L'ascesa della Meritocrazia
di PIERLUIGI BIANCO (ARS Puglia)
“Il termine “meritocrazia”, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità.” (Vocabolario Treccani)
Un’oscura presenza dalle anglosassoni origini si aggira indisturbata nel nostro paese ormai da diversi decenni.
Essa rappresenta un’ideologia imperante che si professa incontrovertibile e si presta ad essere l’irrinunciabile vessillo di chi vuole cambiare e progredire, di chi si batte contro la “casta”, di chi vuole superare l’italietta, di chi vuole uscire dal provincialismo ed aprirsi al mondo, di chi è moderno, di chi è onesto, insomma, di chi merita.
Il termine “merito” è diventato la sintesi dei valori positivi che ci mancherebbero e che dovremmo acquisire.
Si moltiplicano studi, ricerche, statistiche, istituti che stilano classifiche, tutti impegnati a valutare se e quanto siamo meritevoli e, nel nostro caso, per farci capire quanto NON lo siamo.
Il popolo deve provare vergogna per il fatto di non essere al passo con i tempi, con l’Europa, con gli Usa, persino con la Cina.
È interessante scoprire che il termine “meritocrazia” nasce con una valenza negativa in un’opera distopica di Michael Young. L’autore immagina una società in cui si concretizza l’ascesa al potere di una nuova subdola forma di dittatura: i più intelligenti e capaci si convincono di “meritare” il bastone del comando e si impongono sugli altri con l’aggravante della presunta superiorità morale.
Di fatto la maggior parte dei sostenitori italiani della meritocrazia si pongono l’obbiettivo di combattere le lobby, le raccomandazioni, gli inciuci, gli sprechi nel tentativo di premiare solo chi merita. Chiaramente la battaglia è importante e va portata avanti (trattasi di semplice buon senso), ma, per poterlo fare degnamente, bisognerebbe aver ben presente il quadro della situazione. Al riguardo i meritocrati odierni sono piuttosto deludenti.
Come si definisce il merito? Chi lo valuta? La meritocrazia presuppone un assunto antropologicamente discutibile: chi infatti può affermare di aver meritato di nascere? Affermare il merito come principio determinante in un sistema sociale significa rischiare di trascurare questa fondamentale legge della natura che non permette a tutti di partire alla pari.
Un’altra caratteristica che spesso accompagna la visione meritocratica della società è l’individualismo che, a sua volta, è strettamente legato alla concorrenzialità. Chi merita di più? Anche tale presupposto è discutibile: il merito individuale è in qualche modo legato anche alla collettività; ciò che ognuno fa è direttamente o indirettamente correlato ad aspetti della vita e dell’operato altrui. Attribuire il merito ad un singolo risulta quasi sempre una forzatura.
Ciò che dovrebbe fare la differenza allora non è premiare o meno il merito ma stabilire cosa considerare merito in base ai parametri che si decide di prendere in considerazione. È su questo che bisogna fare chiarezza altrimenti ci si perde in vuoti formalismi. Non si può considerare il merito secondo parametri universali. Farlo significa essere gravemente ingenui o perfidamente in malafede.
Va considerato più meritevole chi studia per un master in economia o chi lavora come barista in un quartiere malfamato? Chi sa rispondere a complicati quesiti matematici o chi sa farsi valere in battaglia? Chi accumula risparmi o chi aiuta i più deboli? Chi sa analizzare e comprendere un testo o chi sa far funzionare e magari riparare attrezzature tecnologiche?
È chiaro che rispondere significa operare delle scelte in base a necessità specifiche ma anche e sopratutto in base a criteri culturali. Nasciamo all’interno di società con codici morali e comportamentali che assimiliamo fin da bambini e che crescendo possiamo riconoscere, accettare, modificare o abbandonare.
Questo substrato è attivo quando immaginiamo o parliamo di merito ed esserne consapevoli è fondamentale per non cadere nell’assurdo o nel fanatismo; anche perché spesso le opzioni sono tra loro in conflitto, ed allora, a seconda di quale sia la nostra cultura, il nostro giudizio di fondo, una stessa azione o scelta saranno considerate più o meno meritevoli. Senza valori di riferimento si rischia di ratificare modelli etici che in realtà sono scelte tra le altre, e non necessariamente migliori.
In ambito lavorativo è abbastanza comprensibile che risulti meritevole chi persegue diligentemente gli obbiettivi stabiliti dai propri superiori. È chiaro che in questo senso il rischio di sottomettersi acriticamente al volere dei capi è alto. Chi pone problemi, chi critica è meno meritevole? Un lavoratore che rifiuti di fare “le ore piccole” in ufficio per stare con la propria famiglia o per coltivare un interesse o una passione, o semplicemente perché vuole del tempo per se stesso è meno meritevole? È un merito non esser mai stati licenziati? Ed è un demerito esser stati licenziati per aver affrontato a viso aperto una capo tirannico che faceva pressioni al collega sfigato?
Sempre più spesso è giudicato meritevole un atteggiamento che, nell’immediato, si rivela economicamente vantaggioso. Questo è riscontrabile quando oggi si parla di pubblica amministrazione, di gestione d’impresa e spesso anche in riferimento a carriere e scelte personali. È tutto così semplice? Davvero il denaro è il criterio da anteporre ad ogni altro aspetto della vita umana?
Essendo la meritocrazia un sistema di valutazione tipico delle società liberiste non è un caso che i meritocrati, anche nel criticare corruzione e sprechi, finiscano inevitabilmente con il proporre quello che per loro è l’unico giudice concepibile: il libero mercato. Ma questa filosofia di vita votata all’individualismo, alla competitività, alla precarietà, alla flessibilità e alla legge del denaro senza più confini può davvero portare a una valorizzazione dei meriti? E soprattutto, produrrà una società che sia per tutti migliore rispetto a quella precedente?
“Il lavoratore stabile rappresenta un modello sociale di carattere eminentemente politico: la stabilità è infatti intesa come una forma di tutela atta a conservare il libero esercizio dei diritti politici garantiti dalle costituzioni democratiche. Infatti solo l’uomo liberato dai bisogni primari (prima casa, lavoro stabile, contratto collettivo di lavoro, sanità, previdenza), può essere in grado di godere della necessaria autonomia atta a garantirgli la libera partecipazione politica. Nella condizione della precarietà, tali diritti restano sostanzialmente preclusi: se nulla il lavoratore può decidere circa la sua sfera individuale e familiare (regolate dall’andamento dei mercati), tanto meno egli potrà esercitare la propria libertà in campo politico”. (L. Tedeschi)
Il consumatore moderno, purtroppo, non ha valori di riferimento se non la sovrastruttura ideologica che fa propri i valori della libertà dei mercati, della vita sregolata e dell’individualismo illimitato che mira ad una sorta di “selezione naturale”. In questo modo le libertà reali dei soggetti, la capacità d’essere realmente soggetti pensanti ed autonomi diventa, sempre più, un privilegio per pochi. Tenderei, perciò a non fidarmi degli anglosassoni. Non convince la loro concezione di libertà individualistica né lo sbandierato efficientismo del sistema meritocratico.
Meglio i “difetti” italici. Noi abbiamo altri tipi di risorse e molte di queste hanno a che fare con una tessuto sociale fitto, con legami personali e locali di collaborazione e solidarietà. Di esempi positivi e degni di merito ne abbiamo a bizzeffe. Probabilmente cercando su internet o sui giornali “meritocrazia” in Italia troverete ad accompagnarla il verbo “mancare”.
Sarà anche vero (e meno male), ma ormai viene facile pensare che a farla da padrone anche in questo caso sia la solita tendenza autolesionista instillata per diffondere delusione, malcontento, vergogna, umiliazione. Tutti stati d’animo che possono essere agevolmente sfruttati per impiantare un modello che, per aver messo alla gogna le alternative, viene fatto passare per il più meritevole.
Se non l’avesse visto, sul sito http://www.forumdellameritocrazia trova un tentativo di costruire strumenti per un interpretazione del termine meritocrazia.
parole sante. articolo da incorniciare.
Bellissimo,me lo studio!