Aumento della produttività e valore del tempo libero
(Di Nicola Di Cesare – Ars Cagliari)
Gli Italiani, anche se molti non lo sanno, sono stakanovisti. Le statistiche comparate parlano chiaro. La media delle ore lavorate per addetto salariato è in linea con la media dei principali paesi europei ma per il lavoro autonomo che in Italia rappresenta circa il 22% della forza-lavoro attiva (contro una media europea del 14%), si rileva un numero di ore lavorate straordinariamente alto, 1.774 all’anno pro capite, oltre 200 in più rispetto al resto d’Europa.
L’Italia, a fronte di un monte ore lavorate simile alla media Ocse, sta sopra a buona parte d’Europa con 372 ore in più dell’Olanda, circa 16 giorni in più all’anno, dove il tasso di produttività del lavoro è pari a 52,3 dollari Usa all’ora contro i 38,4 dollari del nostro paese !
Malgrado il forte impegno orario i salari netti in Italia non rispecchiano le ore effettivamente lavorate in quanto, a una già bassa produttività del lavoro, si aggiunge un carico fiscale fuori controllo che decurta ulteriormente lo stipendio percepito.
La produttività è un rapporto tra una quantità di prodotto e una quantità di input impie¬gata per realizzarlo in una unità di tempo convenzionale, per esempio un’ora. Prodotto e input sono grandezze flusso. Il lavoro è un input ed è misurato in ore; il particolare interessante sta nel fatto che quando entrano in gioco i prezzi del prodotto e degli input diversi dal lavoro diretto, per misurare il valore del prodotto netto dobbiamo utilizzare il concetto economico di produttività. Il livello della produttività del lavoro di un processo produttivo dipende inoltre dalla tecnologia che si sceglie. È la tecnologia che determina la produttività industriale. Un’azienda per immettere il proprio prodotto sui mercati utilizza un insieme di fattori o servizi che non sono sotto il suo controllo, sostenendo per il loro utilizzo quelli che gli economisti chiamano “costi di transazione” o “costi istituzionali”. Essi dipendono da molte variabili indipendenti dal processo produttivo: l’efficienza del sistema dei trasporti, l’efficienza e i costi del sistema di relazioni con le istituzioni, i costi relativi alla tutela dei diritti d’impresa e tanti altri. Ai costi industriali, fissati dalla tecnologia e dal prezzo degli input richiesti, si sommano dunque i costi di transazione che decurtano il valore del numeratore e dunque della produttività che viene così definita come PTF, Produttività totale dei fattori.
Un’altro importante aspetto di cui tener conto ai fini della valutazione del valore del lavoro è la cosiddetta “competitività” che viene misurata in termini di Unit Labour Cost. l’ULC tiene conto di due fattori: il costo oratio del lavoro, in relazione alla produttività del lavoratore in quell’ora; in sintesi a quanto ammontano il costo per un’ora di lavoro rispetto al valore prodotto in quell’ora; il rapporto fra i due è espresso con un numero indice che va da 0,50 (lavoratore molto competitivo) a 0,80 (lavoratore poco competitivo).
L’Italia ha lavoratori tra i più competitivi al mondo con un indice di 0,69. La Gran Bretagna a 0,72. Il Belgio a 0,71. La Francia a 0,69. L’Austria a 0,70. La Danimarca a 0,73. La Svezia a 0,69. Gli USA a 0,69. L’Olanda a 0,69. La Germania a 0,65 (“Attitudes to Work. Summary Report. European Roundtable of Industrialists”).
Come si può notare la competitività del lavoratore Italiano è in linea con i maggiori paesi industrializzati; a determinare la retribuzione netta pertanto altro non è che la produttività.
Tra gli effetti pratici del divario di produttività Italiana rispetto ai mercati del lavoro appartenenti alla UE vi sono principalmente:
• Elevata disponibilità dei lavoratori a espandere il monte ore lavorate per cercare di elevare le scarse retribuzioni nette.
• Diminuzione delle unità operative impiegate negli organici delle organizzazioni produttive ed elevato ricorso al lavoro straordinario e dunque maggiore tasso di disoccupazione e minore tasso di occupazione.
• Richiesta di politiche d’incentivazione del lavoro straordinario da parte delle organizzazioni imprenditoriali che ovviamente ne hanno ottenuto la detassazione, a fronte di politiche di disincentivazione operate in tutti i maggiori paesi europei, che a loro volta rafforzano gli effetti precedentemente esposti.
• Alto rischio di infortuni e mortalità sul lavoro per effetto del prolungamento degli orari
Per capire le cause della bassa produttività in Italia è necessario innanzitutto risalire alle sue cause.
Il primo dato che salta agli occhi è l’incredibile correlazione tra alto numero di ore lavorate e basso livello di produttività; osservando i dati OCSE sulle economie Europee si potrà vedere come i paesi in cui si lavora di più la produttività è più bassa; in Grecia ad esempio a fronte del maggior numero di ore lavorate per unità operativa, 2.037 nel 2013, quasi 300 ore in più della 1.770 della media Ocse, 649 più della Germania si riscontra il più basso livello di produttività mentre in Germania al più basso numero di ore lavorate in ambito continentale, 1.388 nel 2013 si riscontra una produttività per ora lavorata di 50,9 dollari l’ora, uno tra gli standard più elevati dell’Eurozona.
Il secondo dato è l’elevata correlazione tra disoccupazione giovanile e bassa produttività. In questa triste classifica, ai primi quattro posti Europei troviamo (Eurostat 2013) Grecia, Spagna, Portogallo e Italia cioè i paesi a più bassa produttività. Qui non bisogna essere economisti per comprendere che l’età media della forza lavoro in attività possa determinare variazioni nel livello di produttività.
Considerato che la produttività ha inoltre tra le determinanti preminenti gli investimenti aziendali nella formazione, gli investimenti aziendali in tecnologia, gli investimenti infrastrutturali pubblici e gli investimenti pubblici nell’istruzione, andiamo a valutare comparativamente queste variabili.
• La percentuale di imprese che fornisce formazione ai propri dipendenti in Italia è più bassa di quella operata in quasi tutti i paesi Europei ad alto indice di produttività.
• Per quanto attiene al livello d’investimento pubblico nell’istruzione, l’Italia è il Paese che spende di meno fra gli Stati europei membri dell’Ocse in rapporto al proprio Pil (dati OCSE)
• Gli investimenti privati in percentuale al PIL in Italia nel 2014 sono al 16,5% contro il 19,3% della media UE (dati FMI)
• Gli investimenti pubblici, spesa in conto capitale, si attestano attorno al 3,5% contro il 4,5% della media UE.
Attraverso questi dati è facile comprendere il perché l’Italia soffre di un differenziale di produttività rispetto ai maggiori paesi industrializzati. Il sistema delle imprese e il settore pubblico non investono quanto sarebbe necessario per sostenere livelli di produttività accettabili.
Queste quattro cause sono facilmente riconducibili alla compressione che il sistema Euro-UE esercita sul sistema paese attraverso i vincoli esterni della moneta e del rigore di finanza pubblica.
Nell’indurre preferenza per la liquidità a scapito degli investimenti privati, l’Euro e le politiche di rigore della UE, a loro volta freno degli investimenti pubblici (in forte declino dal 2011), risultano dunque il più grande ostacolo al miglioramento della produttività del lavoro e della PTF.
Recentemente si è avuta notizia che in Svezia si sta sperimentando, presso una pubblica amministrazione, la riduzione a 30 ore settimanali dell’orario di lavoro a parità di salario; un tema molto discusso nella sinistra Svedese, già sperimentato con successo dal gruppo automobilistico Toyota. Al netto delle contraddizioni che questa soluzione porterebbe sul piano del costo del lavoro e del gettito fiscale complessivo si possono tuttavia rilevare alcuni aspetti d’interesse.
La riduzione dell’orario di lavoro, da otto a sei ore, si realizza a scapito dell’impegno delle ultime due ore di lavoro nelle quali la curva di efficienza lavorativa è bassissima e il suo livello di produttività estremamente scarso.
Tale riduzione consente, soprattutto nel caso delle imprese manifatturiere di “liberare” le linee di produzione, per l’avvio di un successivo turno di lavoro, senza ricorrere al lavoro notturno maggiormente retribuito, saturando gli impianti.
Il recupero di produttività su due turni riguarderebbe ben quattro ore di fine turno a scarsa produttività.
Parte di questa riduzione d’orario potrebbe scaricarsi su un minor numero di giorni di ferie retribuiti, dal momento che, il lavoratore libero per metà della giornata, avrebbe meno necessità di usufruire di permessi per gli impegni personali e familiari.
E’ statisticamente provato dall’esperienza Toyota che in caso di riduzione d’orario diminuiscono fortemente le assenze per malattia e infortuni dei lavoratori.
Le organizzazioni produttive, a fronte di un numero maggiore di unità impiegate, possono trattare con le forze di governo una conseguente detassazione del lavoro.
I lavoratori potrebbero avere più tempo per seguire corsi di aggiornamento professionale senza gravare sugli orari di produzione aumentando maggiormente il livello di produttività.
I tempi della famiglia sono più compatibili con i turni di sei ore, favorendo l’inserimento femminile nel mondo del lavoro con conseguente allargamento della base imponibile a sostegno delle succitate detassazioni.
In caso di opportuni accordi per la sostanziale abolizione o forte riduzione del lavoro straordinario, l’aumento dell’occupazione atteso è stimabile intorno al 15% e la produttività media di sistema potrebbe sensibilmente avvantaggiarsene.
Meno ore di lavoro, più lavoratori impiegati, maggiore produttività, maggiore saturazione degli impianti, meno lavoro nero, il tutto a parità di gettito fiscale; interessante ma non fattibile nel nostro paese; il motivo è molto semplice.
Le politiche salariali dell’Unione Europea per effetto dell’Eurozona (assente in Svezia) vanno in direzione esattamente opposta; la competitività aziendale deve essere ottenuta in assenza d’inflazione e cioè deve scaricarsi interamente sulle retribuzioni orarie. Ciò comporta anche l’abbattimento degli investimenti privati e pubblici e l’inevitabile arretramento della produttività che a sua volta si scarica sull’allungamento dell’orario di lavoro.
In mezzo a tanti “potrebbe”, l’esperimento Svedese va monitorato con attenzione.
Per saperne di più:
http://www.goteborgsfria.se/artikel/98834
http://nyheter24.se/debatt/767075-pilhem-v-darfor-infor-vi-6-timmars-arbetsdag-i-goteborgs-kommun
http://www.vansterpartiet.se/assets/Striden-om-tiden.pdf
http://www.vincitorievinti.com/2015/05/il-disastro-italiano-in-venti-grafici.html
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/01/istruzione-italia-ultima-i-paesi-ocse-per-spesa-pubblica-in-rapporto-pil/1308888/
http://www.istat.it/it/files/2013/08/La-formazione-nelle-imprese.pdf?title=Formazione+nelle+imprese+-+01%2Fago%2F2013+-+Testo+integrale.pdf
https://www.academia.edu/5889123/The_European_Round_Table_of_Industrialists_and_the_Restructuring_of_European_Higher_Education
http://www.ilpost.it/2012/02/27/chi-lavora-di-piu-in-europa/
http://www.wallstreetitalia.com/article/1684407/eurozona/italiani-lavorano-350-ore-in-piu-dei-tedeschi-infografica.aspx
https://books.google.it/books?id=rXm9N4oqYbUC&pg=PA65&lpg=PA65&dq=curva+efficienza+lavorativa&source=bl&ots=X4NSmYAVoP&sig=k0sqelUHIKm0RzR9ps2DUPXy2c8&hl=en&sa=X&ved=0CDAQ6AEwAmoVChMI1tmNrPKgyAIVxW4UCh0xsQem#v=onepage&q=curva%20efficienza%20lavorativa&f=false
http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=6441
http://www.istat.it/it/files/2011/08/B-Dossier-1-ORE-LAVORATE.pdf?title=Ulteriori+misure+per+la+stabilizzazione+-+30%2Fago%2F2011+-+Dossier+1.pdf
http://www.ebiten.it/doc/GLI%20ORARI%20DI%20LAVORO.pdf
http://www.panorama.it/economia/lavoro/ocse-stipendi-orari-lavorare-meglio/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/16/ridurre-lorario-lidea-rilanciata-dal-libro-craviolatti/1343754/
http://www.ipasvi.laspezia.net/images/ipafile/newsletter/news_008_salute_turni.pdf
http://www.portalecnel.it/Portale/IndLavrapportiFinali.nsf/vwTuttiPerCodiceUnivoco/7-0/$FILE/7%20-%20%20INDAGINE%20SU%20IL%20LAVORO%20NERO.pdf
http://www.istat.it/it/archivio/sommerso
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/25/lavoro-nero-a-ogni-regione-il-suo/2060927/
http://archivio.articolo21.org/349/editoriale/addio-35-ore-pi-orario-stesso-salario.html
http://www.ilfoglio.it/economia/2015/08/13/francia-lavoro-regola-delle-35-ore-superata-adieu___1-v-131785-rubriche_c642.htm
http://www.cipecomitato.it/it/eventi/2014/giugno/News_0002
L’esperimento della Svezia rimanda ovviamente all’esperimento politico-economico di Lèon Blum nella Francia del primo dopoguerra (anzi è praticamente identico). Non capisco però cosa intende nell’ultima parte quando scrive “Le politiche salariali dell’Unione Europea per effetto dell’Eurozona (assente in Svezia) vanno in direzione esattamente opposta; la competitività aziendale deve essere ottenuta in assenza d’inflazione e cioè deve scaricarsi interamente sulle retribuzioni orarie. Ciò comporta anche l’abbattimento degli investimenti privati e pubblici e l’inevitabile arretramento della produttività che a sua volta si scarica sull’allungamento dell’orario di lavoro”. Potrei avere delucidazioni in merito? Grazie
Normalmente, laddove un paese soffra di un differenziale nel rateo di crescita di produttività, esso può effettuarne il recupero effettuando opportune svalutazioni monetarie della valuta nazionale; la svalutazione consente di mantenere in equilibrio (positivo) la Bilancia dei pagamenti. In assenza di sovranità monetaria a causa della perdita della propria moneta, come nel caso Italiano, le politiche salariali devono necessariamente prevedere una legislazione che consenta alle imprese di poter abbassare il salario reale per sopperire al differenziale di produttività. Come è noto, il sostegno della bilancia, attraverso le manovre monetarie inducono la riduzione dell’output gap, fino alla saturazione del potenziale produttivo, e un aumento dell’occupazione interna, la quale a sua volta genera un dato aumento del tasso di inflazione (la cosiddetta inflazione buona, non generata da costi esogeni al sistema) (vedi NAIRU). L’Euro, statutariamente è stato costruito proprio per impedire che i singoli stati potessero creare occupazione, generando inflazione, in accordo con l’indirizzo politico dei trattati UE i quali vietano agli stati di investire in attività reali per aumentare la base occupazionale. La ragione di questa missione dell’Euro come si sa è quella di proteggere il valore dei crediti finanziari (leggi banche e speculazione) dall’erosione dell’inflazione, lasciando al mercato la facoltà di fissare i livelli di occupazione del continente.