Curtatone e Montanara
La battaglia di Curtatone e Montanara, nei pressi di Mantova, il 29 maggio 1848, fu uno dei momenti più alti e significativi delle Guerre di Indipendenza italiane. Fu combattuta in inferiorità numerica dall’esercito toscano affiancato da volontari toscani e napoletani male equipaggiati contro l’esercito asburgico, uno dei più potenti e addestrati eserciti del mondo.
Un protagonista degli eventi, Giuseppe Montanelli, nelle pagine delle sue Memorie, riesce a descriverci tutto il valore e l’ardimento della gioventù di allora, animata da profondi ideali di unità e fratellanza.
Noi partimmo divisi in due colonne, una da Pisa e l’altra da Firenze alla volta di Modena. […]. Oh meravigliose a vedere quelle legioni improvvisate, nelle quali il medico, l’avvocato, l’artigiano, il prete, il padrone e il servo marciavano mescolati in culto d’Italia. La sera del 27 maggio Radetzky esce da Verona con 32.000 uomini e 40 pezzi d’artiglieria. Pensava disfarsi in quattro e quattr’otto di noi varcando il Ticino e mettendosi alle spalle dei piemontesi.
La mattina del 29 tutta la mole dell’armata nemica piomba sopra di noi. O forti anime antiche, che a questo sole del 29 maggio vedeste fiaccato l’orgoglio di Barbarossa, venite a vedere degnamente celebrato l’anniversario di Legnano!
Fummo chiamati sull’arme verso le nove. Faceva bellissimo giorno. Dopo un’ora che stavamo invano aspettando tuonasse il cannone, il colonnello Campia, preposto alle milizie di Curtatone, mi domanda se la nostra compagnia si sentirebbe d’andare a scoprire il nemico. Malenchini prese con sè dieci o dodici, e mosse fuori della trincea. In meno di dieci minuti comincia il moschettare. D’Arco Ferrari non aveva voluto radere la campagna per riguardo ai proprietari di quella; cosicchè gli archibusieri nemici venivano fino sotto i parapetti, nascosti fra le spighe.
Poco dopo Curtatone la zuffa si appiccò a Montanara.
Laugier era risoluto a tener fermo, finchè non giungessero gli aiuti piemontesi per ripetuti dispacci promessigli. Fra il fulminare dei moschetti e dei cannoni esce a cavallo fuori dei parapetti e coll’esempio insegna prodezza. Dovunque passava era un agitare di caschetti in cima alle baionette, e un osannare all’Italia. Giunto a Montanara, domanda a Giovanetti, preposto colà, perchè faccia combattere i bersaglieri all’aperto. Egli sorridendo risponde: – Gli Italiani devono mostrare il petto al nemico.
Più volte gli Austriaci ci assaltarono, e più volte li ributtammo.
Un esile drappello guidato dal capitano Contri mosse da Curtatone a molestare il fianco sinistro del nemico. Si affronta con foltissime colonne e fa loro assai danno. Due battaglioni gli vengono sopra, e lo costringono a ripiegare. Rinfiammato dalle parole di Laugier, e alcun poco rinforzato, tornava all’assalto, e costrinse momentaneamente i battaglioni tedeschi a dar volta.
Il battaglione degli Scolari, lasciato nella retroguardia alle Grazie a udire il tumulto della zuffa, a vedere portati colà i primi feriti, non raffrenò la bramosia del pericolo, e quando Laugier facevalo chiamare, perchè ancor esso pagasse alla patria tributo di sangue, trovavasi dove gia più ferveva la zuffa. Ecco l’eletta schiera sul ponte dell’Osone… Oh tesoro d’accumulato sapere! Oh pregnanza di scoperte! Oh patrie speranze, e orgogli, e affetti materni in cimento! Qual vuoto per l’umanità, se sparisca alcuno di quei principoni teutonici pugnanti contro di noi? Ma in questo breve spazio occupato dalla sacra legione del pensiero toscano, ogni palla nemica minaccia inestimabili danni… Qui principi di sapienza e di civiltà: un Mossotti, un Piria, un Burci, un Pilla! [tra i volontari combatterono valorosamente numerosi studenti e professori, ndr] E una cannonata lì nel ponte rapiva al mondo questa cima in geologia di Leopoldo Pilla, che spirò dicendo: – Non ho fatto abbastanza per l’Italia – Cadevagli poco discosto Torquato Toti, giovanetto d’ingegno arguto come la valdarnina aria nativa, discepolo mio dei più promettitori.
Ammutolirono i nostri due pezzi, coi quali il tenente Niccolini faceva assai danno al nemico. Un razzo caduto sulla cassa delle polveri suscita un incendio, che uccide o ferisce gran parte degli artiglieri. Niccolini è ferito. Una aiuola lì appresso ai cannoni, dove io combatteva, mi rese imagine di bolgia infernale. La lieta faccia del cielo velata dal fumo della battaglia, una casa e un pagliaio in fiamme, l’aria arroventata, le cannonate spesseggiano, sibilano palle, piovono bombe, gli artiglieri incendiati corrono qua e là chi ignudo, chi stracciandosi le vesti in fiamme; e nulladimeno in cotesto inferno raggia dal volto dei combattenti letizia celeste, e giovanetti imberbi combattono da leoni, e ogni evviva all’Italia rinfresca l’entusiasmo della battaglia come se allor cominciasse.
A Montanara gli Austriaci dapprima investirono l’ala sinistra, forse con intenzione di gettarsi fra i due campi, e separarli. Ributtati da cotesta parte, assaltarono l’ala destra e il fronte nel medesimo tempo, per impedire che a quella venissero aiuti. Il maggiore Beraudi, piemontese, sostenne con due sole compagnie di civici, quasi tutti fiorentini, una intiera brigata provveduta di cannoni e di bombe: cadde ferito nel mezzo al petto: quei civici disputarono al nemico a palmo a palmo il terreno. Gli Austriaci insignorivansi di un cimitero e d’una casa alla destra di un campo, dalla quale facevano fuoco in Montanara; i nostri tentarono cacciarli di lì, e in questa sanguinosissima fazione i soldati napoletani del decimo reggimento, assoldati dal governo toscano, fecero meraviglie.
E meraviglioso era in quel mezzo l’eroico affaccendarsi a rianimare la batteria di Curtatone. ll foriere Gaspari, uno degli abbruciati nell’incendio delle polveri, rimettesi all’opra ignudo. Chigi, Castinelli, Camminati, Pecliner, Folini, Calamai, Paoli, Minucci, Meini, De Champes, sotto la grandine delle palle danno mano al lavoro. Per dar fuoco ai pezzi si adoprano fiammiferi, e stracci di vesti incendiate; havvi chi scarica sul pezzo pistola o archibuso. Oh gioia, quando risentimmo la voce dei nostri cannoni! L’entusiasmo italiano passava ogni misura.
Laugier aveva contato sopra gli aiuti piemontesi. Non vedendoli arrivare, pensò se dovesse ordinare la ritirata. Combattevano da più di sei ore. Prolungare la zuffa era sparger forse inutilmente sangue prezioso. D’altronde la ritirata con truppe amalgamate a caso, con capi i più inesperti di militari esercizi, senza riserva, nè artiglierie che proteggessero il passo del ponte, minacciava convertirsi in disfatta. ln questo contrasto d’opposti consigli, arriva a Laugier un messo di Giovanetti e gli chiede se abbia a ritirarsi. Risponde di sì, e una volta ordinato il ritirarsi ai combattenti di Montanara decise lo stesso per quelli di Curtatone. Cerca del Campia, e del Chigi. Campia era ferito… Ghigi gli viene incontro colla mano sinistra tronca da una cannonata, e con mirabile stoicismo agitando il sanguinoso moncherino gridava: – “Viva l’Italia; e maledizione a quelli che gridano in piazza, e sul campo non vengono. – Poste due compagnie di fanti dietro al ponte, Laugier recasi da sè alla destra del campo, e sotto voce, uomo per uomo, commette di cominciare lentamente la ritirata. Ma non appena fu vista indietreggiare la destra, che, rotte le file d’ogni parte, accorrevano frotte disordinate sul ponte, e se ne attraversavano il passo scambievolmente.
La compagnia di Malenchini, ferma alla trincea, giovava a nascondere al nemico cotale confusione. Malenchini ci fa segno di andargli dietro. lo era così lontano da pensare alla ritirata, che credei fossimo destinati a qualche scorreria. Giunto al ponte, vedo il ritirarsi tumultuante; parmi sentirmi addosso la cavalleria ulana; immagino lo scherno teutonico a sorprenderci in rotta; vampa d’orgoglio italiano mi accende; arringo sul ponte i compagni; grido esser quello l’istante di mostrarci degni dei padri nostri, e non buoni soltanto, come ci accusavano, a rivoluzioni di canti; grido che chi si sente cuore italiano indietreggi meco a morire sulle trincee…
Ma mentre stavo per trarre il primo colpo, una palla di schioppo mi passa fuor fuora nella spalla sinistra. Sentii come darmi una mazzata di ferro; piegai, non caddi. Ad un vicino domando dov’ero ferito, e veduto solamente il foro onde la palla era escita, mi risponde: – Dietro le spalle. – Malenchini accorse ad assistermi; voleva portarmi via di lì; io resistevo, parendomi sentirmi ancora in forze da sostenere la battaglia. In lottar coll’amico gli occhi mi si velano; un sudore ghiaccio mi corse le membra; credei suonata per me l’ultima ora. Oh bella la morte sul campo! Solo una lieve nube mi turbava quella serenità del morir combattendo: il credere di essere ferito veramente dietro le spalle. Sapevo con che accanimento i miei nemici politici mi avevano calunniato; mi parve sentirli continuare a calunniarmi ancora, dicendomi morto d’ignominiosa ferita. E perciò dissi a Malenchini quelle parole, che egli religiosamente ripetè quando, supponendomi morto, in Lombardia e in Toscana mi si facevano i funerali: – Farai fede che caddi guardando il nemico…
Dal deliquio che mi aveva dato lo uscire abbondante del sangue, mi riebbi in una stanza della casetta del mulino al fracasso delle irrompenti orde croate. Due miei commilitoni, Morandini e Colandini, avevano sfidata la prigionia per assistermi. Dicono al capitano croato che entra nella stanza: – Fate quel che volete di noi, ma salvate il nostro ferito. – E il capitano al cuore rispose col cuore, dicendo: – Non temete, siamo tutti cristiani. – E raffrenò la soldatesca infuriata che voleva darci addosso. Era Colandini un giovane popolano livornese, tutto cuore. Era Morandini una perla di.cittadino, dottore in matematiche, ricco d’ingegno e di cuore, altrettanto virtuoso, quanto modesto. L’amicizia mostratami dai due gentili in cotesto frangente, è uno di quei doni vinti in grandezza soltanto dalla gratitudine alla quale legano. Levato dalla casa del mulino, una stridula voce di cui sento ancor dentro l’asprezza, diceva: – I ƒeriti da sè, – e fui separato dai miei angioli tutelari. Nell’ultimo bacio al mio Morandini sentii così mancarmi ogni cosa più cara come se mi si chiudesse sul capo la tomba.
E trovarmi fra soldatacci briachi, che a scherno mi urlavano in faccia il Viva Pio IX, e in vece dei nostri bei tre colori veder l’odiato giallo e nero, e rappresentarmi la morte in un lercio spedale austriaco, e sentirmi diviso dalla vita dell’Italia sorgente… oh come tetro a’ miei sguardi il sole del 29 maggio imporporava le torri di Mantova!
Ma a voi, povere madri toscane, che non ritrovaste fra i reduci i figli consacrati all’Italia, a voi sovrastava ben altra amarezza… vedere la patria ancora in catene malgrado cotanta immolazione; vedere l’Austriaco vincitore incoronato di mirto insultare al vostro letto sulle rive dell’Arno; vedere cancellati i nomi degli eroi dal tempio di Santa Croce, dove Firenze avevali scolpiti, in comunione d’apoteosi con Dante! Coraggio, povere madri, questa notte dell’anima passerà!
Leopoldo austriaco ha potuto cacciare i nomi dei ricominciatori di gloria a Toscana dal Pantheon dei nostri grandi, ma non li caccerà dai cuori toscani, dove vivono incisi a cifre d’amore. E i loro spiriti si aggirano invisibili fra le baionette tedesche; e parlano accenditrice favella alla generazione che sorge; e nel mese di maggio, quando fiorisce la rosa, e l’usignolo innamorato della rosa canta sulle rive del Mincio, la madre mantovana sparge di fiori la terra di Curtatone e Montanara, e dice al figliuoletto: Qui i giovani toscani morivano gridando: Viva l’ltalia! E in queste arcane corrispondenze di affetto l’idea italiana si matura.
Giuseppe Montanelli. Dalle Memorie, II, 337.
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