Codici immorali
di Massimo Fini
fonte Massimofini
L’Iban, 27 numeri se non mi sbaglio, sarebbe, già di per sé, un’obiezione sufficiente alla società moderna, la cui sola giustificazione del resto è di aver portato il cesso in casa e, forse, l’invenzione del bikini. Noi viviamo di Iban, di Cin, di Pin, di Cab, di Abi, di carte di credito, di codici, di sigle. Non siamo più persone, siamo numeri. E interloquiamo con i numeri o con le macchine, il che fa lo stesso. Poniamo che abbiate un guasto telefonico, naturalmente se appartenete a quella specie pliocenica che possiede ancora un fisso. Comincia una gimkana disperante che dall’1 ti manda al 3 e poi al 9 e quindi, come nel gioco dell’oca, ti rispedisce al punto di partenza. Avete sbagliato qualcosa. Non avete dato il codice. E se il codice non ce l’avete?
Dovete fare un percorso diverso. Finalmente raggiungete un operatore, un ragazzo di qualche call center che probabilmente parla da Lecce mentre il guasto è a Milano che risponde con la solita formula per cui, per quanto ne potete sapere voi, potrebbe essere benissimo un disco: “Sono Stefano, in che cosa posso esserle utile oggi?”. Spiegate. Il disco dice: “Le procedure prevedono che il guasto sarà riparato entro le 48 ore”. Poiché dopo un giorno non è successo nulla, e voi friggete, provate a sollecitare. Niente da fare. I numeri si oppongono. Il 3 o il 5 rispondono: “La procedura è in corso” e non ti permettono di andare oltre, pare anzi di sentire, nel disco, un tono un po’ seccato, che è l’unico elemento un po’ umano di tutta la faccenda. Dopo le sacramentali 48 ore non è stato aggiustato un bel niente.
Facendo percorsi sempre più tortuosi, dove i numeri si sommano, si raddoppiano, si dividono, tentano di depistare, riesci finalmente a raggiungere un operatore, che probabilmente sta a Vipiteno: “Sono Stefania, come posso esserle utile oggi?”. “Fatemi parlare con un essere umano, ‘porco zio’”. Devo ammettere che la bestemmia, in questa società di baciapile, ha ancora una sua magica efficacia. Si è palesato, almeno in voce, un tipo che pareva essere un uomo e sapere cos’è un telefono. Ai tempi belli della Stipel telefonavi, usando l’apparecchio del vicino di casa (oggi non esistono più i vicini di casa, ma solo numeri sul citofono), usciva un omino in carne e ossa, veniva a casa tua e riparava il guasto. Ma quelli erano i felici tempi andati in cui l’uomo esisteva ancora. In tempi ancor più lontani, nei “secoli bui” del Medioevo, nella comunità di villaggio ognuno conosceva tutti ed era da tutti conosciuto. Tutti sapevano chi fosse e quanto valesse e finiva per saperlo anche lui. Non si poteva barare, né con gli altri né con se stessi, perché la tua vita e le tue vicende scorrevano davanti agli occhi della comunità. Se eri un fesso eri riconosciuto come tale, se eri un ladro idem, se eri un brav’uomo pure. Nella complessità della società attuale tu non puoi mai sapere che hai davanti. Quanti ne ha fregati Callisto Tanzi con quella sua aria da gran signore, elegante, opportunamente brizzolato? Eppoi se la prendono col mago Do Nascimiento che ha almeno l’onestà di aver scritto in faccia “truffatore professionista”, così come la Banda Bassotti porta la regolamentare mascherina. Non dovrebbero arrestare il mago, sono le sue presunte vittime, che sono state così fesse da cascarci, che dovrebbero essere perlomeno interdette dal voto (con tutta probabilità lo danno a Berlusconi che è un Do Nascimiento un poco mascherato – il suffragio universale è stata la rovina della democrazia). Ai bei dì non occorreva la carta di identità, gli Iban, i Cin, i Pin, gli Abi, i Cab, per farsi riconoscere. Quest'estate ero in Corsica e mi ero spinto fino a Muna, un villaggio che segna quasi il centro geometrico dell’isola, appoggiato ad alte montagne rocciose simili alle Dolomiti. Mi sono messo a parlare col gestore di un minuscolo chiosco, un uomo sulla sessantina. Chiacchiera, chiacchiera, bevi insieme un paio di bicchieri di buon vino, alla fine abbiamo fatto amicizia. “Come ti chiami?” gli ho chiesto. “Paulu”. “Ma di cognome come fai?”. “Paulu de Muna” mi ha risposto, un poco sorpreso. E la vita è tornata a sorridermi.
pubblicato su "Il fatto"
E' un articolo del migliore Fini che condivido nella sostanza. Solo un'annotazione:
"il suffragio universale è stata la rovina della democrazia" è un ossimoro. Visto che demos significa popolo e kratos governo, il suffragio universale non può che essere il naturale metodo di consultazione popolare in democrazia.
Se poi vogliamo discutere sul senso del voto e sulla sua rappresentatività, allora apriamo questo vaso di Pandora. La democrazia moderna si fa scudo della presunta rappresentatività del voto per fare gli interessi delle solite elites. In pratica esistono due democrazie: quella teorica di una testa un voto che vuole tutti ugualmente impegnati e responsabili nella gestione del potere, e la democrazia reale, quella che sancisce l'inutilità dell'alternanza data la sostanziale intercambiabilità dei rappresentanti del popolo.
E' un fatto storico: la democrazia è nata nell'antica Grecia delle polis e dava capacità decisionali al padronato (tanto per cambiare…). Chi partecipava non era la base di quella società, essendo esclusi dal voto schiavi, meticci e donne. La partita se la giocavano in casa, con arbitro compiacente. Si parla di un 15% di popolazione che si arrogava il diritto di essere chiamata demos, popolo.
Le cose nei secoli non sono andate diversamente. Le suffragette hanno regalato alle donne il diritto al voto senza peraltro scalfire la possibilità di modificare lo status quo: con o senza il voto dei lavoratori (o schiavi), degli esclusi e delle donne la democrazia ha partorito sempre i soliti risultati. Mi sento quindi di dire che la democrazia è nata male e cresciuta peggio e nulla la potrebbe mai rovinare, forse neanche la dittatura, stando a Charles Bukowski:
"La differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, mentre in dittatura non si perde tempo con il voto"