Giorgio Ruffolo: La questione meridionale? Non è colpa di Garibaldi
Giorgio Ruffolo (1926) è stato segretario generale della Programmazione economica negli anni Sessanta e ministro dell’Ambiente dal 1987 al 1992. Il brano che segue è tratto dal libro Quando l’Italia era una superpotenza, edito da Einaudi nel 2004.
All’inizio del Millennio il Mezzogiorno d’Italia, dal punto di vista della prosperità economica, stava nettamente in testa. Sarebbe stato del tutto naturale che fossero le regioni italiane più vicine all’Oriente e alle sponde dell’Africa settentrionale a trasmettere al resto della penisola che si risvegliava demograficamente ed economicamente gli impulsi del mondo sviluppato, arabo e bizantino. La Sicilia, poi, faceva parte integrante di quel mondo. Palermo era diventata la metropoli dell’islamismo mediterraneo, la più ricca, la più fiorente, la più colta. Invece quello slancio si spense presto. Già alle soglie del Duecento i rapporti tra le Repubbliche del Nord e il Regno del Sud si erano rovesciati.
Di chi la colpa? Potremmo dire, con Amleto, “il re ne ha colpa”. I re normanni non hanno soltanto stroncato la potenza di Amalfi, ma hanno soffocato le nascenti autonomie delle città, costruito le maglie di un rigido ordine feudale, ribadito la preminenza assoluta dell’agricoltura e della pastorizia sulle manifatture e sui commerci. E’ vero che, specie nella parte longobarda, interna, del paese preesisteva al dominio dei cavalieri feudali normanni un’aristocrazia terriera dominante. Non ci fu, dunque, nel Sud, a differenza del Nord, una vera e propria sostituzione di classe dirigente. Ma i Normanni, e poi i loro successori Svevi e Angioini, diedero a quella aristocrazia l’armatura di una solida Monarchia guerriera, bloccando ogni possibilità di sviluppo delle timide borghesie cittadine nascenti.
In un certo senso i Normanni cancellarono nel Sud l’anomalia italiana delle Repubbliche libere, riadeguando l’Italia all’Europa del nord. Ma in questo esagerarono, scegliendo decisamente la via di un’economia estensiva, agricola e pastorale, che faceva del Sud il grande fornitore di grano del Nord, da cui importava i manufatti. Ne traevano grandi vantaggi l’aristocrazia e la monarchia: le rendite fondiarie la prima, le entrate fiscali provenienti da quella e dai dazi sull’esportazione la seconda. Rendite e imposte affluivano copiose alla capitale, a Napoli, dove si concentrava un’aristocrazia oziosa e un proletariato turbolento e parassitario.
Le importazioni di prodotti dell’industria dal Nord ostacolavano lo sviluppo di manifatture domestiche. Il commercio era lasciato nelle mani dei mercanti del Nord, fiorentini e lombardi, sfidati, più tardi, da quelli catalani. Ecco riuniti, in grande anticipo sui tempi, i fattori genetici della “questione meridionale”. E’ certo una utopia, anzi, una ucronia che in Italia si potesse compiere allora una sintesi impossibile tra la ricchezza delle Repubbliche [settentrionali, ndr] e la potenza del Regno [meridionale, ndr]. Nella storia, però, talvolta, la realité dépasse la fiction. Io mi sono divertito a immaginare un Federico II, vittorioso sì, sulle Repubbliche del Nord, come fu, effettivamente, nella giornata di Cortenuova; ma pronto poi a stringere con esse una storica alleanza; e una Lega italica disposta a stringersi, in una originale forma di monarchia federativa, attorno a un prestigiosissimo re (Federico era molto più italiano che tedesco).
Le cose non andarono proprio così. La storia prese invece la strada della divaricazione tra le due Italie. La prese proprio allora. Il regno del Sud rinforzò, con Angioini e Aragonesi, i tratti di una struttura feudale immobilistica, di una economia primitiva e di una fiscalità rapace, fondati su uno sfruttamento spietato delle plebi contadine, che alimentava una nobiltà oziosa e un clero ignorante.
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