina – per effetto di una norma introdotta con legge costituzionale – il sacrificio di un altro principio, la Corte non deve “modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro” (sacrificando così parzialmente, sotto il profilo della tutela effettiva, il primo – o almeno uno – di tali principi), ma, tenendo conto della subordinazione gerarchica della legge costituzionale, deve porsi il dubbio di legittimità costituzionale di quest’ultima (soprattutto quando il possibile sacrificio riguardi il diritto al lavoro e quelli strettamente connessi, sanciti dagli art.li 36 e 38 Cost., o il principio di eguaglianza, o la difesa dei diritti inviolabili), verificando se la stessa non rappresenti un “corpo estraneo” all’ordinamento costituzionale originario. E proprio il fatto che la tutela effettiva di un diritto fondamentale (derivante da principi inderogabili) previsto dalla Costituzione degradi a pretesa eventuale, in quanto soggetta alle esigenze di bilancio fissate dall’art. 81 Cost. (come sostituito dalla legge costituzionale sopra citata), deve richiamare l’attenzione della Corte sull’estraneità di tale norma al sistema costituzionale e, quindi, sull’esistenza di un palese contrasto fra lo stesso art.81 Cost. ed i principi inderogabili della Costituzione e sulla conseguente esigenza di un sindacato di costituzionalità interno.
A nulla poi rileva che tutto ciò comporti il “venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale”: come insegna la stessa Corte Costituzionale (e come abbiamo ripetuto in alcuni nostri precedenti articoli), i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona (cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una democrazia del lavoro) costituiscono un “limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168 del 1991, n.284 del 2007) […] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (così la recente sentenza Corte Cost. n.238 del 22 ottobre 2014).
Il “rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale” non può dunque comportare il sacrificio (ovvero la mancata tutela, anche dal punto di vista della retroattività delle restituzioni conseguenti alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma), nemmeno parziale, dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inalienabili della persona. Sacrificio che, in sostanza, si tradurrebbe in un’inammissibile revisione costituzionale tacita di quei medesimi principi, definiti inderogabili, ma resi di fatto derogabilissimi da una norma introdotta (in nome dei precitati “parametri” europei) con una legge costituzionale e, dunque, sottordinata alla Costituzione.
E’ poi curioso il fatto che un’altra sentenza della Corte Costituzionale, di poco successiva alla n.10/2015, ovvero la n.70 del 30 aprile 2015 (quella sulle pensioni, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fornero nella parte in cui ha bloccato l’adeguamento al costo della vita delle pensioni di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS) non si sia posta il problema delle esigenze di bilancio stabilite dall’attuale testo dell’art. 81 Cost., consentendo così la piena effettività della tutela (sotto il profilo della retroattività delle restituzioni) dei diritti fondamentali lesi dalla norma giudicata incostituzionale.
Non so se alla Corte, nel periodo intercorso tra la sentenza n.10 e la n.70, siano “fischiate le orecchie” e se per questo il Giudice delle leggi abbia pronunciato una sentenza (la n.70) giuridicamente più corretta rispetto alla n.10 (per le ragioni suespresse, ovvero che i giudici non possono farsi portatori delle “esigenze” finanziarie nell’amministrare i diritti, poichè questi non sorgono direttamente limitati da tali “esigenze”), ma senz’altro più iniqua dal punto di vista redistributivo, perchè in costanza dell’art. 81 Cost. le restituzioni finiranno per gravare, prima di tutto, sulle fasce sociali più deboli (anche se in misura piuttosto contenuta, a giudicare il testo del decreto legge n.65 del 21 maggio 2015, dichiaratamente attuativo dei principi affermati dalla sentenza n. 70).
Fatto sta che, in un modo (sentenza n.10) e nell’altro (sentenza n. 70), l’ “esigenza” del pareggio di bilancio – elevata impropriamente a principio fondamentale (sentenza n. 10), o correttamente ignorata, in quanto esclusivamente rivolta al legislatore (sentenza n.70) – comporta il sacrificio, totale o parziale, di principi fondamentali e/o di diritti inalienabili della persona, per la mancata tutela effettiva, sotto il profilo restitutorio, dei principi di cui agli art.li 3 e 53 Cost. violati dalla Robin Tax (nel caso della sentenza n.10), o (mutuando l’argomentare della Corte) per “l’irragionevole redistribuzione della ricchezza”, con “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale” e “con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (nel caso della sentenza n.70).
In entrambi i casi la Corte ha perso un’ottima occasione per “uscire dal guado” (cfr. http://orizzonte48.blogspot.it/2015/05/il-redde-rationem-la-corte-in-mezzo-al.html), prendendo atto che la norma sul pareggio di bilancio è un vero e proprio “corpo estraneo” all’ordinamento configurato dalla Costituzione del 1948 [essendo il “portato di un modello socio-economico diverso e incompatibile con quello del 1948”, che ridisegna la “funzione dello Stato” (cfr. http://orizzonte48.blogspot.it/2015/05/resa-totaleo-la-finzione-non-puo-piu.html): da Stato sociale, così come voluto dai padri costituenti, a Stato minimo, secondo i canoni più classici del pensiero ordoliberista] e sottoponendo la stessa al sindacato di costituzionalità.
Saprà la Corte, alla prossima occasione, affrontare e risolvere il problema del “vincolo esterno” (reso “interno” alla Costituzione dalla sopra citata legge costituzionale) dando concretezza ai sacrosanti principi da essa affermati nella sentenza 238 del 2014 e senza subire la pressione del banditesco e regressivo connubio politico-mediatico filo unionista, sempre più ansioso di rimuovere l’ultimo ostacolo (la Costituzione democratica repubblicana) all’ “integrazione europea” (come ci ha ricordato, con la sua solita faccia tosta, il “sicario” euro-globalista Mario Monti: https://www.youtube.com/watch?v=pBjxjRcSAFs , o addirittura Jp Morgan, la spregiudicata banca d’affari statunitense: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/)?
“Dalla risposta a questo interrogativo dipende, in pratica, il permanere o meno di una effettiva legalità costituzionale e democratica” (cfr. http://orizzonte48.blogspot.it/2015/05/il-redde-rationem-la-corte-in-mezzo-al.html).
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
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