Antonio Gramsci e la teoria del partito
di ROBERT BOESCH (www.sinistrainrete.info)
Il “modello generale” gramsciano dell’ascesa di una classe alla condizione di egemonia sociale, trova la sua sequenza di sviluppo nella sua teoria del partito comunista. In Gramsci, il partito comunista è “la forma di organizzazione più elevata del soggetto rivoluzionario, l’intellettuale collettivo”, che è spinto a “diventare Stato egli stesso” e a “modellarlo a sua immagine e somiglianza”. Deve riunire in sé “tutte le esigenze della lotta generale”. E’ sintomatico per il suo politicismo che egli illustri tale idea sulla base del Principe di Machiavelli: “in tutto il suo piccolo libro, Machiavelli tratta delle caratteristiche necessarie al principe per poter condurre il popolo alla fondazione di uno Stato”.
Secondo Machiavelli, un principe arriva al potere “attraverso un’astuzia fortunata e l’apprezzamento del popolo”. Tuttavia, secondo Gramsci, “nell’epoca moderna della rivoluzione proletaria” un simile “principe del popolo” non può più essere una “persona carismatica” (Caponi de Hernandez, 1989), “non può essere più un individuo concreto… ma soltanto un organismo, un elemento sociale complesso, nel quale… una volontà collettiva comincia a concretizzarsi. Questo organismo è già presente in funzione dello sviluppo storico e consiste nel partito politico”.
Il concetto di partito in Gramsci è quello della grande organizzazione dell’epoca delle masse, o meglio, è quello dell’inclusione nella politica delle masse separate dalle loro radici di classe. Per Gramsci, il partito dev’essere un “intellettuale collettivo”, “l’istanza totalizzante di classe, intellettualmente e moralmente unificante”. In questo concorda con Lenin sul fatto “che la necessità di una forte leadership, di unità e disciplina esiste nel partito stesso”. Tuttavia, rifiuta un partito di quadri di “rivoluzionari di professione”. Quest’ultima osservazione è legata al fatto che Gramsci riconosce in maniera assai chiara le differenze fra la situazione sociale russa e quella italiana. Proprio in funzione del fatto per cui la Russia rappresenta un grande ritardo in termini di modernizzazione, in rapporto ai paesi dell’Europa centrale ed occidentale, dal movimento che la “società civile” praticamente non si è sviluppata, il partito comunista (come cosiddetta “avanguardia rivoluzionaria del proletariato”) può arrivare al potere per mezzo di una “guerra di movimenti”. “In Oriente, lo Stato era tutto, la società borghese si trovava ai primordi, ed i contorni erano fluidi. In Occidente regnava un rapporto equilibrato fra Stato e società borghese, e se lo Stato veniva aggredito si evidenziava rapidamente la solida struttura di tale società borghese. Lo Stato era solamente una trincea avanzata, dietro cui c’era tutta una serie di robuste fortificazioni e casematte” (Gramsci). Di conseguenza, bisogna fare affidamento su una “lotta prolungata … della classe operaia” per la “egemonia in tutte le sfere della vita sociale, già prima della rivoluzione”.
Il “principale compito del partito” nella fase della “guerra di posizione”, secondo Gramsci, dev’essere “la riforma intellettuale e morale” delle masse. La sua realizzazione deve permettere al partito di “espandersi enormemente, per poter costruire un’egemonia… per l’unificazione di tutte le fasce di popolazione”, rispetto alle quali il partito “è l’elemento intermediario che trasforma l’embrione della volontà collettiva dell’inizio del processo rivoluzionario in espressione della società come un tutto. Attraverso il partito e la sua funzione educativa, le masse si trasformano gradualmente in agenti coscienti del processo rivoluzionario”. Il problema che pone Gramsci, essenzialmente non è diverso da quello formulato da Lenin: il livello di sviluppo delle relazioni sociali è troppo basso perché esista la possibilità di un ampio sviluppo degli individui, per cui non può essere abolita la separazione fra “dirigenti” e “diretti”, la divisione fra lavoratori del braccio e della mente.
Tuttavia, questo si presenta a Gramsci come una caratteristica strutturale fondamentale della socialità moderna, che non può essere abolita. Egli riconosce con molta chiarezza che la progressiva divisione sociale del lavoro della società industriale è legata ad una separazione delle possibilità e delle capacità degli individui e che queste sono sempre più incluse nel processo sociale, ma ciò non porta ad una dissoluzione delle gerarchie sociali; Gramsci considera inevitabile un simile sviluppo, ma pensa di poter dare ad esso una forma “democratica”, sotto un “governo socialista”.
Laddove Gramsci pensa di dare una “risposta socialista” alla da lui supposta “crisi di lungo periodo del capitalismo”, egli in realtà formula un programma che, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, venne messo all’ordine del giorno sotto l’etichetta molto più prosaica di “pari opportunità”. Quando si spoglia la sua nozione di “Stato operaio” da tutte le bardature ideologiche, si può constatare che corrisponde in maniera relativamente esatta a quella che negli ultimi quarant’anni è stata la realtà sociale nelle democrazie di massa occidentali (ma che, nel frattempo, sono entrate in crisi).
Il fatto che il suo concetto di partito non sia altro che una “variante light” dell’esempio leninista, è in contraddizione soltanto apparente con la sua nozione di democrazia. Il partito comunista, il “principe moderno”, deve figurare come “collettivo individuale” e in tal modo sostituire il “centralismo burocratico” in cui la relazione fra partito e classe lavoratrice è puramente gerarchica, di tipo militare, per un “centralismo democratico”. In esso, “la relazione classe-partito dev’essere… organica e non burocratica”, i leader della classe operaia devono personificare “i suoi interessi e desideri più fondamentali e vitali”, devono essere “una parte della classe operaia”, e non solo “un’appendice, un semplice innesto violento”. Buci-Glucksmann vede in questo “un ripudio di qualsiasi relazione burocratica-militare con le masse”, come “aveva praticato la politica stalinista”.
La riformulazione, intrapresa da Gramsci, del concetto di “centralismo democratico” creato da Lenin, avrebbe dovuto corrispondere al livello di coscienza più elevato delle masse italiane, così come alle esigenze di disciplina e subordinazione all’interno del partito; come lo formula Schreiber, avrebbe dovuto rendere possibile “la dialettica di intellettuali e massa, di spontaneità e leadership”. Tale “unità fra intellettuali e massa del popolo, fra governanti e governati” si basava sulla “struttura a tre livelli” del partito; il suo primo elemento sono “le normali persone comuni, la cui partecipazione consiste di disciplina e lealtà”. Esse formano la “base sociale del partito”. Il secondo elemento “è l’elemento principale della coesione… dotato di una forza altamente coesiva, centralizzatrice e creativa; si tratta della direzione del partito, di cui Gramsci diceva che sarebbe stato più facile che essa formasse un partito, piuttosto che il primo elemento”. Il terzo elemento, infine, esercita una funzione di intermediazione, nella quale serve da legame fra il primo ed il secondo elemento; “si tratta dei cosiddetti “intellettuali organici al proletariato”, il cui lavoro “deve permettere l’interazione e l’integrazione politica, morale ed intellettuale fra le masse e la direzione”.
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